Il poeta solitario

 

  O dolce usignolo che ascolto

(non sai dove), in questa gran pace

cantare cantare tra il folto,

là, dei sanguini e delle acace;

  t'ho presa - perdona, usignolo -

una dolce nota, sol una,

ch'io canto tra me, solo solo,

nella sera, al lume di luna.

  E pare una tremula bolla

tra l'odore acuto del fieno,

un molle gorgoglio di polla,

un lontano fischio di treno...

  Chi passa, al morire del giorno,

ch'ode un fischio lungo laggiù

riprende nel cuore il ritorno

verso quello che non è più.

  Si trova al nativo villaggio,

vi ritrova quello che c'era:

l'odore di mesi-di-maggio

buon odor di rose e di cera.

  Ne ronzano le litanie,

come l'api intorno una culla:

ci sono due voci sì pie!

di sua madre e d'una fanciulla.

  Poi fatto silenzio, pian piano,

nella nota mia, che t'ho presa,

risente squillare il lontano

campanello della sua chiesa.

  Riprende l'antica preghiera,

ch'ora ora non ha perché;

si trova con quello che c'era,

ch'ora ora ora non c'è...

 ..........................................

 Chi sono? Non chiederlo. Io piango,

ma di notte, perch'ho vergogna.

O alato, io qui vivo nel fango.

Sono un gramo rospo che sogna.

 

 

38. La guazza

 

  Laggiù, nella notte, tra scosse

d'un lento sonaglio, uno scalpito

è fermo. Non anco son rosse

                le cime dell'Alpi.

  Nel cielo d'un languido azzurro,

le stelle si sbiancano appena:

si sente un confuso sussurro

                nell'aria serena.

  Chi passa per tacite strade?

Chi parla da tacite soglie?

Nessuno. E` la guazza che cade

                sopr'aride foglie.

  Si parte, ch'è ora, né giorno,

sbarrando le vane pupille;

si parte tra un murmure intorno

                di piccole stille.

  In mezzo alle tenebre sole,

qualcuna riluce un minuto;

riflette il tuo Sole, o mio Sole;

                poi cade: ha veduto.

 

 

39. Primo canto

 

  Quando apparisce l'oro nel grano

col verdolino nuovo dei tralci,

e già nell'ore d'ozio il villano

sopra una pietra batte le falci;

  dall'aie, dalle prode, dal fimo

che vaporando sente la state,

voi con la gioia del canto primo,

primi galletti, tutti cantate:

                               Vita da re...!

  A tutte l'ore gettate all'aria,

chi di tra i solchi, chi di sui rami,

la vostra voce stridula e varia,

chi, che ripeta, chi, che richiami.

  Chi fioco i versi muta e rimuta,

chi strilla quasi lo correggesse:

e l'uno dopo l'altro saluta

la casa, il sole, l'ombra, la mèsse:

                               Vita da re...!

  Galletti arguti, gloria dell'aia

che da due mesi v'ospita e pasce,

ora la vostra vecchia massaia,

quando vi sente, pensa alle grasce:

  quando vi sente, pensa ai padroni

il contadino vostro che miete,

e mentre lega manne e covoni,

galletti arguti, con voi ripete:

                               Vita da re...!

  Quando, odorati sempre di lolla,

lasciate i campi dove nasceste,

perché, se un'aspra mano vi sgrolla,

voi vi beccate tra voi le creste?

  Lunga è la strada, grave la state,

vi stringe il duro cappio di tozzo:

voi l'uno all'altro rimproverate

quel vostro canto chiuso nel gozzo:

                               Vita da re...!

  Poi nel paese, tra quattro mura,

sotto il barlume forse d'un moggio,

nella cucina tacita e scura

voi ricordate l'aia ed il poggio;

  e mentre tutti dormono, e scialba

geme la luce dalle finestre,

come un lamento lungo su l'alba

suona l'antico grido silvestre:

                               Vita da re...!

 

 

40. La canzone del girarrosto

 

I

  Domenica! il dì che a mattina

sorride e sospira al tramonto!...

Che ha quella teglia in cucina?

che brontola brontola brontola...

  E` fuori un frastuono di giuoco,

per casa è un sentore di spigo...

Che ha quella pentola al fuoco?

che sfrigola sfrigola sfrigola...

  E già la massaia ritorna

                da messa;

così come trovasi adorna,

                s'appressa:

  la brage qua copre, là desta,

passando, frr, come in un volo,

spargendo un odore di festa,

di nuovo, di tela e giaggiolo.

