Gerusalemme liberata


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Prima edizione e-book: marzo 2012

© 1995 Newton & Compton editori s.r.l.

© 2008 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-3902-2

In copertina: Francesco Hayez, Rinaldo e Armida (particolare)

www.newtoncompton.com

Edizione digitale a cura di geco srl



Torquato Tasso


Gerusalemme liberata



A cura di Marta Savini

Introduzione di Ferruccio Ulivi


Edizione integrale





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Introduzione


Su nessun poeta di prima grandezza della letteratura italiana è gravata altrettanto l’ombra, o la luce sfalsante, di un mito biografico come nel caso del Tasso: e si pensi alle dissertazioni e invenzioni che gli furono annesse nel periodo romantico; ma con molta più convinzione e soprattutto con elementi più concreti e verificabili, è lecito affermare oggi, grazie a una lunga e benemerita inchiesta critica nonché erudita, che probabilmente nessun altro grande poeta è stato così presago di sviluppi nel senso del gusto e dei risolvimenti stilistici alla stregua di Torquato Tasso; il solo, forse, a cui si possono riferire come connotazione originaria elementi e argomenti mentali, psicologici, letterari, venuti a pieno in luce molto più tardi: non solo in epoca romantica, bensì persino, talora, decadente.

Riassumere per sommi capi l’esistenza, cronologicamente intesa, del poeta è relativamente facile, anche se si trattò pur sempre di una peripezia arricchita e inquietata da opposte attrazioni, colpita, anzi disastrosamente folgorata, da eventi che avrebbero fiaccato la fibra dell’uomo e alterato e compromesso il prevedibile sviluppo del suo lavoro. Non ci sarebbe voluto troppo, ciò considerato, a incrementargli intorno una leggenda. Leggenda, anzi mitificazione, che avrebbe avuto l’apice e l’obiettivo, comprensivo adempimento nelle lacrime versate da Leopardi a Sant’Onofrio, qualche secolo dopo, sulla tomba del poeta. Inevitabile e almeno parzialmente legittimo impulso in tal senso scaturì, specie ai fini dell’inchiesta religiosa, dalla contemporaneità con la crisi della Controriforma, anche se è necessario evidenziare che quella crisi non fu avvertita e subìta da Torquato come una sovrapposizione, in antitesi con la sua vera natura, ma in modo autentico come una conseguenza immanente allo spirito dell’opera, incrementata seppure in modo rovinoso dalla sventura.

Col Tasso, con la sua acuta, intraprendente consapevolezza estetica, stilistica, linguistica, acuita da sollecitazioni di indole pittorica e musicale, nonché dalla conoscenza vasta e profonda di una letteratura poetica, storica, filosofica, teologica, anche i rapporti tra le arti entravano nell’area letteraria tradizionale; ed ai capolavori del poeta e soprattutto, s’intende, alla Gerusalemme liberata, si accompagnava un’eccezionale serie illustrativa, sviscerandone le più seducenti motivazioni. Tutto ciò non proveniva da stimoli interni, ma dal timbro stesso di quella poesia, la cui qualità, complessa e in qualche aspetto persino difficoltosamente interattiva o addirittura animata da spinte contraddittorie, avrebbe imposto formulazioni critiche non meno problematiche, come quella di un attributivo manieristico. La verità è che non c’era chiave adeguata per spiegare tutto ciò, anche se l’effetto rappresentativo d’insieme veniva a coincidere con più di un suggerimento del genere, ai fini di un giudizio complessivo di «autunno del Rinascimento», oppure ai fini del fenomeno che ebbe nome dal Manierismo figurativo.

