Rifiutando la realizzazione della passione e del desiderio, essa tendeva infatti a sottrarli al certo e fatale declino dovuto allo scorrere del tempo, e al reciproco disgusto che ne sarebbe seguito:

«E allora quanto bisognerà paventare che la noia non succeda a sentimenti troppo vivi; che, senza fermarsi all’indifferenza, non scendano declinando fino al disgusto; che infine non ci si ritrovi stufi l’uno dell’altro; e che, per essersi troppo amati da amanti, non si finisca con l’odiarsi da sposi!146

La rinuncia a condividere con l’altro una passione soddisfatta aveva dunque lo scopo più implicito e sottile di sottrarre l’amore alle inesorabili leggi del divenire; preservando così il desiderio dalla sua fine e risparmiando ad entrambi la perdita del bonheur.

«Per poterci amare sempre dobbiamo rinunciare l’uno all’altro»,147 aveva detto Julie. In un certo senso, il suo proposito ha avuto successo, poiché le ha permesso di fare una scelta coniugale saggia e produttiva, senza perdere Saint-Preux né dover assistere alla lenta agonia del reciproco desiderio. Ma, per salvare quest’ultimo, essa ha dovuto sacrificarlo e trasformarlo in una «amicizia» asessuata e virtuosa che ha finito per soffocare l’eros, confinandolo nelle zone più remote dell’essere.

Non della purificazione del desiderio si tratta, nel senso «cortese» di un rinvio illimitato del soddisfacimento al fine di una assoluta esaltazione dell’amore nella sua più segreta e preziosa essenza,148 ma della sua negazione e rimozione.

Questo spiega perché, nel seno stesso della felicità, Julie si senta afferrare dall’ennui, cioè dal «pascaliano» senso di vuoto149 che toglie alla vita ogni sapore, privandola della sua stessa linfa:

«Per ogni dove non vedo che argomenti di contentezza – confessa infine Julie a Saint-Preux – e non sono contenta. Un segreto languore mi si insinua in fondo al cuore; lo sento vuoto e gonfio come una volta dicevate del vostro; l’affetto che provo per tutto quanto mi è caro non basta per occuparlo, gli rimane una forza inutile di cui non sa che fare. E una ben strana pena, lo ammetto; ma non perciò è meno reale. Amico mio, sono troppo felice; la felicità mi annoia». 150

Senza rinnegare tutto ciò che è stato conquistato attraverso la scelta morale – il matrimonio, Clarens, la solidarietà tra individui legati da un universale rapporto di «amicizia» – Julie denuncia tuttavia la parziale illusorietà di questa scelta; e manifesta l’intensa nostalgia per ciò che è stato sacrificato e che sotterraneamente turba ed inquina una felicità statica, ormai priva della propria fonte di energia.

Lungi dall’essere risolto, il conflitto resta aperto, senza però diventare tragico. Julie si spegne infatti serenamente, consapevole del fatto che solo la morte può definitivamente esentarla dall’impossibile scelta tra l’amore e la virtù, tra il desiderio e l’autoconservazione, tra l’amore-passione e l’amore coniugale. La lotta contro le proprie inclinazioni è stata vana, poiché nell’equilibrio apparentemente imperturbabile della felicità domestica, essa sente riaffiorare la nostalgia del desiderio, che si era illusa di aver trasceso e sublimato. Essa torna cioè a «desiderare il desiderio», inteso nella sua più profonda essenza di slancio vitale che si alimenta dell’immaginazione e che dilata i confini dell’Io, proiettandolo verso l’altro, il futuro, l’ignoto.151 Senza questo slancio, non resta che l’immobile realtà di un bonheur privo di speranze e di illusioni, che nasconde il sapore a-patico dell’ennui e della morte.

«Nel regno delle passioni – dichiara infatti Julie in un passaggio fondamentale – esse aiutano a sopportare i tormenti che procurano; mantengono la speranza accanto al desiderio. Fin che si desidera si può fare a meno di essere felici: si aspetta di esserlo; se la felicità non viene, la speranza si prolunga, l’incanto dell’illusione dura quanto la passione che lo provoca. Così questo stato è sufficiente a sé, l’inquietudine che procura è una specie di godimento che supplisce alla realtà. E forse è meglio. Guai a chi non desidera più niente! perde per così dire tutto quanto possiede. Si gode meno di ciò che si ottiene che di ciò che si spera, non si è felici che prima di essere felici.»152

Alla felicità come «stato semplice e duraturo»,153 raggiunta attraverso il matrimonio con Wolmar, Julie oppone qui la felicità della speranza, del sogno, dell’illusione: in una parola la felicità dell’attesa e del desiderio, che basta a se stessa e si riassume nella dimensione deliziosamente inquieta di «ciò che ancora non è» (ibid.). Ma di fatto, essa non sceglie né l’una né l’altra; e ancor meno riesce a conciliarle, se non nella morte.

