La schilletta di Caprona

 

I

  Sonata già l'Avemaria

dalla chiesa di Caprona,

si sente correre via via

la schilletta che risòna.

  Il poco viene dopo il tanto;

come là nella capanna:

un pianto ancora, un po' di pianto,

dopo tanta ninnananna!

 

II

  Un'ombra va col tintinnìo

di quel vecchio campanello;

e l'ombra passa lungo il rio,

gira il piccolo castello,

  si ferma un poco ad ogni soglia,

come vuole ancor quel primo

che non si sa chi fu, che voglia;

ch'era Nimo, il vecchio Nimo.

  

III

  Fu quando non c'era la fonte,

né la chiesa né il becchino.

Il suo muletto cadde in monte;

gli lasciò solo il bronzino,

  che avea maravigliato i botri

e le polle col suo canto,

quand'egli andava a su con gli otri,

al Saltello, al Lago Santo.

 

IV

  Al suon di questo che, le notti,

nell'immobile abetina

squillava tra i silenzi rotti

dal crocchiar di qualche pina,

  che su gli abissi senza voce

mise il suo dondolìo blando;

ognuno fa il segno di croce

che si fa pericolando.

 

V

  O vecchio, o nostro vecchio buono,

or ci sono due campane;

ma quel tuo piccoletto suono

nel castello tuo rimane.

  O Nimo, o nostro vecchio Nimo!

or c'è un doppio bello e grave;

ma tu per noi sei stato il primo

a dirci Ave! Ave! Ave!

 

VI

  E noi l'amiamo, il tuo bronzino,

che ci mandi, quando imbruna:

lo mandi per un fanciullino:

io lo vidi a un po' di luna.

  A un raggio pallido lo vidi:

è un ragazzo ch'hai, là, teco:

un garzonetto che ti guidi,

perché forse tu sei cieco.

 

VII

  Lo mandi a noi su la sericcia,

che si chiudono le porte:

ha i piedi scalzi, ma scalpiccia

sopra tante foglie morte;

  non parla, ma passando in fretta

sgrolla qualche secco ramo;

per farci udir la tua schilletta

prima che ci addormentiamo.

 

 

20. Il primo cantore

 

I

  Il primo a cantare d'amore

                chi è?

Non si vede un boccio di fiore,

non ancora un albero ha mosso;

la calta sola e il titimalo

verdeggia su l'acqua del fosso:

e tu già canti, o saltimpalo,

                sicceccè... sicceccè...

 

II

  Un ramo non c'è, con due frasche,

per te!

Brulli sono meli e marasche;

forse il mandorlo ha imbottonato:

tu nella vigna sur un palo,

tu sul palancato d'un prato,

d'amore canti, o saltimpalo,

                sicceccè... sicceccè...

 

III

  Hai fretta di fare il tuo nido...

                perché?

Per un prato gira il tuo grido,

porti a un prato radiche e pappi:

non rischi dunque che sul calo

del verno si vanghi e si zappi!

Eppure gridi, o saltimpalo,

                sicceccè... sicceccè...

 

IV

  Hai fretta, sei savio, sai bene

                perché!

Viene il maggio, subito viene

la frullana grande che taglia...

Frulla, o falce! Forti su l'ali,

dal nido di musco e di paglia,

frullano i nuovi saltimpali...

                sicceccè... sicceccè...

 

 

21. La capinera

 

  Il tempo si cambia: stasera

vuol l'acqua venire a ruscelli.

L'annunzia la capinera

tra li àlbatri e li avornielli:

                                               tac tac.

  Non mettere, o bionda mammina,

ai bimbi i vestiti da fuori.

Restate, che l'acqua è vicina:

udite tra i pini e gli allori:

                                               tac tac.

  Anch'essa nel tiepido nido

s'alleva i suoi quattro piccini:

per questo ripete il suo grido,

guardando il suo nido di crini:

                                               tac tac.

  Già vede una nuvola a mare:

già, sotto le goccie dirotte,

vedrà tutto il bosco tremare,

covando tra il vento e la notte:

                                               tac tac.

 

 

22. Foglie morte

 

  Oh! che già il vento volta

e porta via le pioggie!

Dentro la quercia folta

ruma le foglie roggie

                che si staccano, e fru...

  partono; un branco ad ogni

soffio che l'avviluppi.

Par che la quercia sogni

ora, gemendo, i gruppi

                del novembre che fu.

  Volano come uccelli,

morte nel bel sereno:

picchiano nei ramelli

del roseo pesco, pieno

                de' suoi cuccoli già.

  E il roseo pesco oscilla

pieno di morte foglie:

quale s'appende e prilla,

quale da lui si toglie

                con un sibilo, e va.

  Ma quelle foglie morte

che il vento, come roccia,

spazza, non già di morte

parlano ai fiori in boccia,

                ma sussurrano: - Orsù!

