Al superfluo e al lusso, i coniugi Wolmar oppongono un’economia dell’utile e del necessario tesa alla soddisfazione dei puri bisogni naturali (Parte quinta, lettera II). Questo non vuol dire che essi impongano a se stessi e agli altri una vita austera e priva di piaceri. Ma si tratta di piaceri semplici, come i giochi collettivi, la danza, e persino le delizie della tavola, date anch’esse non da cibi raffinati e rari, ma da alimenti locali e genuini, serviti in un clima informale di gaiezza e di sana allegria (Parte quarta, lettera X; Parte quinta, lettera II).
È vero, come alcuni interpreti hanno sottolineato,108 che questo mondo di perfetta felicità si fonda su dei princìpi discutibili, in antitesi con la libertà e l’uguaglianza, da Rousseau stesso rivendicati quali premesse indispensabili dell’armonia collettiva. In primo luogo, infatti, c’è quello che possiamo chiamare l’autoritarismo di Wolmar, che regola il lavoro e la vita dei domestici e mantiene salde le gerarchie attraverso una raffinata forma di paternalismo. Rousseau paragona esplicitamente i rapporti tra il padrone e i servitori al rapporto padre-figli, dove l’obbedienza e il consenso dei secondi sono, per così dire, spontanei e apparentemente privi di costrizione in quanto dettati dall’affetto e dal rispetto per il primo; ulteriormente rafforzati dall’amore che la dolce e materna severità di Julie sa ispirare in coloro che la circondano (Parte quarta, lettera X).
Attraverso un preciso sistema di sorveglianze e di accorta permissività, di premi e di giuste punizioni, il dominio affettivo di Wolmar crea un vincolo indissolubile con la folta schiera di domestici, i quali trovano nella devozione al padrone la spinta alla fratellanza, così da poter dire che essi «non si uniscono che per servirlo meglio».109 Si potrebbe evocare a questo proposito il concetto freudiano di «legame libidico» tra gli individui di una massa, rinsaldato a sua volta dal rapporto di «identificazione» con il capo,110 tramite il quale l’obbedienza viene interiormente vissuta come libertà e la costrizione come consenso.
La guida autoritaria esercitata da Wolmar non si limita inoltre alla gestione del lavoro, ma penetra nella vita intima e privata dei servitori attraverso la regola della separazione dei sessi. Sulla base del principio «naturale» della differenziazione dei sessi, le cui inclinazioni, gusti, bisogni, non hanno, per Rousseau, niente in comune, uomini e donne vengono tenuti rigorosamente separati nelle attività della vita quotidiana, salvo ad essere riuniti sotto l’occhio vigile di Wolmar e Julie in momenti di svago collettivo, tesi a favorirne l’incontro innocente e legittimo (Parte quarta, lettera X).
Con sorprendente lucidità, Rousseau dichiara in forma esplicita questa sorta di sofisticato inganno autoritario il quale, per usare ancora un termine freudiano, trova il proprio fondamento nel meccanismo dell’«interiorizzazione»: «L’arte del padrone sta tutta nel saper nascondere questi freni sotto il velo del piacere o dell’interesse, così che siano indotti a pensare di volere ciò che sono costretti a fare».111
In questo senso, troppe ombre incombono sul mondo di Clarens perché si possa parlare di una vera e propria «utopia», la quale tende per definizione all’abolizione di ogni disuguaglianza e all’instaurazione del regno della felicità e della trasparenza.112 C’è inoltre chi ha visto in queste «aporìe» di Clarens una chiave di interpretazione in senso «totalitario» del Contratto sociale. Alla luce del gioco sottile di Wolmar e dell’assetto gerarchico della società da lui governata, la creazione di un «interesse comune» e della «volontà generale» – di cui Clarens rappresenta evidentemente un modello – rivelerebbe un forte elemento di costrizione e di rinuncia che rischia di ridurre gli individui a puri mezzi per un fine voluto e gestito essenzialmente da pochi.113
