Nella sua esperienza, il riposo non si trovava mai come sé stessi (a questo punto eseguì una manovra difficile con i ferri da calza), ma come un nucleo di oscurità. Perdendo la propria personalità, si perdeva l’ansia, la fretta, l’agitazione; e alle sue labbra saliva sempre un’esclamazione di trionfo sulla vita quando le cose si ricomponevano in quella pace, quel riposo, quell’eternità; e interrompendo il lavoro alzò lo sguardo a incontrare il raggio del Faro, il lungo raggio immobile, l’ultimo dei tre, il suo raggio, poiché guardandole sempre a quell’ora in quello stato d’animo, non era possibile non affezionarsi in particolare a una delle cose che si vedevano; e quella cosa, quel lungo raggio immobile era il suo. Spesso si scopriva a rimanere seduta e a guardare, rimanere seduta e guardare, con il lavoro tra le mani fino a diventare la cosa che guardava — quella luce per esempio. E con quella sorgeva una piccola frase che le giaceva nella mente — come quella “I bambini non dimenticano, i bambini non dimenticano” — che lei allora ripeteva e cominciava a ampliare. Finirà, finirà, diceva. Verrà, verrà, quando di colpo aggiunse: Siamo nelle mani di Dio.
E subito si irritò con sé stessa per averlo detto. Chi lo aveva detto? lei no; era stata intrappolata e costretta a dire qualcosa che non intendeva. Alzò lo sguardo guardando oltre il lavoro a maglia e incontrò il terzo raggio e le sembrò che i suoi stessi occhi incontrassero i suoi occhi, scrutando come lei soltanto poteva scrutare nella sua mente e nel suo cuore, purificando l’esistenza da quella menzogna, da ogni menzogna. Lodava sé stessa lodando la luce, senza vanità, poiché era rigorosa, era indagatrice, era bella come quella luce. Era strano, pensò, come ci si appoggi alle cose quando si è soli, alle cose inanimate; alberi, ruscelli, fiori; come si senta che ti esprimono; che si mutano in te; che ti conoscono, che in un certo senso sono te; e si sente così una irrazionale tenerezza (guardò la lunga luce immobile) come per sé stessi. Sorse, e lei guardò e guardò lasciando pendere i ferri, si alzò in lente volute dal fondo della sua mente, sorse dal lago del suo essere, una foschia, una giovane sposa che va incontro al suo amante.
Che cosa l’aveva spinta a dire quello: “Siamo nelle mani di Dio”? si chiedeva. L’insincerità che si insinuava tra le verità la inquietava, la infastidiva. Tornò al suo lavoro. Come era possibile che un Dio avesse creato questo mondo? si chiese. Con la sua mente aveva sempre afferrato il fatto che non c’è logica, ordine, giustizia: ma sofferenza, morte, povertà. Non esisteva tradimento troppo vile perché il mondo lo commettesse; lo sapeva. Nessuna felicità durava; lo sapeva. Lavorava a maglia con calma risolutezza, stringendo appena le labbra e, senza rendersene conto, compose e irrigidì le linee del suo viso in una tale abituale maschera di rigore che quando suo marito passò, sebbene stesse ridendo al pensiero che Hume, il filosofo, diventato enormemente grasso, era rimasto incagliato in una palude, non potè non notare, mentre passava, il rigore al centro della sua bellezza. Lo rattristava, e la lontananza di lei lo faceva soffrire, e sentì, mentre passava, che non poteva proteggerla, e, quando raggiunse la siepe, era triste. Non poteva far nulla per aiutarla. Doveva rimanere là a guardarla. A dire il vero, l’infernale verità era che per lei peggiorava le cose. Era irritabile — era suscettibile.
Aveva perso la calma quando si era trattato del Faro. Guardò nella siepe, nel suo intrico, nella sua oscurità.
Sempre, rifletteva la signora Ramsay, si esce con riluttanza dalla solitudine afferrando una cosa da nulla, un suono, un’immagine. Si mise in ascolto, ma tutto era silenzioso; il cricket era finito; i bambini erano nel bagno; rimaneva soltanto il rumore del mare. Smise di lavorare a maglia; tenne per un istante tra le mani, lasciandola pendere, la calza rossiccia. Vide nuovamente la luce. Con una certa ironia nel suo sguardo indagatore, poiché quando ci si sveglia i rapporti cambiano, guardò la luce immobile, spietata, senza rimorso, così simile a lei eppure così poco simile a lei, che faceva di lei quello che voleva (si svegliava di notte e la vedeva curvarsi sul suo letto per accarezzare il pavimento), ma ciò nonostante, pensava, guardandola incantata, ipnotizzata, come accarezzasse con le sue dita d’argento un vaso sigillato nel suo cervello che, esplodendo, l’avrebbe inondata di felicità, aveva conosciuto la felicità, una felicità estrema, intensa, e la luce inargentò di un più luminoso argento le onde aspre, mentre la luce del giorno svaniva, e l’azzurro lasciava il mare e il mare rotolava in onde del più puro giallo limone che si curvavano e si gonfiavano e si frangevano sulla spiaggia e l’estasi le esplose negli occhi e onde di pura felicità corsero sul fondo della sua mente e lei pensò: E troppo! È troppo!
Lui si volse e la vide. Ah! Era bella, più bella che mai pensò. Ma non poteva parlarle.
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