La figlia maggiore

 

  Ninnava ai piccini la culla,

cuciva ai fratelli le fasce:

non sapeva, madre fanciulla,

                come si nasce.

  Nel cantuccio, zitta, da brava,

preparava cercine e telo

pei bimbi che mamma le andava

                a prendere in cielo.

  Or cantano i passeri intorno

la piccola croce, in amore...

ché lo seppe, misera, un giorno,

                come si muore!

  L'erba è verde, piena di grilli.

Non un passo, non una voce

mai. Vivono, loro, tranquilli

                intorno la croce.

  Si beccano, s'amano, pascono,

in mezzo a quel pieno di cose

e di silenzio, dove il verbasco

                fa tra le rose.

  No, passeri! su le sue zolle,

no! non fate tanto vicino!

Là fitto di bianche corolle

                è il pero e il susino.

  Andate su l'albero in fiore

che al vento si dondola e culla!

Non turbate l'umile cuore

                che non sa nulla!

  Passa il vento come un respiro

caldo, lungo, dolce, che porta

su l'alito il polline in giro...

                sopra la morta.

  No, vento d'aprile, no, vento

d'amore, no tanto vicino!

Là nei campi bacia il frumento,

                soffia tra il lino!

  Fa che venga l'anima ai cardi,

che le viti tengano il raspo:

fa che abbiano l'accia, più tardi,

                il guindolo e l'aspo!

  Ma l'erba qui prima del fiore,

ma il fiore qui prima del seme,

la frullana taglia, e due ore

                sibila e freme.

  Un vecchione falcia e raduna

l'erbe e i fiori di primavera;

poi tutto egli brucia, là, una

                limpida sera:

  la sera, una sera di maggio,

che s'odono tanti stornelli

di sui gelsi, e sente, il villaggio,

                di filugelli.

  Dal villaggio vedon la fiamma

ch'arde sola, rossa, in quel canto:

la vedono gli occhi di mamma

                pieni di pianto.

  Oh! piange, ché il vecchio le toglie

qualcosa più che le togliesse:

fili d'erba, piccole foglie,

                povera mèsse,

  fioritura, sì, bianca e rossa,

della bimba, che non lo sa:

sua sola, laggiù, nella fossa,

                maternità.

 

 

32. L'usignolo e i suoi rivali

               

  Egli coglieva ed ammucchiava al suolo

secche le foglie del suo marzo primo

(era il suo nuovo marzo), il rosignolo,

  per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto

tutto il gran giorno; e dolce più del timo

e più puro dell'acqua era il suo canto.

  Cantava, quando, per le valli intorno,

cu... cu... sentì ripetere, cu... cu...

Ecco: al cuculo egli cedette il giorno,

e di giorno non volle cantar più.

  Non più di giorno. Ma la notte! Appena

la luna estiva, di tra l'alabastro

delle rugiade, tremolò serena,

  riprese il verso; e d'ora in poi soltanto

cantava a notte; e lucido com'astro

e soave com'ombra era il suo canto.

  Cantava, quando, da non so che grotte,

sentì gemere, chiù... piangere, chiù...

All'assiuolo egli lasciò la notte,

anche la notte; e non cantò mai più.

  Or né canta né ode: abita presso

il brusìo d'una fonte e d'un cipresso.

 

 

33. Il fringuello cieco

 

  Finch... finché nel cielo volai,

finch... finch'ebbi il nido sul moro,

c'era un lume, lassù, in ma' mai,

un gran lume di fuoco e d'oro,

che andava sul cielo canoro,

spariva in un tacito oblìo...

  Il sole!... Ogni alba nella macchia,

ogni mattina per il brolo,

- Ci sarà? - chiedea la cornacchia;

- Non c'è più! - gemea l'assiuolo;

e cantava già l'usignolo:

- Addio, addio dio dio dio dio... -

Ma la lodola su dal grano

saliva a vedere ove fosse.