               

 

II

  La macchina è in punto; l'agnello

nel lungo schidione è già pronto;

la teglia è sul chiuso fornello,

che brontola brontola brontola...

  Ed ecco la macchina parte

da sé, col suo trepido intrigo:

la pentola nera è da parte,

che sfrigola sfrigola sfrigola...

  Ed ecco che scende, che sale,

                che frulla,

che va con un dondolo eguale

                di culla.

  La legna scoppietta; ed un fioco

fragore all'orecchio risuona

di qualche invitato, che un poco

s'è fermo su l'uscio, e ragiona.

 

 

III

  E` l'ora, in cucina, che troppi

due sono, ed un solo non basta:

si cuoce, tra murmuri e scoppi,

la bionda matassa di pasta.

  Qua, nella cucina, lo svolo

di piccole grida d'impero;

là, in sala, il ronzare, ormai solo,

d'un ospite molto ciarliero.

  Avanti i suoi ciocchi, senz'ira

                né pena,

la docile macchina gira

                serena,

  qual docile servo, una volta

ch'ha inteso, né altro bisogna:

lavora nel mentre che ascolta,

lavora nel mentre che sogna.

 

 

IV

  Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,

con una vertigine molle:

con qualche suo fremito incuora

la pentola grande che bolle.

  E` l'ora: s'affretta, né tace,

ché sgrida, rimprovera, accusa,

col suo ticchettìo pertinace,

la teglia che brontola chiusa.

  Campana lontana si sente

                sonare.

Un'altra con onde più lente,

                più chiare,

  risponde. Ed il piccolo schiavo

già stanco, girando bel bello,

già mormora, in tavola! in tavola!,

e dondola il suo campanello.

 

 

41. L'ora di Barga

               

  Al mio cantuccio, donde non sento

se non le reste brusir del grano,

il suon dell'ore viene col vento

dal non veduto borgo montano:

suono che uguale, che blando cade,

come una voce che persuade.

  Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi,

voce che cadi blanda dal cielo.

Ma un poco ancora lascia che guardi

l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,

cose ch'han molti secoli o un anno

o un'ora, e quelle nubi che vanno.

  Lasciami immoto qui rimanere

fra tanto moto d'ale e di fronde;

e udire il gallo che da un podere

chiama, e da un altro l'altro risponde,

e, quando altrove l'anima è fissa,

gli strilli d'una cincia che rissa.

  E suona ancora l'ora, e mi manda

prima un suo grido di meraviglia

tinnulo, e quindi con la sua blanda

voce di prima parla e consiglia,

e grave grave grave m'incuora:

mi dice, E` tardi; mi dice, E` l'ora.

  Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,

voce che cadi blanda dal cielo!

Ma bello è questo poco di giorno

che mi traluce come da un velo!

Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi;

ma un poco ancora lascia che guardi.

  Lascia che guardi dentro il mio cuore,

lascia ch'io viva del mio passato;

se c'è sul bronco sempre quel fiore,

s'io trovi un bacio che non ho dato!

Nel mio cantuccio d'ombra romita

lascia ch'io pianga su la mia vita!

  E suona ancora l'ora, e mi squilla

due volte un grido quasi di cruccio,

e poi, tornata blanda e tranquilla,

mi persuade nel mio cantuccio:

è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo

dove son quelli ch'amano ed amo.

 

 

42. Il viatico

               

  Là, suonano a doppio. Si sente,

qua presso, uno struscio di gente,

e suona suona un campanello

                sul dolce mezzodì.

  Si sente una lauda che sale

tra il fremito delle cicale

per il sentiero, ove il fringuello

                cauto via via zittì.

  E passa un branchetto... Son quelli.

Son poveri bimbi in capelli,

poi donne salmeggianti in coro:

                O vivo pan del ciel!...

  E` un vecchio che parte; e il paese

gli porta qualcosa che chiese,

cantando sotto il cielo d'oro:

                O vivo pan del ciel!...

  qualcosa che in tanti e tanti anni,

cercando tra gioie ed affanni,

ancora non poté riporre

                da portar via con sé.

  E gli altri si assidono a mensa,

ma egli ancor cerca, ancor pensa

al niente, al niente che gli occorre,

                a un piccolo perché,

  nel piccolo passo, ch'è un volo

di mosca, ch'è un attimo solo...

Quel giorno anche per me, campane,

                sonate pur così,

  quel canto, in quell'ora, s'inalzi,

portatemi, o piccoli scalzi,

portatelo anche a me quel pane,

                sul vostro mezzodì.

 

 

43. L'imbrunire

 

  Cielo e Terra dicono qualcosa

l'uno all'altro nella dolce sera.