Ma ritorniamo ai modi con i quali si sviluppò nel Tasso la circostanza esistenziale sofferta e almeno in parte da lui stesso provocata. Il punto di partenza risiede, forse, nella peripezia che lo vide, appena cresciuto, costretto ad abbandonare la casa d’origine e la madre, che non avrebbe incontrato più per l’immatura scomparsa di lei, sulle orme del padre Bernardo; il quale, al servizio del principe di Sanseverino, si era legato fedelmente a costui, seguendolo nell’esilio quando, nel 1552, era stato dichiarato ribelle dal viceré di Napoli, don Pietro di Toledo. Ci fu un breve soggiorno accanto alla madre e alla sorella Cornelia, dopo Salerno, a Napoli; ma quando il padre rientrò a Roma, negli ultimi mesi del ’54, il distacco fu definitivo. Nato l’11 marzo del 1544, il ragazzo aveva allora appena dieci anni. Due anni dopo, Bernardo passò ai servizi del duca Guidubaldo ii della Rovere; dal ’59 al ’65 ebbe luogo una serie ininterrotta di trasferimenti, conclusa solo nel ’65 con l’approdo a Ferrara. La madre gli era morta due anni dopo l’ultimo distacco, nel ’54, e quella scomparsa a distanza dové incidersi con profonda amarezza nell’animo di lui. Non meno dovettero intervenire i continui trasferimenti successivi, alla guisa di un ossessivo presagio. Era passato da una residenza all’altra senza aver mai a prevederne una propria. A parte l’attitudine nativa, l’instabilità doveva essergli entrata nel sangue; la sola casa, il solo ambiente di vita gli appariva la corte, con gli intrighi, le amistà e i rancori, il fascino e i vizi e l’immancabile soggezione a un padrone da cui tutto dipendeva. Il carattere gli si era preformato su questi presupposti e, accanto a ciò, l’aspirazione a sopravanzare col solo strumento personale di cui disponesse, la versatilità poetica. E se un presagio, un destino poteva essere suggerito da una certa situazione di vita, tale fu certamente quello del Tasso, avvantaggiato in tutti i sensi dallo spontaneo, irresistibile consentimento del carattere.

Certo, intervennero fatti nella società storica del tempo che provocarono le adozioni dello scrittore, a partire da talune reminiscenze infantili, acquisite grazie a qualche suo primo educatore, intorno a un motivo attuale della politica mediterranea, dovuto alla minaccia del Turco. Anche in famiglia ce n’era stata un’eco, quando la sorella Cornelia, a Sorrento, aveva potuto sottrarsi a stento a uno sbarco di pirati sulla costa amalfitana. Il progetto di occuparsi di quell’argomento diede luogo nell’adolescente a un abbozzo di un centinaio di ottave intitolato Il primo libro del Gierusalemme; in esso prendeva forma, se non la traccia eroica a cui il sedicenne aspirava, un tessuto di argomentazioni dibattute intorno a quel genere letterario che il Trissino aveva invano tentato nella sua Italia liberata da’ Goti, e che era al centro degli interessi creativi del tempo, col declino e la ripetizione ormai stanca della formula cavalleresca.

A un soggetto poematico del genere si orienta tuttavia, anche per la vicinanza all’opera del padre, Torquato, nel primo, importante impegno poetico, il Rinaldo (edito nel 1562). Le imprese celebrate erano dunque quelle di un Rinaldo, mitico capostipite degli Estensi – è in questo periodo che Torquato presta servizio presso il cardinale Luigi, fratello di Alfonso ii –; celebrazione, beninteso, all’insegna dell’avventura, degli amori tanto più suggestivi quanto più imprevisti e fuori del comune, degli interventi magici, della continua, rampollante serie avventurosa. Nulla di nuovo pertanto rispetto alla tradizione in voga – Torquato stesso aveva prestato valida collaborazione al padre nella stesura di un suo poema, l’Amadigi di Gaula –; ma senza dubbio, in quello sfruttato filone, un tocco giovanile di baldanza, uno slancio verso la stupefazione del mito e, soprattutto, nel nuovo adepto poetico, una vena soggiacente di pathos soggettivo, di coinvolgente appassionamento agli eventi narrati, dove l’incipiente autore riusciva a trasfondere la profusa dedizione dell’animo, quasi in connivente presentimento dell’avventura di poeta che, da parte sua, sta iniziando.