Lo vedeva lontan lontano

con le belle nuvole rosse.

E, scesa al solco donde mosse,

trillava: - C'è, c'è, lode a Dio! -

  Finch... finché non vedo, non credo”

però dicevo a quando a quando.

Il merlo fischiava - Io lo vedo -;

l'usignolo zittìa spiando.

Poi cantava gracile e blando:

- Anch'io anch'io chio chio chio chio... -

                Ma il dì ch'io persi cieli e nidi,

ahimè che fu vero, e s'è spento!

Sentii gli occhi pungermi, e vidi

che s'annerava lento lento.

Ed ora perciò mi risento:

- O sol sol sol sol... sole mio? -

 

 

34. La canzone dell'ulivo

 

I

  A' piedi del vecchio maniero

che ingombrano l'edera e il rovo;

dove abita un bruno sparviero,

                non altro, di vivo;

  che strilla e si leva, ed a spire

poi torna, turbato nel covo,

chi sa? dall'andare e venire

                d'un vecchio balivo:

  a' piedi dell'odio che, alfine,

solo è con le proprie rovine,

                piantiamo l'ulivo!

               

II

  l'ulivo che a gli uomini appresti

la bacca ch'è cibo e ch'è luce,

gremita, che alcuna ne resti

                pel tordo sassello;

  l'ulivo che ombreggi d'un glauco

pallore la rupe già truce,

dov'erri la pecora, e rauco

                la chiami l'agnello;

  l'ulivo che dia le vermene

pel figlio dell'uomo, che viene

                sul mite asinello.

               

III

  Portate il piccone; rimanga

l'aratro nell'ozio dell'aie.

Respinge il marrello e la vanga

                lo sterile clivo.

  Il clivo che ripido sale,

biancheggia di sassi e di ghiaie;

lo assordano l'ebbre cicale

                col grido solivo.

  Qui radichi e cresca! Non vuole,

per crescere, ch'aria, che sole,

                che tempo, l'ulivo!

 

IV

  Nei massi le barbe, e nel cielo

le piccole foglie d'argento!

Serbate a più gracile stelo

                più soffici zolle!

  Tra i massi s'avvinchia, e non cede,

se i massi non cedono, al vento.

Lì, soffre, ma cresce, né chiede

                più ciò che non volle.

  L'ulivo che soffre ma bea,

che ciò ch'è più duro, ciò crea

                che scorre più molle.

 

V

  Per sé, c'è chi semina i biondi

solleciti grani cui copra

la neve del verno e cui mondi

                lo zefiro estivo.

  Per sé, c'è chi pianta l'alloro

che presto l'ombreggi e che sopra

lui regni, al sussurro canoro

                del labile rivo.

  Non male. Noi mèsse pei figli,

noi, ombra pei figli de' figli,

                piantiamo l'ulivo!

 

VI

  Voi, alberi sùbiti, date

pur ombra a chi pianta ed innesta;

voi, frutto; e le brevi fiammate

                col rombo seguace!

  Tu, placido e pallido ulivo,

non dare a noi nulla; ma resta!

ma cresci, sicuro e tardivo,

                nel tempo che tace!

  ma nutri il lumino soletto

che, dopo, ci brilli sul letto

                dell'ultima pace!

 

 

35. Passeri a sera

 

  L'uomo che intende gli uccelli, i gridi

dei falchi, i pianti delle colombe,

ciò che le cincie dicono ai nidi,

e il chiù, che vuole più dalle tombe;

  siede a un cipresso. Passa, e lavora

sempre, un aratro, là, là, soletto,

con qualche voce ruvida. E` l'ora

che vanno i bruni passeri a letto.

  Chi vien dal monte, chi vien dal piano:

tutti al cipresso. Cantano: - Sì...

  Ora, sebbene tu non ti scopra,

sappiamo quanto buono tu fossi

ponendo pietra su pietra, e sopra

facendo un tetto d'embrici rossi.