Non è questa la sede per entrare nel tessuto problematico della teoria politica di Rousseau. È però opportuno osservare che nel mostrare l’interiorizzazione dell’autorità e i fondamenti affettivi che la legittimano, Rousseau rivela ancora una volta una modernità e una complessità di pensiero che sfugge ad ogni riduzione dicotomica: ivi compresa quella tra «democrazia» e «totalitarismo» nella quale gli interpreti l’hanno per lo più imprigionato.114 La società borghese, si potrebbe aggiungere, fonda la sua apparente libertà proprio sul superamento della costrizione diretta, sostituita dal raffinato meccanismo dell’interiorizzazione del dominio e della creazione di un «legame libidico» tra dominanti e dominati.115
Ma Rousseau non è riducibile neppure a semplice apologeta della società borghese. Nella configurazione del mondo di Clarens, c’è infatti un’autentica fede nella forza del sentimento, anche sul piano squisitamente politico, come ciò che permette di superare le disuguaglianze. Questo appare evidente, nella Nuova Eloisa, nelle pagine suggestive dedicate alla descrizione della «festa» in occasione della vendemmia: qui padroni e servitori condividono indifferentemente lavoro e divertimento e sono uniti da un «legame d’amicizia» che, senza abolire le differenze, li fa sentire tutti uguali e ristabilisce «l’ordine della natura» (Parte quinta, lettera VII).
La festa, ha osservato J. Starobinski, rappresenta l’aspetto lirico della «volontà generale»;116 essa è il momento magico e rituale in cui, attraverso il sentimento, si crea uno spazio sacro che restituisce ad ognuno il senso della uguaglianza e della solidarietà universali.
4. La donna e la strategia della durata
A Clarens, dunque, «si fa tutto per devozione».117 Non solo l’autorità di Wolmar è, per così dire, filtrata dall’affetto, ma essa è anche bilanciata dalla dolce presenza di Julie la quale, attraverso «la sensibilità del corpo e dell’anima» che la distingue (Parte quinta, lettera II), è il fulcro della comunità domestica. Nella divisione dei caratteri e dei ruoli che sta alla base del rapporto coniugale, Julie rappresenta il «cuore», la vivacità, la tenera sollecitudine verso gli altri; qualità che compensano e integrano la lucidità un po’ fredda e la distaccata razionalità di Wolmar.
Il principio che regola il rapporto tra l’uomo e la donna è, come abbiamo visto, quello della differenziazione dei sessi, di cui Julie è da sempre convinta sostenitrice.
Fin dall’inizio della loro relazione, essa scriveva infatti a Saint-Preux: «L’attacco e la difesa, l’audacia degli uomini e il pudore delle donne non sono convenzioni, come credono i tuoi filosofi, ma istituzioni naturali di cui è facile darsi ragione, e dalle quali è facile dedurre tutte le altre distinzioni morali».118
Contro le posizioni dominanti dei philosophes che, sulla scia del trattato seicentesco di Poullain de la Barre, De l’égalité des deux sexes,119 si facevano promotori di un femminismo ante-litteram, sostenendo l’uguaglianza tra l’uomo e la donna e la necessità di un’educazione femminile orientata in questo senso,120 Rousseau afferma il carattere naturalmente fondato della «differenza» e ne traccia le coordinate antropologiche.121
Tale è la forza di questo principio naturale, che non c’è bisogno di imporlo con durezza o eccessiva austerità, come Claire ricorda a Julie, invitandola alla temperanza anche nella pratica della virtù:
«Ciò che ci separa dagli uomini è la natura stessa, la quale ci prescrive altre occupazioni; è la dolce e timida modestia, la quale pur senza toccare la castità, ne è tuttavia la più sicura custode; è l’attenta e piccante riservatezza la quale, alimentando nei cuori degli uomini il desiderio e il rispetto insieme, è per così dire la civetteria della virtù».122
Possiamo trarre già da queste parole un’immagine della donna come colei che sa, attraverso la sua connaturata modestia, dolcezza e riservatezza, esaltare la sua più profonda natura; e che, facendo della sua debolezza la sua forza, riesce a sedurre l’altro con le stesse qualità che ne suscitano il rispetto.
