The Failure of Humanism, in «Critical Quarterly», vol. 24, n. 3, autunno 1982, pp. 19-30.
Deidda, Angelo, 1984. «Before We Forget», in Bertinetti, Roberto – Deidda, Angelo – Domenichelli, Mario, L’infondazione di Babele. L’antiutopia, Franco Angeli, Milano 1983, pp. 58-100 e passim.
Crick, Bernard, Introduction, in Nineteen Eighty-Four, Clarendon, Oxford 1984.
Eco, Umberto, Introduzione, in 1984, trad. di Gabriele Baldini, Mondadori, Milano 1984.
Johnstone, Richard, George Orwell, in The Will to Believe. Novelists of the Nineteen-thirties, Oxford University Press, Oxford-New York 1984, pp. 119-29.
Manferlotti, Stefano, Anti-Utopia. Huxley Orwell Burgess, Sellerio, Palermo 1984.
Besançon, Alain, La Falsification du Bien. Soloviev et Orwell, Julliard, Paris 1985 (La falsificazione del bene. Solov’ëv e Orwell, trad. di Rosanna Albertini, Il Mulino, Bologna 1987).
Kumar, Krishan. Utopia and Anti-Utopia in Modern Times, Basil Blackwell, Oxford 1987 (Utopia e antiutopia: Wells, Huxley, Orwell, a cura di Raffaella Baccolini e Lucia Gunella, introduzione di Vita Fortunati, Longo, Ravenna 1995).
Dibattista, Maria – McDiarmid, Lucy, How Lawrence Corrected Wells, How Orwell Corrected Lawrence, in High and Low Moderns. Literature and Culture, 1889-1939, Oxford University Press, Oxford 1996.
Berardinelli, Alfonso, L’eroe che pensa: disavventure dell’impegno, Einaudi, Torino 1997.
Battaglia, Beatrice, Nostalgia e mito nella distopia inglese: saggi su Oliphant, Wells, Forster, Orwell, Burdekin, Longo, Ravenna 1998.
Fenwick, Gillian, George Orwell: A Bibliography, St Paul’s Bibliographies, Winchester 1998.
Giacopini, Vittorio, Scrittori contro la politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
Newsinger, John, Orwell’s Politics, Macmillan, Basingstoke 1999.
Hitchens, Christopher, Orwell’s Victory, Allen Lane, The Penguin Press, London 2002 (La vittoria di Orwell, trad. di Egle Costantino, Libri Scheiwiller, Milano 2008).
Bluemel, Kristin, George Orwell and the Radical Eccentrics: Intermodernism in Literary London, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2004.
Dickstein, Morris, Hope against Hope: Orwell and the Future, in A Mirror in the Roadway, Literature and the Real World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2005.
Giorni in Birmania
1
U Po Kyin, un magistrato del sottodipartimento di Kyauktada nella Birmania superiore, stava seduto nella veranda di casa sua. Erano solo le otto e mezzo, ma si era già nel mese di aprile e si sentiva nell’aria come un’oppressione, la minaccia delle lunghe ore soffocanti del meriggio. A tratti, lievi folate di vento – che per contrasto sembravano fresche – agitavano le orchidee appena annaffiate, pendenti dalla grondaia. Al di là delle orchidee si scorgeva il tronco curvo e polveroso di una palma, e poi il cielo sfolgorante color oltremare. Allo zenit, così in alto che abbagliavano solo a guardarli, alcuni avvoltoi roteavano senza un palpito d’ala.
U Po Kyin, simile a un grande idolo di porcellana, fissava, senza battere ciglio, il feroce splendore del sole. Era un uomo sulla cinquantina, obeso al punto che da anni non poteva alzarsi dalla sedia senza aiuto, e tuttavia ben fatto, anzi bello nella sua pesantezza. I birmani infatti non si gonfiano e non si deformano come gli europei, ma ingrassano armoniosamente come un frutto che maturi. Aveva un viso ampio, giallo, ancora senza rughe, e gli occhi bruni. I piedi, larghi e molto arcuati, con le dita tutte della stessa lunghezza, erano nudi e nuda la sua testa rasata; indossava uno di quei vivaci longyi1 arakanesi, a scacchi verdi e magenta, che i birmani usano portare nell’intimità. Masticava betel, che prendeva da una scatola di lacca sulla tavola, e ripensava alla sua vita passata.
Era stata un’esistenza brillante e ricca di successi, la sua. Il ricordo più remoto di U Po Kyin risaliva al secolo scorso, agli anni Ottanta: era allora un ragazzetto nudo, con la pancina tonda, e assisteva, a Mandalay, all’ingresso delle truppe britanniche vittoriose. Ricordava il suo terrore davanti alle colonne di quei grossi uomini, mangiatori di vacca, con le facce e le giubbe rosse, i lunghi fucili in spalla, e il battere pesante e ritmico dei loro stivali. Benché fanciullo aveva intuito che il suo popolo non era in grado di combattere quella razza di giganti. E, fin da bambino, la sua unica ambizione era stata di mettersi dalla parte degli inglesi, di diventare un loro parassita.
A diciassette anni aveva tentato di procurarsi un impiego governativo: ma, povero e senza amici, non vi era riuscito, e per tre anni aveva lavorato nel fetido labirinto dei bazar di Mandalay, ora come contabile di ricchi mercanti, ora rubacchiando qua e là.
1 comment