I capolavori (eNewton Classici) (Italian Edition)
Copertina
Collana

272
Colophon
Titoli originali: Samfundets stötter, traduzione di G. Ottaviano; Et Dukkehjem,
traduzione di L. Chiavarelli: Gjengangere, traduzione di L. Chiavarelli; En Folkefiende,
traduzione di L. Squarzina; Rosmersholm, traduzione di G. Platone; Fruen fra havet,
traduzione di L. Chiavarelli; Hedda Gabler, traduzione di L. Chiavarelli e Ole Jo Norby
Prima edizione ebook: febbraio 2011
© 1973, 1993, 2007 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978 - 88- 541- 3044- 9
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Frontespizio
Henrik Ibsen
I capolavori
I pilastri della società, Casa di bambola,
Spettri, Un nemico del popolo, La casa dei Rosmer,
La donna del mare, Hedda Gabler
Introduzione e presentazioni di Giovanni Antonucci
Antologia critica e note di Lucio Chiavarelli
Con un saggio di James Joyce

Newton Compton editori
Introduzione
La contemporaneità di un artista si misura su vari piani, ma soprattutto sulla capacità che hanno le sue opere di rispondere alle domande di una società che non è più quella del suo tempo. Il «classico», inteso nel senso corretto del termine, è colui che riesce a esprimere perfettamente lo spirito della sua epoca e, nello stesso tempo, a parlare agli uomini delle generazioni successive, creando una sorta di ponte fra passato e futuro. Henrik Ibsen, il fondatore del teatro moderno, il punto di riferimento essenziale per tutti — da Cechov a Strindberg, da Shaw a Pirandello, da O' Neill a Brecht —, è considerato un padre nobile della drammaturgia dell'ultimo secolo, uno di cui non si può fare a meno, ma che, in fondo, ha perso, con il mutare profondo degli atteggiamenti dell'individuo nei confronti della società, la sua necessità, oltre che la sua attualità. Per alcuni, forse per la maggioranza, è una personalità che ci ha lasciato alcuni capolavori, ancora oggi continuamente riproposti sui palcoscenici di tutto il mondo, ma, che, sostanzialmente, è assai meno vitale e inquietante non solo di Beckett, di Ionesco, di Genet e di Pinter, ma anche di Pirandello e di O' Neill. Se, poi, questo discorso si restringe al nostro paese, Ibsen appare con i tratti che gli diede Silvio D'Amico1, quelli dell'autore che «di contro alle sue stesse creature, si pone senza umana, pietosa, cattolica (sic) comprensione (...) Egli non le difende, anzi le mette in stato d'accusa: a volte pare addirittura che le odi, che prenda gusto a soffocarle. In Hedda Gabler, in Fantasmi, in La casa dei Rosmer, in Brand, in non sappiamo quant'altri dei suoi drammi, manca quello che, nella sua sete di comunione, il pubblico ingenuo chiama "il personaggio simpatico" (...) In Ibsen l'equilibrio fra cuore e cervello è stato perduto a tutto svantaggio del primo». È vero che D'Amico è lo storico del teatro che più di tutti ha equivocato il senso e la natura del teatro ibseniano, ma è anche vero che i suoi pregiudizi, divulgati attraverso la sua fortunata Storia del teatro drammatico, sono diventati quelli di tanti teatranti e di molti appassionati del nostro paese. Il fatto è ancora più grave se consideriamo che fu proprio la più grande attrice italiana, Eleonora Duse, a svolgere un ruolo fondamentale di divulgazione sui palcoscenici di tutto il mondo della drammaturgia ibseniana, fino a identificarsi totalmente — per molti anni — in essa.