Ancora più chiara quest’immagine è nell’Emilio, dove la teoria di Rousseau si fa più sistematica e radicale. La differenza dei sessi si configura come una vera e propria regola che dal piano fisiologico, nel quale essa ha origine, si estende al piano morale:
«L’uno deve essere attivo e forte, l’altro passivo e debole: bisogna necessariamente che l’uno voglia e possa, basta che l’altro resista poco».123
In questa resistenza, e nella sapiente gestione della propria seduttività, la donna compensa la sua congenita debolezza e trova un’arma sottile per controbilanciare la forza dell’altro. Il postulato antropologico è che essa è fatta «per piacere all’uomo»,124 e che tanto più essa aderisce alla propria natura quanto più si uniforma a questo principio.
Così dovrà fare Sophie, rispetto alla quale l’educazione non ha altro compito che quello di sviluppare e valorizzare le qualità atte a renderla la perfetta compagna di Emile. Fatta essenzialmente per l’uomo, nel quale essa trova il proprio compimento e la propria felicità, la donna deve costruire se stessa secondo le aspettative e i desideri dell’altro. Così facendo, essa diviene, con le proprie modalità e con i propri mezzi, protagonista attiva dell’eterna dialettica dei sessi. Lo stesso gioco della seduzione che affascina per catturare, che promette per negare, è ciò che le restituisce potere: un potere nascosto e mascherato, nelle cui maglie vischiose l’uomo resta impigliato per diventare a sua volta dipendente da colei che ha saputo conquistarlo attraverso l’accettazione della propria sottomissione.125
È evidente che quello che Rousseau presenta come un rapporto di pura complementarità, in cui ognuno segue le proprie inclinazioni ed assolve ai propri ruoli, implica, per la donna, una condizione di minorità che la destina a vivere e, soprattutto, ad «essere», essenzialmente «per l’altro»: un’immagine dunque tradizionale della femminilità all’interno della cultura occidentale patriarcale, dove tuttavia l’elemento di originalità, e di modernità, sta nel far sì che sia il «sentimento» a diventare lo schermo della disuguaglianza, rendendo di conseguenza quest’ultima più opaca e sotterranea.
A questo proposito, meriterebbe uno spazio a parte l’analisi della psicologia rousseauiana, in quanto emblematica, attraverso le sue stesse «patologie», del soggetto maschile moderno. Uno sguardo anche superficiale agli scritti autobiografici e soprattutto alle Confessioni rivela, in Rousseau, una profonda paura del femminile che si rovescia in una proiezione di potenza; e che lo spinge, nel corso di un’intera vita, a mettere in atto una sorta di inversione dei ruoli e a porsi costantemente in un’attitudine passiva verso l’oggetto d’amore. Il tratto saliente che caratterizza il legame di Rousseau con le donne amate – Mme Basile, Mme de Warens, Sophie d’Houdetot ecc. – risulta essere la delega di ogni iniziativa e dell’intera gestione del rapporto amoroso all’altra, in una sorta di rinuncia a priori ad un confronto sentito sempre come inquietante, fonte di infinite e seducenti promesse, ma anche di oscure e imprevedibili minacce.
Rousseau stesso ci esime in ogni caso dal ricorrere a troppo facili psicologismi, svelandoci indirettamente la radice di questa paura in una delle sue opere più sistematiche; laddove cioè, nell’Emilio, egli denuncia la natura eminentemente sessuale della donna, caratterizzata da un desiderio incontinente e illimitato.126
La sua costitutiva intemperanza è ciò che rende necessaria un’opera di dissimulazione affidata appunto al processo educativo. La donna impara fin dall’infanzia ad addomesticare la sua sfrenata istintualità e a costruire un’immagine di sé che soddisfi lo sguardo dell’altro e risponda al giudizio della collettività, i quali sono fondativi per la formazione della sua stessa identità. La cura della propria bellezza e di tutto ciò che riguarda la propria persona da un punto di vista estetico, si iscrive in questa fondamentale preoccupazione di piacere all’altro e di soddisfare, in una parola, l’«opinione»: quella stessa opinione, giudicata da Rousseau l’origine di tutti i mali, dalla quale, come è noto, l’educazione di Emile deve radicalmente prescindere, orientando la sua formazione non all’«apparire», ma all’«essere».