  Per chi? Per questi passeri... E` breve,

di verno, il giorno, la notte è lunga:

tu vuoi che prima ci esca la neve,

tu vuoi che il sole prima ci giunga.

  Le case fece la tua gran mano

pei tetti, e i tetti per noi coprì.

  Hai cibi grati per noi, che sono

grandi pel nostro piccolo becco:

giorno per giorno, rompi tu buono

con i tuoi denti stessi il pan secco;

  spargi le bianche briciole, scuoti

la bianca tela; le spazzi fuori;

ma un po' lontano, come è nei voti

di questi buoni tuoi peccatori;

  che, sì, vediamo tutto da un ramo,

lieti, ma in cuore timidi un po'.

  Ed altro pensi, che spetrerebbe

tra l'alte nubi l'aquila e il falco!

Tu prendi, appena sai che ci crebbe

famiglia, i chicchi d'oro dal palco;

  esci all'aperto; spargi quei chicchi,

prodigo e cauto, tra due filari;

anzi, a che l'oro meglio ne spicchi

su quel pulito, v'erpichi ed ari.

  E noi da un ramo, comodi, udiamo

quelle tue lunghe grida, Bi... Ro...

  Vero che a volte ce li nascondi,

quei chicchi; vero; ma fai per giuoco.

Ma ecco, a volte son così fondi,

che noi diremmo, Badaci un poco!

  Pure il tuo male mai non fa male:

quelli che copre l'invida zappa,

poi, col frinire delle cicale,

mettono un gambo, fanno una rappa:

  che poi ci sgrani... Dal male il bene:

bene che nasce, male che fu. -

  Ma già i minori dormono. Soli

vegliano i vecchi. C'è chi sospira:

- Ahimè! talvolta di noi ti duoli!

Sei giusto, eppure grave nell'ira.

  Or che i novelli tengono i capi

sotto le alucce, vicino al cuore,

lo dico, mentre tacciono l'api,

le mosche, i ragni, tutto: si muore!

  Tu ci vuoi bene, certo... ma il bene

tuo lo vorremmo per un po' più... -

  E` già nell'ombra tutta la valle:

sui monti un raggio trema del giorno.

Già le notturne grandi farfalle,

coi neri teschi, ronzano intorno.

  - Oh! quel diluvio con che noi vivi

tu pigli, grandi, piccoli, troppi!

Oh! quel baleno con che ci arrivi

fino su l'alte cime dei pioppi!

  Ma da te viene ciò che ci piace:

forse anche questo ci piacerà. -

  Dormono. L'uomo parte. Il cipresso

freme di nuovi brevi bisbigli.

  - C'era non visto dunque sì presso!?

Su, la zampina... non c'è più, figli! -

  Va l'uomo, e nero tu nell'azzurro,

cipresso pieno d'anime, affondi.

Va l'uomo, ed ora bada al sussurro

che fan tra loro fievole i mondi,

  su, fitti fitti, piccoli, in pace,

nell'infinita serenità.

 

 

36.

Il gelsomino notturno

 

  E s'aprono i fiori notturni,

nell'ora che penso a' miei cari.

Sono apparse in mezzo ai viburni

le farfalle crepuscolari.

  Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.

Sotto l'ali dormono i nidi,

come gli occhi sotto le ciglia.

  Dai calici aperti si esala

l'odore di fragole rosse.

Splende un lume là nella sala.

Nasce l'erba sopra le fosse.

  Un'ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.

La Chioccetta per l'aia azzurra

va col suo pigolìo di stelle.

  Per tutta la notte s'esala

l'odore che passa col vento.

Passa il lume su per la scala;

brilla al primo piano: s'è spento...

  E` l'alba: si chiudono i petali

un poco gualciti; si cova,

dentro l'urna molle e segreta,

non so che felicità nuova.

 

 

37.