La morte le consente di confessare il proprio «fallimento» e di ammettere la forza ancora integra della propria passione, quando questa non è più in grado di compromettere, insieme alla virtù, l’intera edificazione di un mondo ideale che deve assolutamente sopravvivere a colei che ne è stata la principale animatrice:

«M’avete creduta guarita, anch’io ho creduto di esserlo – scrive Julie nella lettera postuma a Saint-Preux – [...] Sì, ho avuto un bel voler soffocare il primo sentimento che m’ha fatta vivere: è concentrato nel mio cuore. Ecco che si risveglia nel momento in cui non è più pericoloso; mi sostiene ora che le forze mi abbandonano; mi rianima mentre muoio. Amico mio, lo confesso senza vergogna; questo sentimento rimasto in me mio malgrado non ha toccato la mia innocenza [...] Ho fatto ciò che dovevo fare; la mia virtù rimane intatta, l’amore m’è rimasto senza rimorso.»154

Così, solo sottraendosi alla vita, Julie salva, per così dire, entrambe le dimensioni, l’amore e la virtù, a nessuna delle quali essa può né vuole rinunciare.

Questa soluzione conflittuale155 è forse il messaggio più originale e più «moderno» del romanzo poiché suggerisce che lo scontro tra opposte polarità si radica nell’interiorità dell’individuo il quale prende coscienza, potremmo dire in termini freudiani, della propria ambivalenza. Il senso della morte di Julie è allora profondamente diverso da quello che emerge in altre figure mitiche della concezione occidentale dell’amore. Si pensi al Tristano di Thomas o al Werther di Goethe,156 in cui la morte degli amanti tende ad affermare, nell’ottica dell’opposizione individuo/società, una vittoria «tragica» della passione rispetto all’ordine del mondo e alle sue leggi. Né si può parlare di una soluzione «morale» analoga a quella proposta dal romanzo settecentesco, come la Clarissa di Richardson o la Manon di Prévost.157 Nel primo caso, infatti, la morte rappresenta per Clarissa l’unico modo di riscattare la colpa, sia pure involontaria, di aver infranto i codici della virtù; nel secondo, la morte di Manon produce il definitivo ritorno di Des Grieux, dopo il viaggio nel mondo infero delle passioni, ai codici morali vigenti.

Nella Nuova Eloisa, al contrario, le due dimensioni restano entrambe, fino alla fine, valide e irrinunciabili, e tuttavia incompatibili.

È significativo che la presa di coscienza da parte di Julie della propria ambivalenza e dell’irresolubilità del conflitto sia priva di angoscia e di disperazione. La sua morte è una morte dolce, sostenuta dal conforto della religione e dalla fede nella vita eterna dell’anima. La «professione di fede» finale, nella quale essa ribadisce l’idea di una religione non dogmatica, fondata essenzialmente sul sentimento individuale e sulla illimitata fiducia nella clemenza divina, testimonia infatti la sua serenità di fronte alla morte (Parte sesta, lettera XI).

Pur riconoscendo i propri errori, Julie sa di non essere mai caduta nel crimine del «malvagio» («méchant»); essa si congeda da coloro che ama, certa di favorire una loro prossima riunione e di continuare, attraverso di loro, l’edificazione di un mondo fondato sui valori «altri» della solidarietà, della trasparenza, della durata.

È vero tuttavia che tutto questo richiede il prezzo della sua scomparsa. Ed è anche legittimo sollevare qualche dubbio sull’effettivo bonheur di un mondo in cui tutti, Saint-Preux, Wolmar, Claire, Edouard, sembrano destinati alla solitudine amorosa e alla rinuncia alla dinamica vitale e rischiosa dell’eros, per poter gioire insieme di una comunione affettiva e di un legame duraturo.

Restano dunque degli interrogativi che non trovano una risposta certa e compiuta. La stessa soluzione «religiosa» di Julie che prospetta il suo accesso alla felicità ultraterrena e a un’esistenza sublime svincolata dalle passioni (Parte sesta, lettera VIII), non implica affatto una soluzione del conflitto che si può, eventualmente, solo «trascendere».

Ma proprio questa rinuncia ad una soluzione, che ci mostra un soggetto complesso e ambivalente, combattuto tra molteplici pulsioni ed esigenze, risuona alla nostra coscienza contemporanea di una sconcertante e preziosa attualità.


ELENA PULCINI

NOTE

1

Alcuni dei temi trattati in questa introduzione sono stati più ampiamente analizzati nel mio libro Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e l’origine di un conflitto moderno, Marsilio, Venezia 1990, cui mi permetto di rimandare per un ulteriore approfondimento.

2

Confessioni, Opere, p. 990 (Confessions, OC, I, 428).

3

Emerge così una delle fondamentali ambivalenze che lo caratterizzeranno in tutto il corso della sua vita. Sull’importanza, in Rousseau, del tema della solitudine, si tornerà nelle note al testo (cfr. p. 116, nota 1 ecc.).

4

Confessioni, Opere, p. 989 (OC, I, 426).

5

Ibidem, p.