Ma la secca scorza,

all'acqua e al sole rifiorì di muschi;

e un'altra vita brulicò nel legno

che intarmoliva: un popolo infinito

che ben sapeva l'ordine e la legge,

v'impresse i solchi di città ben fatte.

E chi faceva nuove case ai nuovi,

e chi per tempo rimettea la roba,

e chi dentro allevava i dolci figli,

e chi portava i cari morti fuori.

Quando s'udì l'ingorda sega un giorno

rodere rauca torno torno il tronco;

e il secco colpo rimbombò del mazzo

calato da un ansante ululo d'uomo.

E il tronco sodo ora sputava fuori

la zeppola d'acciaio con uno sprillo,

or la pigliava, e si sentiva allora

crepare il legno frangolo, e stioccare

le stiglie, or dalla gran forza strappate,

ora recise dalla liscia accetta:

lucida accetta che alzata a due mani

spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe.

Le schiampe alcuno accatastò; poi altri

se le portò nella legnaia opaca.

  Del popolo infinito era una gente

rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l'accetta

molte case distrutte, ebbe d'un colpo

il mazzo molte sue tribù schicciate.

Ma i sorvissuti non sapean già nulla:

ché volgendo i lor mille anni in un anno,

chi schivò l'ascia, chi campò dal mazzo,

l'ago sentì, che, dopo un po' che cuce,

il Tempo, uggito, punta nel lavoro,

e se ne va. Nessuno ora sapeva

che il mondo loro fu congiunto al tutto

della gran quercia sotto un cielo azzurro.

Sapeva ognuno che non c'era altr'aria

che quell'odor di mucido, altro suono

che il grave gracilar delle galline

e il sottile stridìo dei pipistrelli:

dei pipistrelli che pendeano a pigne

dai cantoni, nel giorno, quando il sole

facea passare i fili suoi tra i licci

d'una tela che ordiva un vecchio ragno.

Così passava la lor cauta vita

nell'odoroso tarmolo del ciocco:

e chi faceva nuove case ai nuovi,

e chi per tempo rimettea la roba,

e chi dentro allevava i dolci figli,

e chi portava i cari morti fuori.

  E videro l'incendio ora e la fine

i vegliatori: disse ognun la sua.

   E disse il Biondo, domator del ferro,

cui la verde Corsonna ama, e gli scende

cantando per le selve allo stendino,

e per lui picchia non veduta il maglio:

“Vogliono dire ch'hanno tutti i ferri,

quanti con sé porta il bottaio, allora

ch'è preso a opra avanti la vendemmia:

l'aspro saracco, l'avido succhiello,

e tenaglie che azzeccano, e rugnare

di scabra raspa e scivolar di pialla.

Ché non hanno bottega: a giro vanno

come il nero magnano, quando passa

con quello scampanìo sopra il miccetto;

ossia concino, o fradicio ombrellaio,

voce del verno, la qual morde il cuore

a chi non fece le rimesse a tempo.

Né leo leo vanno, come loro.

Piglian le gambe e stradano, la vita,

come noi, strinta dal grembial di cuoio”.

  E disse il Topo, portatore in collo,

primo, fuor che del Nero; sì, ma questi

porta più poco, e brontola incaschito:

- Carico piccolo è che scenta il bosco -:

“Vogliono dire ch'han la tiglia soda

più che nimo altri che di mattinata

porti in monte il cavestro e la bardella.

E hanno l'arte, perché intorno al peso

girano ora all'avanti ora all'indietro

or dalle parti, per entrarci sotto.

Se lo possono, via, telano; quando

non lo possono, vanno per aiuto;

e su e su, per una carraiuola:

come una nera fila di muletti

di solitari carbonai, su l'Alpe,

che in quel silenzio semina i tintinni

de' suoi sonagli. Alcuno ecco s'espone,

come anco noi, per ragionar con altri

che scende, e frescheggiare allo sciurino”.

  E disse il Menno, vangatore a fondo,

a cui la terra, nell'aprir d'aprile,

rotta e domata ai piedi ansa e rifiata:

e' la sogguarda curvo su l'astile:

“Ho inteso dire ch'hanno i suoi poderi,

come noi. Sotto le città ben fatte

coltano un campo sodo: che bel bello

si fa lo scasso, e qua si tira dentro,

là si leva la terra, e si tramuta

con le pale o valletti e cestinelle.