  Dentro ogni cocco all'uscio

vedo dei gialli ugnoli:

tu che costì nel guscio

di più covar ti duoli,

                che ti pèriti più?

  Fuori le alucce pure,

tu che costì sei vivo!

Il vento ruglia... eppure

esso non è cattivo.

                Ruglia, brontola: ma...

  contende a noi! Ché tutto

vuol che sia mondo l'orto

pei nuovi fiori, e il brutto,

il secco, il vecchio, il morto,

                vuol che netti di qua.

  Noi c'indugiammo dove

nascemmo, un po', ma era

per ricoprir le nuove

gemme di primavera... -

                Così dicono, e fru...

  partono, ad un rabbuffo

più stridulo e più forte.

E tra un voletto e un tuffo

vanno le foglie morte,

                e non tornano più.

 

 

23. Canzone di marzo

 

  Che torbida notte di marzo!

Ma che mattinata tranquilla!

che cielo pulito! che sfarzo

di perle! Ogni stelo, una stilla

che ride: sorriso che brilla

                su lunghe parole.

  Le serpi si sono destate

col tuono che rimbombò primo

Guizzavano, udendo l'estate,

le verdi cicigne tra il timo;

battevan la coda sul limo

                le biscie acquaiole.

  Ancor le fanciulle si sono

destate, ma per un momento;

pensarono serpi, a quel tuono;

sognarono l'incantamento.

In sogno gettavano al vento

                le loro pezzuole.

  Nell'aride bresche anco l'api

si sono destate agli schiocchi.

La vite gemeva dai capi,

fremevano i gelsi nei nocchi.

Ai lampi sbattevano gli occhi

                le prime viole.

  Han fatto, venendo dal mare,

le rondini tristo viaggio.

Ma ora, vedendo tremare

sopr'ogni acquitrino il suo raggio,

cinguettano in loro linguaggio,

                ch'è ciò che ci vuole.

  Sì, ciò che ci vuole. Le loro

casine, qualcuna si sfalda,

qualcuna è già rotta. Lavoro

ci vuole, ed argilla più salda;

perché ci stia comoda e calda

                la garrula prole.

 

 

24. Valentino

 

  Oh! Valentino vestito di nuovo,

come le brocche dei biancospini!

Solo, ai piedini provati dal rovo

porti la pelle de' tuoi piedini;

  porti le scarpe che mamma ti fece,

che non mutasti mai da quel dì,

che non costarono un picciolo: in vece

costa il vestito che ti cucì.

  Costa; ché mamma già tutto ci spese

quel tintinnante salvadanaio:

ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese

per riempirlo, tutto il pollaio.

  Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco

non ti bastava, tremavi, ahimè!,

e le galline cantavano, Un cocco!

ecco ecco un cocco un cocco per te!

  Poi, le galline chiocciarono, e venne

marzo, e tu, magro contadinello,

restasti a mezzo, così con le penne,

ma nudi i piedi, come un uccello:

  come l'uccello venuto dal mare,

che tra il ciliegio salta, e non sa

ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare,

ci sia qualch'altra felicità

 

 

25. Il croco

 

I

  O pallido croco,

nel vaso d'argilla,

ch'è bello, e non l'ami,

coi petali lilla

tu chiudi gli stami

                di fuoco:

  le miche di fuoco

coi lunghi tuoi petali

chiudi nel cuore

tu leso, o poeta

dei pascoli, fiore

                di croco!

  Voi l'acqua di polla

ravvivi, o viole,

non chi la sua zolla

                rivuole!


 

II

  Ma messo ad un riso

di luce e di cielo,

per subito inganno

ritorna il tuo stelo

colà donde l'hanno

                diviso:

  tu pallido, e fiso

nel raggio che accora,

nel raggio che piace,

dimentichi ch'ora

sei esule, lacero,

                ucciso:

  tu apri il tuo cuore,

ch'è chiuso, che duole,

ch'è rotto, che muore,

                nel sole!

 

 

26. Fanciullo mendico

 

  Ho nel cuore la mesta parola

d'un bimbo ch'all'uscio mi viene.

Una lagrima sparsi, una sola,

per tante sue povere pene;

  e pur quella pensai che vanisse

negl'ispidi riccioli ignota:

egli alzò le pupille sue fisse,

sentendosi molle la gota.

  E io, quasi chiedendo perdono,

gli tersi la stilla smarrita,

con un bacio, e ponevo il mio dono

tra quelle sue povere dita.

  Ed allora ne intesi nel cuore

la voce che ancora vi sta:

Non li voglio: non voglio, signore,

che scemi le vostra pietà.

