Sebbene sia innegabile il suo coinvolgimento nella vicenda quale sposo tenero e affettuoso di Julie, i suoi principi non sono tuttavia oggetto di esperienza, e si calano in una situazione indolore, garantita dall’assenza stessa di una forte vita emotiva.

Del tutto diverso è il caso di Julie e Saint-Preux, per i quali non è affatto facile e immediato fare in modo che le passioni si combattano tra di loro, privilegiando quelle che permettono di accedere alla virtù. La virtù infatti richiede lotta e «sacrificio» (Parte prima, lettere XIII, XXXIX ecc.) poiché essa è, secondo la radicale e lapidaria definizione di Saint-Preux, uno «stato di guerra» (Parte sesta, lettera VII). «Fanciullo mio, non c’è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta. La parola virtù viene da forza; la forza è la base di ogni virtù. La virtù non appartiene che ad un essere debole per sua natura e forte per sua volontà... »,72 dirà Rousseau nell’Emilio. distinguendo la «virtù», come mèta di conquista voluta e consapevole, dalla «bontà», quale dato naturale e precario che corre sempre il rischio di infrangersi contro la forza disgregante delle passioni.73

In questo, Rousseau si distingue, come si è già accennato, dall’ottimismo della morale naturale che da Shaftesbury a Diderot, da Marivaux a d’Holbach, teorizza un rapporto armonico tra natura e virtù.74 Il soggetto etico rousseauiano trova il proprio fondamento nello stato psicologico di lotta e di conflitto attraverso il quale si accede alla sfera della libertà e della morale e ad una più solida unità dell’Io. Il male, cioè il conflitto, la scissione, la sofferenza generati dalle passioni, è la condizione necessaria per conquistare il bene e, con esso, quel bonheur che, come vedremo, rappresenta la mèta primaria e irrinunciabile dell’individuo.

Diversamente dalla Principessa di Clèves, Julie non vuole dunque rinunciare all’amore, ma distillarne le qualità naturali che lo preservino dai pericoli dell’immaginazione e lo riportino dentro i «limiti» dettati dall’amore di sé, quale principio regolativo della natura. Solo così l’amore non sarà più in conflitto con l’ordine etico e sociale. «Non è forse meglio purificare un sentimento così caro per farlo più durevole? – scriverà a Saint-Preux dopo essere divenuta Mme de Wolmar – Non è forse meglio conservare almeno quanto si può accordare con l’innocenza? E così non è forse conservare quanto ebbe di più incantevole? Sì, mio caro e degno amico, per poterci amar sempre dobbiamo rinunciare l’uno all’altro. Dimentichiamo tutto il resto e siate l’amante dell’anima mia.»75

In queste dichiarazioni si riassume quell’«epicureismo della ragione» (Parte sesta, lettera V) che fonda la filosofia esistenziale e morale di Julie. La trasformazione della passione in «vero amore» ha perciò lo scopo di salvaguardare l’Io dalla disgregazione e dalla perdita di sé, e il suo universo collettivo; ma ha anche quello, solo in parte riconducibile al primo, di garantire la durata dell’amore, preservandolo dal divenire e dall’inevitabile esaurimento cui lo esporrebbe la sua soddisfazione.76

Julie riuscirà nel suo progetto di costruzione del bonheur: sposerà Wolmar, insieme al quale darà vita al mondo ideale di Clarens; e non dovrà rinunciare a Saint-Preux, conservandolo al suo fianco attraverso un legame di «amicizia» casto e virtuoso che lo renda legittimo e gli permetta di durare. Ma, allo stesso tempo, essa fallirà, perché la felicità così conquistata è fondata, come vedremo, su una rimozione: la rimozione della passione che, apparentemente sopita, tornerà ad affiorare, nella sua essenza di «stato desiderante», solo quando, a causa dell’imminenza della morte di Julie, avrà perso il suo potere minaccioso. 77

3. Clarens: il bonheur della società ideale

Sebbene celi un lato-ombra che si annuncia nei movimenti conflittuali e ambivalenti di Julie e Saint-Preux, e che emergerà chiaramente nelle dichiarazioni finali di Julie, la scelta di quest’ultima contiene un aspetto «costruttivo» del tutto assente, come abbiamo visto, nella rinuncia puramente difensiva e solipsistica di Mme de Clèves. Figura eminentemente settecentesca, Julie insegue fin dall’inizio quell’ideale del «bonheur» che Rousseau definisce eloquentemente nell’Emile «il fine di ogni essere sensibile... il solo desiderio impressoci dalla natura e il solo che non ci abbandona mai».78

L’aspirazione alla felicità è uno scopo «naturale», verso il quale ogni uomo «sensibile» è spinto da una sorta di movimento istintivo che presiede ad ogni sua scelta ed azione. Nell’erigerlo a valore supremo, il ’700 tende a definirlo come uno stato permanente di tranquillità e di pace che si nutre di sentimenti pacati ed uniformi; e che rifugge, senza escludere il «piacere», dagli eccessi della passione e dell’immaginazione.79 Se ne trova conferma nei numerosi «traités du bonheur» e nelle definizioni dell’Encyclopédie, nel romanzo sentimentale e nel progetto di d’Holbach e dei philosophes di costruire una «science du bonheur»:80 tutti legati da un comune obiettivo, che è quello di fondare la felicità individuale e collettiva sul giusto equilibrio tra il «movimento» e il «repos», le due grandi pulsioni pascaliane in cui si muove e si dibatte l’intera esistenza dell’uomo.81