La pareggiano, seminano. Nasce

un'erba. Ed ecco poi vanno a pulirla,

levano il loglio, scerbano i vecciuli,

e scentano la sciàmina, cattiva,

e la gramigna, che riè cattiva,

e i paternostri, ch'è peggior di tutte.

A suo tempo si sega, lega, ammeta,

scuote, ventola, spula. Eccolo bello

nel bel soppiano dai due godi il grano”.

  E disse il Bosco, buon pastor di monte,

ch'era ad albergo: egli da Pratuscello

mena il branco alla Pieve, a quei guamacci:

per là dicon guamacci: è il terzo fieno:

  “Ho inteso dire ch'hanno le sue bestie:

quali, pecore, e quali, proprio bestie,

ossia da frutto, ovvero anche da groppa.

Ma piccoline e verdi queste, e quelle

con una lana molle come sputo:

pascono in cento un cuccolo di fiore.

E il pastore ha due verghe, esso, non una:

due, con nodetti, come canne; e molge

con esse: le vellìca, e dànno il latte;

o chiuse dentro, o fuori, per le prata:

come noi, che si molge all'aria aperta,

nella statina, le serate lunghe:

quando su l'Alpe c'è con noi la luna

sola, che passa, e splende sui secchielli,

e il poggio rende un odorin che accora”.

  E disse il Quarra, un capo, uno che molto

girò, portando santi e re sul capo,

di là dei monti e del sonante mare:

ora s'è fermo, e campa a campanello:

“Lessi in un libro, ch'hanno contadini

come noi; ma non come mezzaiuoli

timidi sol del Santo pescatore,

e che, d'ottobre, quando uno scasato

cerca podere, a lui dice il fringuello:

- Ce n'è, ce n'è, ce n'è, Francesco mio! -

Quelli no, sono negri. Alla lor terra

venne un lontano popolo guerriero,

che il largo fiume valicò sul ponte.

Fecero un ponte: l'uno chiappò l'altro

per le gambe, e così tremolò sopra

l'acqua una lunga tavola. Fu presa

la munita città, presi i fanciulli,

ch'or sono schiavi e fanno le faccende;

e il vincitore campa a campanello”.

  E qui la China, madre d'otto figli

già sbozzolati, accoccò il filo al fuso,

mise il fuso sul legoro, le tiglie

si strusciò dalla bocca arida; e disse:

  “Io l'ho vedute, come fanno ai figli

le madri, ossia le balie. Hanno figlioli

quasi fasciati dentro un bozzolino.

Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso

il lor begetto, ch'è cicchin cicchino,

e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo.

Lasciano all'altre le faccende, ed esse

altro non fanno che portare il loro

furigello ora all'ombra ed ora all'aspro,

in collo, come noi; ch'è da vedere

come via via lo tengono pulito,

come lo fanno dolco con lo sputo;

e infine con la bocca aprono il guscio,

come a dire, le fasce; e il figliolino

n'esce, che va da sé, ma gronchio gronchio”.

  Così parlando, essi bevean l'arzillo

vino, dell'anno. E mille madri in fuga

correan pei muschi della scorza arsita,

coi figli, e c'era d'ogni intorno il fuoco;

e il fuoco le sorbiva con un breve

crepito, né quel crepito giungeva

al nostro udito, più che l'erme vette

d'Appennino e le aguzze Alpi apuane,

assise in cerchio, con l'aeree grotte

intronate dal cupo urlo del vento,

odano lo stridor d'un focherello

ch'arde laggiù laggiù forse un villaggio

con le sue selve; un punto, un punto rosso

or sì or no. Né pur vedea la gente

là, che moriva, i mostri dalla ferrea

voce e le gigantesse filatrici:

i mostri che reggean concavi laghi

di sangue ardente, mentre le compagne

con moto eterno, tra un fischiar di nembi,

mordean le bigie nuvole del cielo.

Ma non vedeva il popolo morente

gli dei seduti intorno alla sua morte,

fatti di lunga oscurità: vedeva,

forse in cima all'immensa ombra del nulla,

su, su, su, donde rimbombava il tuono

della lor voce, nelle occhiute fronti,

da un'aurora notturna illuminate,

guizzare i lampi e scintillar le stelle.

  E lo Zi Meo parlò. Disse: “Formiche!

L'altr'anno seminai l'erba lupina.

Venne la pioggia: non ne nacque un filo.

Vennero i soli: il campo parea sodo.