  E quand'egli già fuor del cancello

riprese il solingo sentiero,

io sentii, che, il suo grave fardello,

godeva a portarselo intiero:

  e chiamava sua madre, che sorta

pareva da nebbie lontane,

a vederlo; poi ch'erano, morta

lei, morta! ma lui senza pane.

 

 

27. La vite

               

  Or che il cucco forse è vicino,

mentre i peschi mettono il fiore,

cammino, e mi pende all'uncino

la spada dell'agricoltore.

  Il pennato porto, ché odo

già la prima voce del cucco...

cu... cu... io rispondo a suo modo:

mi dice ch'io cucchi, e sì, cucco.

  Sì, ti cucco, vite, ché sento

già nel sole stridere l'api:

ti taglio ogni vecchio sarmento,

ti lascio tre occhi e due capi.

  O che piangi, vite gentile,

perché al vento stai nuda nata?

Se anch'io tra i fioretti d'aprile

sembravo una vite tagliata!

  Piangi quello che ti si toglie?

Ma ti cucco, taglio ed accollo,

perché, quando cadon le foglie,

tu abbia un tuo qualche grispollo!

  O mia vite... no, o mia vita,

così torta meglio riscoppi!

E poi... com'è buono, alle dita,

l'odore di gemme di pioppi!

  E parlare, ritto su loro,

col venuto di là dal mare,

chiedendogli, in mezzo al lavoro,

quant'anni si deve campare!

 

 

28. Il sonnellino

               

  Guardai, di tra l'ombra, già nera,

del sonno, smarrendo qualcosa

lì dentro: nell'aria non era

                che un cirro di rosa.

  E il cirro dal limpido azzurro

splendeva sui grigi castelli,

levando per tutto un sussurro

                d'uccelli;

  che sopra le tegole rosse

del tetto e su l'acque del rio

cantavano, e non che non fosse

                silenzio ed oblìo:

  cantavano come non sanno

cantare che i sogni nel cuore,

che cantano forte e non fanno

                rumore.

  E io mi rivolsi nel blando

mio sonno, in un sonno di rosa,

cercando cercando cercando

                quel vecchio qualcosa;

  e forse lo vidi e lo presi,

guidato da un canto d'uccelli,

non so per che ignoti paesi

                più belli...

  che pure ravviso, e mi volgo,

più belli, a guardarli più buono...

Ma tutto mi toglie la folgore...

                O subito tuono!

  ch'hai fatto succedere a un'alba

piaciuta tra il sonno, passata

nel sonno, una stridula e scialba

                giornata!

 

 

29. La bicicletta

 

I

  Mi parve d'udir nella siepe

la sveglia d'un querulo implume.

Un attimo... Intesi lo strepere

                cupo del fiume.

  Mi parve di scorgere un mare

dorato di tremule mèssi.

Un battito... Vidi un filare

                di neri cipressi.

  Mi parve di fendere il pianto

d'un lungo corteo di dolore.

Un palpito... M'erano accanto

                le nozze e l'amore.

                dlin... dlin...

 

II

  Ancora echeggiavano i gridi

dell'innominabile folla;

che udivo stridire gli acrìdi

                su l'umida zolla.

  Mi disse parole sue brevi

qualcuno che arava nel piano:

tu, quando risposi, tenevi

                la falce alla mano.

  Io dissi un'alata parola,

fuggevole vergine, a te;

la intese una vecchia che sola

                parlava con sé.

                dlin... dlin...

 

III

  Mia terra, mia labile strada,

sei tu che trascorri o son io?

Che importa? Ch'io venga o tu vada,

                non è che un addio!

  Ma bello è quest'impeto d'ala,

ma grata è l'ebbrezza del giorno.

Pur dolce è il riposo... Già cala

                la notte: io ritorno.

  La piccola lampada brilla

per mezzo all'oscura città.

Più lenta la piccola squilla

                dà un palpito, e va...

                dlin... dlin...

 

 

30. Il ritorno delle bestie

 

  Non sul pioppo picchia il pennato

più, né l'eco più gli risponde.

L'erta sale un uomo celato

dal carico folto di fronde.

  E il martello d'un legnaiuolo,

più lontano, più non rimbomba.

Passa il grido d'un bimbo solo:

Turella! Bianchina! Colomba!

  Porta in collo l'erba ch'ha fatta,

nella sua crinella di salcio.

Le sue bestie al greppo, alla fratta,

s'indugiano, al cesto ed al tralcio.

  Ei che vede sopra ogni tetto

già la nuvola celestina,

le minaccia col suo falcetto:

Colomba! Turella! Bianchina!

  C'è un falcetto lucido ancora

su la Pania, al fior del sereno,

dentro l'aria dolce ch'odora

d'un tiepido odore di fieno.

  C'è silenzio lassù, dov'erra

quel falcetto con qualche stella.

Solo il bimbo strilla da terra:

Bianchina! Colomba! Turella!

 

 

31.