Ben presto Sophie apprende dunque l’arte della sottomissione, del controllo di sé, della cura dell’altro fino all’accettazione dei suoi pregiudizi, poiché nessun accento critico o ribellione deve turbare la sua «femminile» acquiescenza al desiderio altrui. Sarebbe infatti come ribellarsi alla natura, con tutto il significato blasfemo che ciò assume nell’ottica rousseauiana.
La donna è stata peraltro dotata di un’attitudine, altrettanto naturale, per controbilanciare la sua pericolosa essenza sessuale. Quest’attitudine è il pudore,127 il sentimento innato che regola l’istinto, permettendo alla donna non solo il controllo naturale di sé, ma anche la difesa dagli attacchi e dalla volontà di dominazione dell’altro. Ambiguo ed ammiccante, il pudore è l’arma femminile per eccellenza poiché sfida e circuisce l’uomo attraverso la resistenza, e consente alla donna di negarsi per farsi rispettare ed ancora più intensamente desiderare. «Torno ora – scrive Jean Jacques, rivolgendosi a Mme d’Houdetot – a quel sentimento di vergogna così piacevole e così dolce da vincere, forse ancora più dolce da rispettare, che combatte e infiamma i desideri di un amante e che rende tanti favori al suo cuore per quanti ne rifiuta ai suoi sensi».128
Il pudore è dunque, si potrebbe dire, il segno del passaggio dalla sessualità all’amore,129 in quanto «rifiuta ai sensi ciò che concede al cuore» e testimonia l’interesse di una donna verso uno specifico oggetto d’amore, rispetto al quale essa mette «spontaneamente» in atto più raffinate strategie di seduzione.
Per certi aspetti, tutto questo sembra essere valido per Sophie, ma non per Julie. Quest’ultima mostra infatti di possedere un’autonomia di giudizio e di scelta che mal si accorda con un’immagine subordinata e dipendente della donna. Tuttavia, lo stesso suo conflitto tra l’amore e la virtù si può ricondurre, in questa prospettiva, al vincolo che la lega alla famiglia d’origine e ai valori del collettivo che la circonda. Essa vive come colpa e come tradimento, soprattutto verso la madre, la sua inclinazione amorosa per Saint-Preux, e soffre interiormente della sua non adesione ad una «virtù» che rischia di essere compromessa agli occhi del mondo, con conseguenze per lei evidentemente intollerabili.
Essa ha, per così dire, interiorizzato e fatto propri i valori dell’«opinione», la cui trasgressione, sebbene avvenga in nome di un sentimento nobile e autentico, la rende preda di profonde lacerazioni e sofferenze.
La sua felicità, come abbiamo visto, non può prescindere da quella degli altri, né può di conseguenza fondarsi su di un’unione che la separa da essi. Il matrimonio, per Julie, non può essere il coronamento di una passione che soddisfa unicamente i suoi bisogni (o, peggio ancora, i suoi desideri) individuali ed esclude il collettivo, ma la sanzione e il riconoscimento del suo fecondo legame con quest’ultimo, così da diventare la cellula di un’intera comunità retta dalle leggi armoniche della natura.
Paradossalmente allora, natura e opinione sembrano, per la donna, coincidere ed alimentarsi l’una dell’altra. Questo spiega perché Julie arriva a sentire come propria la scelta del padre, contro la quale in un primo momento essa aveva osato ribellarsi, avvertendovi il sapore gratuitamente costrittivo del «pregiudizio».
La differenza di fondo rispetto alla visione della donna esposta da Rousseau nell’Emilio, consiste nel fatto che Julie è ben lungi dall’essere presentata come un soggetto prevalentemente sessuale.
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