L’ardesia, tanto per cominciare, è diventata simile a un strato di gusci e di ali di scarafaggi, solo che ha le diverse sfumature del tono smorzato dell’argento. Al di fuori (naturalmente perché ci siamo stati di domenica), sullo sfondo di un cielo grigio molto delicato, terso, argenteo, si stagliano gli ornamenti di piombo dei segnavento e delle decorazioni: figure minute, o che sembrano tali, di cavalieri che impugnano le lance, di teste contorte di salamandre che sporgono dai rami delle campanule, che spuntano dalle fronde delicate delle felci, o che sono avvolte da petali di fiamma. Si potrebbe immaginare che i folletti dei raggi di luna e delle nuvole siano rimasti intrappolati, una notte, e siano stati inchiodati per sempre sulle torrette a punta del castello.
Mentre prendevamo il tè (da mani, ahimè, non invisibili) alla locanda del Grand Monarque, la poetessa ed io discutevamo sulla eventualità che Azay-le-Rideau avesse potuto essere, in un periodo della sua storia, proprietà della vecchia fata che teneva principi e principesse chiusi nella sua uccelliera, i quali passavano dalle sue mani a quelle del pastore Joringel e della sua Jorinde. Un passato ben più appropriato e più rispettabile di quello dei castelli, tanto per dire, di Loches e di Amboise!
Siena e Simone Martini
C’è un particolare medioevo nel medioevo, un carattere inconfondibile nel medievalismo di fondo il quale si estinse senza, diciamo così, eredità alcuna, senza lasciare nulla che i tempi seguenti avessero potuto elaborare o migliorare; un medioevo che non si sarebbe mai cangiato in alcunché di moderno. Fui colpita con grande intensità da questa sensazione ritornando da Siena, per la dodicesima volta, all’inizio di questa primavera. Così isolata tra querceti di notevole altura e aride collinette di creta vulcanica, questa bella città ebbe in casa la propria civiltà, così come l’acqua piovana dei propri bottini e, cosa ancor più caratteristica, volle essere costruita senza mantenere traccia di tempi anteriori e quasi nessuna aggiunta di quelli posteriori, in un momento assai particolare, poco prima che scoppiasse la peste del quattordicesimo secolo. È costruita in bellissimi mattoni color rosa, con eleganti aggetti e bifore ogivali, baluardi e torri che, simili a fiori, svettano ovunque sulla valle. Gaia, semplice, un po’ convenzionale, eppure cavalleresca e romantica, è una città dove, come l’ha dipinta Lorenzetti nel suo grande affresco, le fanciulle potevano danzare per le strade cantando en ronde, come quelle che Dante ancora ragazzo incontrò il giorno di Ognissanti. Il Dante ragazzo, poiché mi sembra che, per quanto la Divina Commedia derivi dal mondo antico dischiudendo le porte di quello moderno e dello sconfinato futuro, la Vita Nuova appartiene a quel genere di medioevo che, per così dire, morì giovane e senza eredi, il medioevo di questa città color rosa, murata e turrita. Greci e romani non vi hanno seme, e quanto alla Vita Nuova, non è altro che il fiore perfetto della poesia d’amore medievale, donchisciottesca e mistica, dei casuidici Cavalcanti e Guinizzelli, dei Rudel e dei Vital e dei Ventadour di Provenza, incantevoli, convenzionali eppure matti come le stacce. Questo genere di medioevo rappresentato da Siena (Pisa infatti ci parla di tempi anteriori, bizantini, mentre Firenze e Venezia vivono appassionatamente nel Rinascimento), questo medioevo dalle mura rosate e dalle torri a strisce (tipiche delle scatole dei balocchi, e tali e quali furono amate dai Primitivi, fino all’Angelico), ci ha lasciato altre testimonianze d’alta perfezione: le leggende di S. Francesco, le novelle più romantiche del Decamerone e soprattutto Aucassin et Nicolette.