Rousseau dunque condivide l’ideale del «bonheur» con l’intero secolo dei lumi, sebbene ancora una volta egli prenda le distanze da ogni facile ottimismo. Pur essendo una mèta «naturale», la ricerca della felicità incontra nello sviluppo artificiale e deviante dei desideri e delle passioni un ostacolo che richiede, al pari della conquista della virtù, coraggio e capacità di lottare. «Non c’è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta», dice il precettore di Emilio, invitando l’allievo a saper distinguere le mète false e innaturali da quelle autentiche, inscritte nella legge naturale.82

Anche per Julie la felicità deve essere conquistata, in quanto è inscindibile dalla virtù. La «caduta», provocata dal «possesso» amoroso, induce la perdita irreversibile del bonheur dell’innocenza, di quello stato di perfetta purezza in cui il sentimento al suo nascere pervade gioiosamente l’anima senza turbare l’ordine naturale delle cose (Parte prima, lettere IX, XXV, XXXII, XLIX). Ma essa non ha affatto compromesso la possibilità di ritrovare una dimensione di serenità e di pace, la quale trae anzi maggiore solidità e durata dal fatto di scaturire dalla conoscenza stessa della sofferenza e del male. Diversamente da Saint-Preux, che attinge nell’acme inebriante della passione la felicità assoluta dell’«istante» atemporale ed eterno (Parte prima, lettere XXVI, XXXI), Julie anela all’armonico equilibrio dato da una felicità quotidiana e costante, che sappia resistere allo scorrere del tempo e dalla quale nessuno resti escluso. Essa anela dunque a quella forma di bonheur inteso non come stato fuggitivo fatto di piaceri transitori, ma come «condizione semplice e duratura, che non ha nulla di vivo in se stessa, ma la cui costanza accresce il piacere, sino a trovarci infine la suprema gioia», di cui Rousseau parlerà nelle Fantasticherie,83 confessando di averlo sempre rimpianto.

È però importante sottolineare, sia pure per inciso, che, nelle Fantasticherie, il sentimento del completo appagamento sarà legato ad una condizione di autosufficienza e di rarefatta solitudine che consente a Jean Jacques di abbandonarsi al puro «sentimento dell’esistenza»,84 e di sfiorare la pienezza divina.

Nella Nuova Eloisa, al contrario, in cui è vivo l’intento morale e sociale, non è possibile pensare alla felicità dell’individuo separato dalla collettività; si potrebbe anzi dire che non esiste l’una senza l’altra.

È in nome della felicità comune che Julie rifiuta l’offerta di Lord Bomston di mezzi materiali che le consentano di sposare Saint-Preux in piena autonomia dai genitori. «È molto per l’amore, ma basta forse per la felicità? »,85 chiederà Julie sottintendendo retoricamente una risposta negativa. La sua felicità con Saint-Preux non potrebbe costruirsi sul dolore degli altri, soprattutto quando si tratta, come abbiamo già visto, di coloro che le hanno dato la vita e che rappresentano il legame «naturale» par excellence.

I personaggi del romanzo sembrano essere tutti preoccupati della felicità altrui come condizione imprescindibile della propria. Così, anche dopo il matrimonio di Julie con Wolmar, la prima cura di Saint-Preux sarà quella di informarsi se Julie «sia felice» (Parte terza, lettera XIX). Di rimando, Julie manifesterà nei confronti dell’antico amante la stessa tenera sollecitudine, affermando che la sua soddisfazione sarà completa solo quando essa potrà essere del tutto certa di quella dell’altro.

L’unico, legittimo bonheur consentito alle creature umane esige il riconoscimento di questa reciproca dipendenza: «Un essere veramente felice è un essere solitario – si dice nell’Emilio – ; Dio solo gode di una felicità assoluta: ma chi di noi ne ha l’idea? Se qualche essere imperfetto potesse bastare a se stesso, di che godrebbe egli, secondo noi? sarebbe solo, sarebbe miserabile. Non concepisco che colui che non ha bisogno di nulla possa amare qualche cosa: non concepisco che colui che non ama possa essere felice».86

L’uomo è tale, ed è dissimile da Dio, in virtù della sua insufficienza e vulnerabilità ontologiche, a partire dalle quali egli si apre al mondo e agli altri, edificando sulla base del reciproco bisogno la sua pur «fragile» felicità.87

Si può senz’altro vedere in questo una forma ancora più raffinata dell’amore di sé, che spinge il soggetto a rifuggire da qualsiasi ombra o dissonanza che possa turbare il proprio benessere. Per essere felice, Julie ha bisogno di «vivere in mezzo a gente felice» (Parte quinta, lettera II), così che tutte le sue qualità «altruistiche» come la «benevolenza», l’«umanità» e, soprattutto, la «pietà», appaiono come la polarità inconsciamente funzionale alla difesa del proprio Io e della propria identità intesa in senso lato.88 «Non solamente vogliamo essere felici – afferma significativamente il vicario savoiardo – vogliamo anche la felicità altrui; e quando tale felicità non costa nulla alla nostra, l’aumenta.»89

La felicità dunque non ammette eccezioni né dissonanze.