Nel suo poema Torquato ha l’aria di percorrere vie tradizionali; ma anche nel discorso, cioè nell’intimo della parola, è come s’insinuasse un che d’intenso e accalorato o, addirittura, di complicato e tortuoso; e, accanto a tutto ciò, un che di credulo e affascinato, quasi per l’impellente volontà di trasfondersi in immagini pur ritenute illusive. Infine, al di sopra di tutto, al di sopra di quel tanto di convenzionale che ricorre nel formulario cavalleresco-avventuriero, ecco profilarsi qualcos’altro, l’entusiasmo dell’autore verso quell’atmosfera di vacanza aulica ed erotica. Il sentimento della scorribanda cavalleresca non riposa ormai qui nello schietto gusto guerriero alla Boiardo, o nel libero affidamento alla fantasia dell’Ariosto, ma in una sorta d’indefinito esotismo che si preannuncia nell’uso di qualche termine diventato caratteristico del Tasso in futuro. Sembra insomma che la natura venga ad acquisire già qualcosa delle risonanze magiche della prossima poesia. Natura fra irreale e surreale di cui Torquato, per intanto, ci elenca alcuni degli effetti; e si veda, in modo tipico, il viaggio di Rinaldo fuori di una valle oscura, sino al fiabesco svelarsi di un fiume che «d’oro l’arene, i pesci avea d’argento, / le sponde adorne de’ più bei colori», al canto XI. E si omettono certe zone decisamente artificiose, che tuttavia interessano per rivelarci un gusto in grado di scorrere all’orrido e tenebroso, con più di una accentuazione cromatica capace di raccogliere gli sparsi spunti e le peregrine deviazioni.

Ma è soprattutto dalla data dell’arrivo del Tasso a Ferrara, a servizio del duca, e dalla prima impresa poetica decisiva, la favola pastorale, che si attiva in modo originale il residuo naturalismo cinquecentesco, e, col naturalismo sapientemente assaporato, il gusto paesaggistico e la sapienza nel tessere intrighi psicologici ed esistenziali del poeta, ormai al colmo della sua precoce maturità.

Nell’Aminta il sentimento della natura è irrompente. Si potrebbe parlare di un incontro con la fantasia visionaria e illusionistica di un grande pittore coevo, il Tintoretto. Il sobrio e realistico naturalismo medio-rinascimentale si accende fin quasi all’allucinazione; luci e ombre o mezz’ombre potentemente ricolorate diramano il sentimento di un paesaggio tortuoso, fantastico, inesplorato che si perde in prospettive visionarie, e una cadenza magica sembra animare gli aspetti più segreti di quella realtà. Smarrita la corrispondenza alla realtà politica e sociale del momento, la poesia aulica del Cinquecento maturo mira ormai a fornire prospettive eleganti e stilizzate. Anche la corte si è fatta a suo modo un’isola incantata, un palagio fuori della vita. Un ideale progetto di corte appare anche nell’Aminta; e se il poeta ne dà il contrapposto con qualche ombreggiatura polemica, si direbbe che si addolori di ciò che rilutta al suo sogno di perfezione, una perfezione artificiosa, che tenga in riserva immagini ancora più inverosimili e affascinanti, quasi un presagio della fuggevole felicità che gli irriderà tutta la vita.

Anche dov’è più convenzionale il paesaggio dell’Aminta è infuso del senso di un lucido delirio; basti ricordare un passo come il racconto dell’ape che ha punto Filli, attinto da Achille Tazio; oppure il monologo del Satiro; o il tratto alquanto convenzionale e illustrativo, ma stupendamente e magicamente illusivo, di Silvia che si specchia nello stagno godendo della sua bellezza.