Una stella nell'aria di rosa,

un lumino nell'oscurità.

  I Terreni parlano ai Celesti,

quando, o Terra, ridiventi nera;

quando sembra che l'ora s'arresti,

nell'attesa di ciò che sarà.

  Tre pianeti su l'azzurro gorgo,

tre finestre lungo il fiume oscuro;

sette case nel tacito borgo,

sette Pleiadi un poco più su.

  Case nere: bianche gallinelle!

Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!

Una stella od un gruppo di stelle

per ogni uomo o per ogni tribù.

  Quelle case sono ognuna un mondo

con la fiamma dentro, che traspare;

e c'è dentro un tumulto giocondo

che non s'ode a due passi di là.

  E tra i mondi, come un grigio velo,

erra il fumo d'ogni focolare.

La Via Lattea s'esala nel cielo,

per la tremola serenità.

 

 

44. La fonte di Castelvecchio

 

  O voi che, mentre i culmini Apuani

il sole cinge d'un vapor vermiglio,

e fa di contro splendere i lontani

                                               vetri di Tiglio;

  venite a questa fonte nuova, sulle

teste la brocca, netta come specchio,

equilibrando tremula, fanciulle

                                               di Castelvecchio;

  e nella strada che già s'ombra, il busso

picchia de' duri zoccoli, e la gonna

stiocca passando, e suona eterno il flusso

                                               della Corsonna:

  fanciulle, io sono l'acqua della Borra,

dove brusivo con un lieve rombo

sotto i castagni; ora convien che corra

                                               chiusa nel piombo.

  A voi, prigione dalle verdi alture,

pura di vena, vergine di fango,

scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure

                                               vergini, piango:

  non come piange nel salir grondando

l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:

io solo mando tra il gorgoglio blando

                                               qualche singhiozzo.

  Oh! la mia vita di solinga polla

nel taciturno colle delle capre!

udir soltanto foglia che si crolla,

                                               cardo che s'apre,

  vespa che ronza, e queruli richiami

del forasiepe! Il mio cantar sommesso

era tra i poggi ornati di ciclami

                                               sempre lo stesso;

  sempre sì dolce! E nelle estive notti,

più, se l'eterno mio lamento solo

s'accompagnava ai gemiti interrotti

                                               dell'assiuolo,

  più dolce, più! Ma date a me, ragazze

di Castelvecchio, date a me le nuove

del mondo bello: che si fa? le guazze

                                               cadono, o piove?

  e per le selve ancora si tracoglie,

o fate appietto? ed il metato fuma,

o già picchiate? aspettano le foglie

                                               molli la bruma,

  o le crinelle empite ne' frondai

in cui dall'Alpe è scesa qualche breve

frasca di faggio? od è già l'Alpe ormai

                                               bianca di neve?

  Più nulla io vedo, io che vedea non molto

quando chiamavo, con il mio rumore

fresco, il fanciullo che cogliea nel folto

                                               macole e more.

  Col nepotino a me venìa la bianca

 vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo

andare come vaccherella stanca

                                               va col suo redo.

  Nella deserta chiesa che rovina,

vive la bianca Matta dei Beghelli

più? desta lei la sveglia mattutina

                               più, de' fringuelli?

  Essa veniva al garrulo mio rivo

sempre garrendo dentro sé, la vecchia:

e io, garrendo ancora più, l'empivo

                                               sempre la secchia.

  Ah! che credevo d'essere sua cosa!

Con lei parlavo, ella parlava meco,

come una voce nella valle ombrosa

                                               parla con l'eco.

  Però singhiozzo ripensando a questa

che lasciai nella chiesa solitaria,

che avea due cose al mondo, e gliene resta

                                               l'una, ch'è l'aria.

 

 

45. Temporale

               

  E` mezzodì. Rintomba.

Tacciono le cicale

nelle stridule seccie.

  E chiaro un tuon rimbomba

dopo uno stanco, uguale,

rotolare di breccie.

  Rondini ad ali aperte

fanno echeggiar la loggia

de' lor piccoli scoppi.

  Già, dopo l'afa inerte,

fanno rumor di pioggia

le fogline dei pioppi.

  Un tuon sgretola l'aria.

Sembra venuto sera.

Picchia ogni anta su l'anta.

  Serrano. Solitaria

s'ode una capinera,

là, che canta... che canta...

  E l'acqua cade, a grosse

goccie, poi giù a torrenti,

sopra i fumidi campi.

  S'è sfatto il cielo: a scosse

v'entrano urlando i venti

e vi sbisciano i lampi.