Comunque, al di là di certi pregiudizi che sfortunatamente non si limitano solo a D'Amico, oggi, alla fine di un secolo apparentemente così lontano da quello in cui operò, Ibsen, come del resto Cechov e Strindberg, acquista, ogni anno che passa, i tratti del «classico» che non finisce di stupirci e che rivela continuamente aspetti imprevisti. Può sembrare strano se si pensa alle migliaia di libri, di ricerche, di testi che gli sono stati dedicati, ma Ibsen è, per tanti aspetti, ancora un continente inesplorato o percorso da esploratori che ne hanno individuato alcune strade, senza peraltro riuscire a coglierne tutti i percorsi. E ciò non tanto per colpa degli esploratori quanto di un'opera così complessa e così inquietante, anche nelle sue contraddizioni, da risultare un enigma. Un enigma che certo non sono in grado di sciogliere coloro (e, sono tanti) che, come ha fatto anche un critico della statura di Alberto Savinio2, liquidano l'Ibsen dei primi testi, ma anche quello di Brand, di Peer Gynt, di Cesare e Galileo, con l'argomento che si tratterebbe di un autore «epico» che darebbe «quel medesimo suono sordo e vacuo che quando ormai erano vuote del loro contenuto davano le grandi scatole di cartone». Né, d'altra parte, ha senso alcuno, oggi, mitizzare l'Ibsen «borghese», facendone, da una parte, l'espressione dell'autore che combatte contro i pregiudizi «borghesi» e, dalla parte opposta, ancora più maldestramente, il rappresentante della borghesia capitalistica nella sua fase imperialistica (sic), come hanno suggerito con risultati disastrosi alcune recenti messinscene, esemplate su un'interpretazione critica di questo tipo3. Insomma, se è vero che il teatro di Ibsen è così ricco di motivi e così «aperto» e polivalente nei significati da rendere possibili letture diversissime, è altrettanto vero che bisogna stare attenti a non inquinarlo e deformarlo fino a renderlo incomprensibile, oltre che irriconoscibile. Le regie di Luca Ronconi e di Massimo Castri, brandendo il vessillo della novità (ma in realtà sono costruite su letture critiche assai datate), hanno finito coll'incrinare la coerenza e la necessità dei testi ibseniani, o disperdendone il senso e lo stile in vacue e velleitarie esercitazioni scenografiche (Ronconi) o, ancor peggio, degradandone i contenuti e il rigore della forma in impossibili tentativi di «capovolgimento» (Castri). Il risultato soprattutto delle messinscene di Castri (La casa dei Rosmer, Hedda Gabler, Il piccolo Eyolf) è stato non solo banale, ma, ciò che è più grave, irritante per il pubblico, che, infatti, non a caso ha rifiutato questi spettacoli.
Questa edizione del teatro di Ibsen si propone prima di tutto di analizzare l'evoluzione di tutta la sua opera, di cogliere certi motivi comuni che legano drammi apparentemente lontanissimi fra loro e non solo in ordine cronologico, di illuminare l'originalità stilistica e poetica della sua drammaturgia, di chiarire per quanto è possibile il simbolismo assai complesso delle sue ultime opere. Un obiettivo non certo facile da raggiungere, ma che ci si deve porre se si ha l'ambizione di aiutare i lettori a penetrare dentro un teatro che ha un fascino inquietante e che è ricchissimo di motivi, ma che proprio per questo ha bisogno di una lettura rigorosa e attenta a tutti i risvolti, anche apparentemente marginali, dei testi ibseniani.
Il primo elemento che occorre chiarire è che Ibsen, come egli stesso ha sottolineato molteplici volte, non si sentiva e non era un ideologo e un riformatore, anche se, come ben vide il critico danese Georg Brandes (le cui vecchie pagine sono ancora, per tanti versi, utili), Ibsen ebbe una stupefacente percezione delle idee, dei fermenti e dei mutamenti che erano nell'aria. Ma era la percezione dell'artista e del poeta, non del «politico» e del «rivoluzionario». È un fatto questo che trova molte resistenze perché — come ha recentemente notato4 lo storico inglese Paul Johnson che pur gli ha dedicato un ritratto graffiante e tutt'altro che privo di ombre — Ibsen non soltanto ha rivoluzionato dalle fondamenta il teatro occidentale, ma ha anche modificato «il modo di pensare i rapporti sociali della sua generazione e di quella successiva. La sua azione, insomma, equivale, per la seconda metà del secolo diciannovesimo, a quella svolta da Rousseau nella seconda metà del diciottesimo (...) Ibsen disse a uomini e donne, specie alle donne, che la coscienza morale e la personale idea di libertà di ciascun individuo sono prioritarie, sul piano etico, rispetto alle esigenze della collettività, e così facendo innescò una rivoluzione negli atteggiamenti e nel comportamento che, già iniziata durante la sua vita, continua con scosse e balzi improvvisi ancora ai nostri giorni (...) Ibsen e le opere di Ibsen costituiscono una delle chiavi di volta del mondo moderno». Tutto questo è vero, ma bisogna stare attenti a non confondere l'arte con l'ideologia, come ha fatto il marxismo che è riuscito, ad esempio, a marxistizzare perfino un autore indiscutibilmente liberale e antitotalitario come Cechov, leggendo i suoi drammi come anticipatori della Rivoluzione sovietica. Il problema di Ibsen è d'ordine estetico e gnoseologico, non certo «politico». La novità del suo teatro (e di tutti coloro che discendono da lui) è quella di «aver riportato sulle scene (per la prima volta, dopo i Greci, benché in modo assai diverso) il dramma dell'uomo alle prese con la verità, deciso a andare in fondo alla propria natura, a fare i conti con il mondo in cui vive, e quindi a non fermarsi dinanzi a nessun rispetto umano (...) Non si tratta più, a teatro, di questo o di quel conflitto, di questo o quel caso umano, di questa o quella passione, ma della verità. O, per meglio dire: del problema della verità: e questo già stabilisce il carattere altamente intellettuale o, come volgarmente si dice "cerebrale" e "astratto" del teatro moderno, dal patriarca Ibsen ai contemporanei Beckett e Jonesco»5.
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