Un giorno che v'andai, vidi sul ciglio

del poggio un mucchiarello alto di chicchi.

Guardai per tutto. Ad ogni poco c'era

un mucchiarello. Erano i semi, i semi

d'erba lupina. Avean rumato poco?

Non un chicco, ch'è un chicco, era rimasto!

Aveano fatto, le formiche, appietto!

E ben sì che v'avevo anco passato

l'erpice a molti denti, e su la staggia,

per tutte bene pianeggiar le porche,

mi facev'ir di qua di là, come uno

fa, nel passaggio, in mezzo all'Oceàno”.

 

 

17. Il ciocco, Canto Secondo

 

   Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino

arzillo, tutto. Io salutai la veglia

cupo ronzante, e me ne andai: non solo:

m'accompagnava lo Zi Meo salcigno.

Era novembre. Già dormiva ognuno,

sopra le nuove spoglie di granturco.

Non c'era un lume. Ma brillava il cielo

d'un infinito riscintillamento.

E la Terra fuggiva in una corsa

vertiginosa per la molle strada,

e rotolava tutta in sé rattratta

per la puntura dell'eterno assillo.

E rotolando per fuggir lo strale

d'acuto fuoco che le ruma in cuore,

ella esalava per lo spazio freddo

ansimando il suo grave alito azzurro.

Così, nel denso fiato della corsa

ella vedeva l'iridi degli astri

sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo

ella vedeva brividi da squamme

verdi di draghi, e svincoli da fruste

rosse d'aurighi, e lampi dalle freccie

de' sagittari, e spazzi dalle gemme

delle corone, e guizzi dalle corde

delle auree lire; e gli occhi dei leoni

vigili e i sonnolenti occhi dell'orse.

  Noi scambiavamo rade le ginocchia

sotto le stelle. Ad ogni nostro passo

trenta miglia la terra era trascorsa,

coi duri monti e le maree sonore.

E seco noi riconduceva al Sole,

e intorno al Sole essa vedea rotare

gli altri prigioni, come lei, nel cielo,

di quella fiamma, che con sé li mena.

Come le sfingi, fosche atropi ossute,

l'acri zanzare e l'esili tignuole,

e qualche spolverìo di moscerini,

girano intorno una lanterna accesa:

una lanterna pendula che oscilla

nella mano d'un bimbo: egli perduta

la monetina in una landa immensa,

la cerca invano per la via che fece

e rifà ora singhiozzando al buio:

e nessun ode e vede lui, ch'è ombra,

ma vede e svede un lume che cammina,

né par che vada, e sempre con lui vanno,

gravi ronzando intorno a lui, le sfingi:

lontan lontano son per tutto il cielo

altri lumi che stanno, ombre che vanno,

che per meglio vedere alzano in vano

verso le solitarie Nebulose

l'ardor di Mira e il folgorio di Vega.

  Così pensavo; e non trovai me stesso

più, né l'alta marmorea Pietrapana,

sopra un grano di polvere dell'ala

della falena che ronzava al lume:

dell'ala che in quel punto era nell'ombra;

della falena che coi duri monti

e col sonoro risciacquar dei mari

mille miglia in quel punto era trascorsa.

Ed incrociò con la sua via la strada

d'un mondo infranto, e nella strada ardeva,

come brillante nuvola di fuoco,

la polvere del suo lungo passaggio.

Ma niuno sa donde venisse, e quanto

lontane plaghe già battesse il carro

che senza più l'auriga ora sfavilla

passando rotto per le vie del Sole.

Né sa che cosa carreggiasse intorno

ad uno sconosciuto astro di vita,

allora forse di su lui cantando

i viatori per la via tranquilla;

quando urtò, forviò, si spezzò, corse

in fumo e fiamme per gli eterei borri,

precipitando contro il nostro Sole,

versando il suo tesoro oltresolare:

stelle; che accese in un attimo e spente,

rigano il cielo d'un pensier di luce.

  Là, dove i mondi sembrano con lenti

passi, come concorde immensa mandra,

pascere il fior dell'etere pian piano,

beati della eternità serena;

pieno è di crolli, e per le vie, battute

da stelle in fuga, come rossa nube

fuma la densa polvere del cielo;

e una mischia incessante arde tra il fumo

delle rovine, come se Titani

aeriformi, agli angoli del Cosmo,

l'un l'altro ardendo di ferir, lo spazio

fendessero con grandi astri divelti.

Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi,

fatti più densi dal cader dei mondi,

stringan le vene e succhino d'intorno

e in sé serrino ogni atomo di vita:

quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto

gelido oscuro tacito perenne;

e il Tutto si confonderà nel Nulla,

come il bronzo nel cavo della forma;

e più la morte non sarà. Ma il vento

freddo che sibilando odo staccare

le foglie secche, non sarà più forse,

quando si spiccherà l'ultima foglia?

E nel silenzio tutto avrà riposo

dalle sue morti; e ciò sarà la morte.

 

  Io riguardava il placido universo

e il breve incendio che v'ardea da un canto.

 

  Tempo sarà (ma è! poi ch'il veloce

immobilmente fiume della vita

è nella fonte, sempre, e nella foce),

  tempo, che persuasa da due dita

leggiere, mi si chiuda la pupilla:

né però sia la vision finita.

  Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla

anima, vede, fin che sa che intorno

a lui c'è qualche aperto occhio che brilla!

  Così, quand'io, nel nostro breve giorno,

guardo, e poi, quasi in ciò che guardo un velo

fosse, un'ombra, col lento occhio ritorno

  a un guizzo d'ala, a un tremolìo di stelo:

qundo a mirar torniamo anche una volta

ciò ch'arde in cuore, ciò che brilla in cielo;

  noi s'è la buona umanità che ascolta

l'esile strido, il subito richiamo,

il dubbio della umanità sepolta:

  e le risponde: - Io vivo, sì, viviamo. -

 

  Tempo sarà che tu, Terra, percossa

dall'urto d'una vagabonda mole,

divampi come una meteora rossa;

  e in te scompaia, in te mutata in Sole,

morte con vita, come arde e scompare

la carta scritta con le sue parole.

  Ma forse allora ondeggerà nel Mare

del nettare l'azzurra acqua, e la vita

verzicherà su l'Appennin lunare.

  La vecchia tomba rivivrà, fiorita

di ninfèe grandi, e più di noi sereno

vedrà la luce il primo Selenita.

  Poi, la placida notte, quando il Seno

dell'iridi ed il Lago alto e selvaggio

dei sogni trema sotto il Sol terreno;

  errerà forse, in quell'eremitaggio

del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;

e nello spettro ammirerà d'un raggio

  la traccia ignita dell'uman pensiero.

 

  O sarà tempo, che di là, da quella

profondità dell'infinito abisso,

dove niuno mai vide orma di stella;

  un atomo d'un altro atomo scisso

in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto

guardi la Terra come un occhio fisso;

  e venga, e sembri come un elianto,

la notte, e il giorno, come luna piena;

e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;

  e sotto il nuovo Sole che balena

nella notte non più notte, risplenda

la Terra, come una deserta arena;

  e Sole avanzi contro Sole, e prenda

già mezzo il cielo, e come un cielo immenso

su noi discenda, e tutto in lui discenda...

  Io guardo là dove biancheggia un denso

sciame di mondi, quanti atomi a volo

sono in un raggio: alla Galassia: e penso:

  O Sole, eterno tu non sei - né solo! -

 

  Anima nostra! fanciulletto mesto!

nostro buono malato fanciulletto,

che non t'addormi, s'altri non è desto!

  felice, se vicina al bianco letto

s'indugia la tua madre che conduce

la tua manina dalla fronte al petto;

  contento almeno, se per te traluce

l'uscio da canto, e tu senti il respiro

uguale della madre tua che cuce;

  il respiro o il sospiro; anche il sospiro;

o almeno che tu oda uno in faccende

per casa, o almeno per le strade a giro;

  o veda almeno un lume che s'accende

da lungi, e senta un suono di campane

che lento ascende e che dal cielo pende;

  almeno un lume, e l'uggiolìo d'un cane:

un fioco lume, un debole uggiolìo:

un lumicino... Sirio: occhio del Cane

  che veglia sopra il limitar di Dio!

 

  Ma se al fine dei tempi entra il silenzio?

se tutto nel silenzio entra? la stella

della rugiada e l'astro dell'assenzio?

  Atair, Algol? se, dopo la procella

dell'Universo, lenta cade e i Soli

la neve della Eternità cancella?

  che poseranno senza mai più voli

né mai più urti né mai più faville,

fermi per sempre ed in eterno soli!

  Una cripta di morti astri, di mille

fossili mondi, ove non più risuoni

né un appartato gocciolìo di stille;

  non fiumi più, di tanti milioni

d'esseri, un fiato; non rimanga un moto,

delle infinite costellazioni!