Una delle caratteristiche principali di questa particolare arte medievale è che non conosce altra stagione all’infuori della primavera. Questo forse è stato il motivo per cui questa volta Siena mi ha colpito per il suo assoluto volto medievale, infatti non c’ero mai stata in aprile. Il verde smagliante del grano, la tenerezza delle foglie, gli alberi ovunque in fiore sui pendii, entro le mura e fra le torri, mi riportarono alla mente la dolcezza ornamentale e squisita di questo genere particolare di medievalismo e mi fecero apprezzare (per la prima volta appieno) l’incanto particolare della pittura senese. Debbo confessare che traggo piacere dall’idea che ha reso i critici recenti così spietati nei confronti della scuola senese, idea secondo la quale essa non avrebbe condotto in nessun luogo. Non fu certo segno di lungimiranza da parte dei senesi il continuare a produrre dolci Madonne e santi ferventi vestiti di abiti ricamati come quelli apparsi a Matilde di Magdeburgo, su splendidi fondi d’oro stampigliato, senza muovere dito per affrettare l’avvento di Michelangelo, di Leonardo, di Tintoretto, di Velasquez, o dei membri della Accademia Reale o degli odierni «fuori concorso». Come i fiorentini, trentanove miglia al di là dei querceti e delle vigne del Chianti, costoro avrebbero dovuto faticare fino all’esaurimento per studiare l’anatomia, la prospettiva, il movimento e tutto quanto permea lo spirito moderno. Ma non vollero o non poterono farlo, e da parte mia ne sono più che felice. Nell’arte come nella vita c’è spazio per tante cose. Oltre al progresso, che talora richiede doti di ruvidità e fermezza e quasi sempre un’incredibile testardaggine, c’è la quiete, il fascino dell’acqua immobile. Simili alla loro città natale, medievale allorché il medioevo era del tutto esaurito, questi poveri senesi ci hanno lasciato dipinti di squisito incanto cromatico con cappe ricamate e aureole sfrangiate e l’incanto e la dolcezza di volti di Madonne, di angeli e gentili, melanconici anacoreti: un giardino murato di medievale fanciullezza e di grazia, di fiori la cui fragranza inebria la mente e il cui fascino ammalia la vista. Siamo loro grati di averlo mantenuto intatto sotto le mura rosate di questa città collinare. Il mondo è abbastanza grande perché altri s’impegnino in diverso modo nel divino gioco dell’arte. Perché non dovrebbe essere altrettanto ampia la nostra comprensione?
Sì, non mi vergogno di dirlo, non amo Sano di Pietro, Andrea di Vanni, Giovanni di Paolo e Girolamo di Benvenuto (le loro qualità peggiori sono questi vaghi patronimici), solo per le loro opere maggiori che mi ricordano parti del Parsifal di Wolfram e Aucassin et Nicolette e i Fioretti di S. Francesco, ma per la loro immobilità e l’ingenuità che possono scendere al livello delle filastrocche per bambini: meravigliosi giardini cosparsi di rocce grigie e azzurre, con minuscoli eremiti in manti a strisce impegnati nella gestione della casa, con pozzi in miniatura e animali di legno, e giardini del paradiso dove angeli, belle dame, giovinetti in turbante e gonnellino, imponenti messeri e tutti i poveri, piccoli Innocenti del fatidico massacro passeggiano fra gigli alti venti piedi, viole abbastanza grandi da nascondere i conigli e fragole grosse come la testa di una persona. Tutto questo si addice a Siena e sono felice che Siena gli si addica.
E ora veniamo a Simone Martini. Infatti se Siena non fosse stata ciò che fu realmente, la concentrazione di tutto ciò che è medievale, incapace come fu di andare oltre il medievalismo, non avrebbe mai potuto generare un pittore come lui. E se non l’avesse fatto Siena, non l’avrebbe potuto generare nessun altro luogo al mondo. L’opera di Simone Martini, ahimè, è molto più dispersa e rovinata di quella di ogni altro grande.
1 comment