  Cresce in un gran sussulto

l'acqua, dopo ogni rotto

schianto ch'aspro diroccia;

  mentre, col suo singulto

trepido, passa sotto

l'acquazzone una chioccia.

  Appena tace il tuono,

che quando al fin già pare,

fa tremare ogni vetro,

  tra il vento e l'acqua, buono,

s'ode quel croccolare

co' suoi pigolìi dietro.

 

 

46. La mia sera

               

  Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c'è un breve gre gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

                Che pace, la sera!

  Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell'aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

                nell'umida sera.

  E`, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d'oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

                nell'ultima sera.

  Che voli di rondini intorno!

che gridi nell'aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l'ebbero intera.

Né io... e che voli, che gridi,

                mia limpida sera!

  Don... Don... E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra...

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch'io torni com'era...

sentivo mia madre... poi nulla...

                sul far della sera.

 

 

47. In viaggio

 

  Si ferma, e già fischia, ed insieme,

tra il ferreo strepito del treno,

si sente una squilla che geme,

là da un paesello sereno,

paesello lungo la via:

                Ave Maria...

  Un poco, tra l'ansia crescente

della nera vaporiera,

l'addio della sera si sente

seguire come una preghiera,

seguire il treno che s'avvia:

                Ave Maria...

  E, come se voglia e non voglia,

il treno nel partir vacilla:

quel suono ci chiama alla soglia

e alla lampada che brilla,

nella casa, ch'è una badia:

                Ave Maria...

  Il padre a quel suono rincasa

facendo un passo ad ogni tocco;

e subito all'uscio di casa

trova il visino del suo cocco,

del più piccino che ci sia...

                Ave Maria...

  Si chiude, la casa; e s'appanna

d'un tratto il vocerìo che c'è;

si chiude, ristringe, accapanna,

per parlare tra sé e sé;

e saluta la compagnia...

                Ave Maria...

  O, tinta d'un lieve rossore,

casina che sorridi al sole!

per noi c'è la notte con l'ore

lunghe lunghe, con l'ore sole,

con l'ore di malinconia...

                Ave Maria...

  Il treno già vola e ci porta

sbuffando l'alito di fuoco;

e ancora nell'aria più smorta

ci giunge quell'addio più fioco,

dal paese che fugge via:

                Ave Maria...

  E cessa. Ma uno che vuole

velar gli occhi, pensar lontano,

tra gemiti e strilli e parole,

tra il frastuono or tremolo or piano,

ode il suono che non s'oblia:

                Ave Maria...

  Con l'uomo che va nella notte,

tra gli aspri urli, i lunghi racconti

del treno che corre per grotte

di monti, sopra lenti ponti,

vien nell'ombrìa la voce pia:

                Ave Maria...

 

 

48. Maria

 

  Ti splende su l'umile testa

la sera d'autunno, Maria!

Ti vedo sorridere mesta

tra i tocchi d'un'Avemaria:

sorride il tuo gracile viso;

né trova, il tuo dolce sorriso,

                nessuno:

  così, con quelli occhi che nuovi

si fissano in ciò che tu trovi

per via; che nessuno ti sa;

quelli occhi sì puri e sì grandi,

coi quali perdoni, e domandi

                pietà:

  quelli occhi sì grandi, sì buoni,

sì pii, che da quando li apristi,

ne diedero dolci perdoni!

ne sparsero lagrime tristi!

quelli occhi cui nulla mai diede

nessuno, cui nulla mai chiede

                nessuno!

  quelli occhi che toccano appena

le cose! due poveri a cena

dal ricco, ignorati dai più;

due umili in fondo alla mensa,

due ospiti a cui non si pensa

                già più!

 

 

49. La mia malattia

 

I

  L'altr'anno, ero malato, ero lontano,

a Messina: col tifo. All'improvviso

udivo spesso camminar pian piano,

  a piedi scalzi. Era Maria, col viso

tutt'ombra, dove un mio levar di ciglia

gettava sempre un lampo di sorriso.

  A volte erano i morti, la famiglia

nostra... Io pian piano mi sentia toccare

il polso, e sussurrare: - Oh! la mia figlia!

  sola! con nulla! con di mezzo il mare! -

 

II

  Quelle sere, Maria non, come suole,

pregava al mio guanciale, co' suoi lenti

bisbigli, con le sue dolci parole:

  dolci parole dette per gli assenti

al buon Gesù, dette per me: preghiere

perché in pace riposi e m'addormenti.

  Prega, e vuol ch'io ripeta.