R... 

Qualità che in una desolata spedizione nelle ghiacciate solitudini della regione polare avrebbero fatto di lui il capo, la guida, il consigliere la cui natura, né ottimista né depressa, esamina con serenità che cosa sta per accadere e lo affronta, gli vennero nuovamente in aiuto. R... 

L’occhio della lucertola tornò a guizzare. Le vene sulla fronte gli si gonfiarono. Il geranio nell’anfora divenne visibile in modo stupefacente e, distesa tra le foglie, vide, senza volerlo, la vecchia, ovvia differenza tra due classi di uomini; da un lato quelli che avanzano a passo regolare con forza sovrumana e, con fatica e perseveranza, ripetono l’intero alfabeto in ordine, tutte le ventisei lettere, dall’inizio alla fine; dall’altro, i dotati, gli ispirati che, miracolosamente, mettono insieme tutte le lettere in un lampo — il modo d’agire del genio. Lui non aveva genio; non poteva pretendere di averne; ma aveva, o avrebbe potuto avere, il potere di ripetere ogni lettera dell’alfabeto in ordine preciso da A a Z. E frattanto, era incagliato alla Q. Avanti, allora, avanti verso la R. 

Sentimenti che non sarebbero stati indegni di un capo che, ora che la neve ha incominciato a cadere e la vetta della montagna è avvolta nella nebbia, sa che deve lasciarsi cadere a terra e morire prima che venga il mattino, si insinuarono in lui, schiarendogli il colore degli occhi, dandogli, nei due minuti impiegati a percorrere la veranda, l’aspetto spento di una rinsecchita vecchiaia. Pure, non si sarebbe lasciato cadere; avrebbe trovato uno spuntone di roccia, e là, 

lo sguardo fisso alla tempesta, cercando fino all’ultimo di penetrare le tenebre, sarebbe morto in piedi. Non avrebbe mai raggiunto la R. 

Rimase immobile, presso l’anfora da cui scendevano i gerani. Dopo tutto, si chiese, quanti uomini su un miliardo raggiungono mai la Z? Senza dubbio, il capo di una speranza perduta può rivolgersi questa domanda, e rispondere, senza ingannare la spedizione che lo segue: “Forse uno”. Uno in una generazione. Dovrà dunque essere biasimato se non è lui quell’uno? purché abbia lavorato onestamente, dando il meglio di sé, fino a non avere più nulla da dare? E quanto dura la sua fama? E concesso anche a un eroe morente chiedersi prima di morire come parleranno di lui gli uomini dopo la sua morte. La sua fama dura forse duemila anni? (chiese ironicamente Ramsay fissando intensamente la siepe). Che cosa sono, se guardi dalla vetta di una montagna nei lunghi deserti degli anni? La stessa pietra che si colpisce con la scarpa durerà più di Shakespeare. La sua piccola luce personale potrebbe rispondere, non molto intensamente, per un anno o due, e poi venir sommersa in una luce più grande, e questa in una ancora più grande. (Guardò le tenebre, l’intrico dei rami.) Chi dunque può biasimare il capo di quella spedizione perduta che dopo tutto è salito tanto in alto da vedere i deserti degli anni e la fine delle stelle, se prima che la morte gli irrigidisca le membra impedendogli il movimento si porta con un certo imbarazzo le dita intirizzire alla fronte, e raddrizza la schiena, perché la spedizione di soccorso, al suo arrivo, lo trovi morto al suo posto, bella immagine di soldato? Ramsay raddrizzò la schiena e rimase perfettamente eretto presso l’urna. 

Chi può biasimarlo, se, immobile là per un momento, si sofferma a pensare alla fama, a spedizioni di soccorso, a tumuli eretti sulle sue ossa da seguaci pieni di gratitudine? Infine, chi biasimerà il capo della spedizione perduta, se, avendo osato fino all’estremo, e speso interamente la propria energia fino all’ultima goccia e essendosi addormentato senza curarsi di sapere se si risveglierà o no, scopre ora da un certo formicolio alle dita che è vivo, e dopo tutto non ha alcuna obiezione, ma richiede subito simpatia, e whisky, e qualcuno a cui narrare le sue sofferenze? Chi lo biasimerà? Chi non si rallegrerà in segreto quando l’eroe si toglie l’armatura, e sosta vicino alla finestra e guarda sua moglie e suo figlio, che dapprima molto lontani si fanno sempre più vicini, fino a che labbra e libro e testa gli sono nitidamente davanti, sebbene ancora amabili e sconosciuti per l’intensità della sua solitudine e i deserti degli anni e la fine delle stelle, e mettendosi infine la pipa in tasca e chinando davanti a lei la sua splendida testa — chi lo biasimerà se rende omaggio alla bellezza del mondo? 

 

7 

Ma il figlio lo odiava. Lo odiava perché era andato da loro, si era fermato e li aveva guardati; lo odiava perché li aveva interrotti; lo odiava per l’esaltazione e la sublimità dei suoi gesti; per lo splendore della sua testa; per il suo spirito esigente e per il suo egocentrismo (poiché se ne stava là, costringendoli a prestargli attenzione); ma soprattutto odiava il suono stridente e ansioso dell’emozione del padre che, vibrando attorno a loro, turbava la perfetta semplicità e il buon senso del suo rapporto con la madre. Sperava di farlo allontanare, fissando ostinatamente la pagina; indicando una parola con il dito sperava di richiamare l’attenzione della madre, che, come rabbiosamente sapeva, si indeboliva appena il padre si fermava. Ma no. Niente poteva far allontanare Ramsay. Se ne stava là, e chiedeva simpatia. 

La signora Ramsay, che sedeva in un atteggiamento abbandonato, circondando il figlio con un braccio, si fece forza, e, volgendosi a mezzo, sembrò sollevarsi con sforzo, e subito far zampillare nell’aria una pioggia di energia, una colonna di spuma, sembrando a un tempo animata e viva come se tutte le sue energie venissero fuse in una forza, ardendo e illuminando (sebbene sedesse quietamente, riprendendo a lavorare la calza), e in quella deliziosa fecondità, in quella fontana e zampillo di vita, si immerse la fatale sterilità del maschio, come un becco di ottone, sterile e nudo. Voleva simpatia. Era un fallito, disse. I ferri della signora Ramsay lampeggiarono. Ramsay ripetè, senza mai distogliere gli occhi dal suo viso, che era un fallito. Lei gli rimandò le parole. «Charles Tansley...» disse. Ma lui voleva di più. Voleva simpatia, voleva prima di tutto che gli venisse data la certezza del suo genio, e voleva quindi venire accolto nel cerchio della vita, riscaldato e rassicura 

lo, voleva gli venissero restituiti i sensi, che la sua sterilità venisse resa fertile, e tutte le stanze della casa piene di vita  il salotto; dietro il salotto la cucina; sopra la cucina le camere da letto; e oltre ancora le stanze dei bambini; dovevano essere arredate, riempite di vita. 

Charles Tansley lo giudicava il maggior metafìsico del suo tempo, lei gli disse. Ma lui voleva di più. Voleva simpatia. Voleva sentirsi assicurare che anche lui viveva nel cuore della vita; che era necessario; non soltanto là, ma in tutto il mondo.