Benché per natura fosse tutt’altro che silenzioso, di rado trovava gran che da dire in una conversazione al circolo. Seduto davanti al tavolo, leggeva l’articolo di G.K. Chesterton sul «London News» e carezzava la testa di Flo con la sinistra. Ma Ellis era uno di quelli che pungolano gli altri continuamente, per trovare eco alle proprie opinioni. Così ripeté la domanda. Flory alzò la testa e i loro occhi s’incontrarono. La pelle intorno al naso di Ellis si fece d’un tratto così pallida, da sembrare grigia. Era in lui un segno di collera. Esplose, senza il minimo preambolo, in un diluvio di parolacce che sarebbero apparse stupefacenti, se gli altri non fossero stati avvezzi a sentirle ogni mattina.
«Cristo! pensavo che, in un caso come questo, quando si tratta di tenere quei fetenti maiali neri fuori dall’unico posto dove possiamo starcene un po’ in pace, avresti avuto la decenza di spalleggiarci. Anche se quel giallo con la pancia tonda e la pelle unta è il tuo migliore amico! A me poco importa, se ti garba legarti con la peggior feccia dei bazar. Se ti piace andare a casa del dottor Veraswami a bere whisky con tutti i suoi amici gialli, questo è affar tuo. Fa’ quello che vuoi, ma fuori del club. Altro è, per Dio, quando si parla di far entrare qui gli indigeni! Ti piacerebbe Veraswami come socio, eh? Lo faresti entrare nei nostri discorsi, e dare zampate a tutti con le sue mani sudate, e soffiarci in faccia il suo fiato che puzza d’aglio? Ah, Cristo, volerebbe fuori di qui col mio stivale nel sedere, se mai dovessi vedere il suo muso giallo affacciarsi alla porta! Sudicio pancione…»
E così continuò per un bel po’. Faceva impressione ascoltarlo, perché era sincero. Ellis odiava realmente gli orientali, li odiava con incessante, amara ripugnanza, come qualcosa di sporco e di malvagio. Nella sua qualità di assistente di una società di legnami, era costretto a vivere in perpetuo contatto con i birmani, ma non era riuscito mai ad abituarsi a loro. Il più piccolo gesto di gentilezza verso gli orientali gli sembrava un’orribile perversione. Era un uomo intelligente e un abile impiegato, ma uno di quegli inglesi, ahimè troppo numerosi, ai quali non si dovrebbe mai concedere di mettere piede in Oriente.
Flory sedeva accarezzando la testa di Flo, e si riconosceva incapace d’incontrare gli occhi di Ellis. Nei momenti più delicati, la sua deformità gli rendeva difficile guardare dritto in faccia le persone. E come fu pronto a parlare, sentì che la voce gli tremava, ciò che gli accadeva per l’appunto quando avrebbe voluto evitarlo a ogni costo. Il viso stesso, a volte, sussultava nervosamente.
«Calmati» disse infine di cattivo umore e piuttosto debolmente. «Calmati, non occorre scaldarsi tanto. Io non ho mai suggerito di accettare soci indigeni.»
«Ah, no?… Ma se lo sappiamo tutti anche troppo bene quanto ti piacerebbe! E perché allora vai tutte le mattine in casa di quell’unto piccolo babu? Ti siedi con lui davanti a un tavolo come se fosse un bianco, e bevi in bicchieri che lui ha sbavato con le sue labbra sporche. Se ci penso, mi viene da vomitare.»
«Siediti, vecchio mio, siediti» disse Westfield. «Lascia andare, bevi. Fa troppo caldo per litigare.»
«Dio mio» disse Ellis un po’ più calmo, muovendo qualche passo in su e in giù. «Dio mio, non vi capisco, ragazzi. Proprio non vi capisco. C’è questo vecchio pazzo di MacGregor che vuole ammettere un indigeno al circolo senza un motivo, e voi ve ne state lì seduti senza dire una parola. Ma buon Dio, che ci stiamo a fare in questo paese? E se non siamo qui per comandare, perché allora, per tutti i diavoli, non ce ne andiamo? Siamo qui, dovremmo governare un branco di dannati porci che sono stati schiavi fin dal principio della storia, e invece di comandarli, nell’unico modo che capiscono, li trattiamo da pari a pari! E tutti voi, c… che non siete altro, vi ci adattate come pecoroni.
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