  Un sepolcreto in cui da sé remoto

dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte

non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto

  sonno di ciò che fu! - Questa è la morte! -

 

  Questa, la morte! questa sol, la tomba...

se già l'ignoto Spirito non piova

con un gran tuono, con una gran romba;

  e forse le macerie anco sommuova,

e batta a Vega Aldebaran che forse

dian, le due selci, la scintilla nuova;

  e prenda in mano, e getti alle lor corse,

sotto una nuova lampada polare,

altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand'Orse;

  e li getti a cozzare, a naufragare,

a seminare dei rottami sparsi

del lor naufragio il loro etereo mare;

  e li getti a impietrarsi a consumarsi,

fermi i lunghi millenni de' millenni

nell'impietrarsi, ed in un attimo arsi;

  all'infinito lor volo li impenni,

anzi no, li abbandoni all'infinita

loro caduta: a rimorir perenni:

  alla vita alla vita, anzi: alla vita!

  Io mi rivolgo al segno del Leone

dond'arde il fuoco in che si muta un astro,

alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone,

indifferenti al tacito disastro;

  ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi

Soli, lucenti appena come crune,

ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi

dalla misteriosa ansia comune;

  a voi, a voi, girovaghe Comete

che sapete le vie del ciel profondo;

o Nebulose oscure, a voi che siete

granai del cielo, ogni cui grano è un mondo:

  di là di voi, di là del firmamento,

di là del più lontano ultimo Sole;

io grido il lungo fievole lamento

d'un fanciulletto che non può, non vuole

  dormire! di questa anima fanciulla

che non ci vuole, non ci sa morire!

che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,

vuole sotto il chiaror dell'avvenire!

  morire, sì; ma che si viva ancora

intorno al suo gran sonno, al suo profondo

oblìo; per sempre, ov'ella visse un'ora;

nella sua casa, nel suo dolce mondo:

  anche, se questa Terra arsa, distrutto

questo Sole, dall'ultimo sfacelo

un astro nuovo emerga, uno, tra tutto

il polverìo del nostro vecchio cielo.

  Così pensavo: e lo Zi Meo guardando

ciò ch'io guardava, mormorò tranquillo:

“Stellato fisso: domattina piove”.

Era andato alle porche il suo pensiero.

Bene egli aveva sementato il grano

nella polvere, all'aspro; e San Martino

avea tenuta per più dì la pioggia

per non scoprire e portar via la seme.

Ma era già durata assai la state

di San Martino, e facea bono l'acqua.

E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi

domani al rombo d'una grande acquata,

era contento, e andava a riposare,

parlando di Chioccetta e di Mercanti,

sopra le nuove spoglie di granturco,

la cara vita cui nutrisce il pane.

 

18. La tovaglia

 

  Le dicevano: - Bambina!

che tu non lasci mai stesa,

dalla sera alla mattina,

ma porta dove l'hai presa,

la tovaglia bianca, appena

ch'è terminata la cena!

Bada, che vengono i morti!

i tristi, i pallidi morti!

  Entrano, ansimano muti.

Ognuno è tanto mai stanco!

E si fermano seduti

la notte intorno a quel bianco.

Stanno lì sino al domani,

col capo tra le due mani,

senza che nulla si senta,

sotto la lampada spenta. -

  E` già grande la bambina:

la casa regge, e lavora:

fa il bucato e la cucina,

fa tutto al modo d'allora.

Pensa a tutto, ma non pensa

a sparecchiare la mensa.

Lascia che vengano i morti,

i buoni, i poveri morti.

  Oh! la notte nera nera,

di vento, d'acqua, di neve,

lascia ch'entrino da sera,

col loro anelito lieve;

che alla mensa torno torno

riposino fino a giorno,

cercando fatti lontani

col capo tra le due mani.

  Dalla sera alla mattina,

cercando cose lontane,

stanno fissi, a fronte china,

su qualche bricia di pane,

e volendo ricordare,

bevono lagrime amare.

Oh! non ricordano i morti,

i cari, i cari suoi morti!

  - Pane, sì... pane si chiama,

che noi spezzammo concordi:

ricordate?... E` tela, a dama:

ce n'era tanta: ricordi?...

Queste?... Queste sono due,

come le vostre e le tue,

due nostre lagrime amare

cadute nel ricordare! -

 

 

19.