Ne valeva forse la pena? E II piccolo Eyolf, fra tanto grigiore, porta una parola di speranza, l'ultima; la possibilità di giungere a purificare la vita a traverso il dolore, l'espiazione. John Gabriele Borkman ci presenta ancora una figura di fallito, ciclopica, di vinto dalla vita. Il vecchio banchiere ha sacrificato l'amore, la donna, alla sua brama di ricchezza, di potenza. Sconta, ora, il peccato contro natura. E solo le illusioni, la speranza in giorni migliori che verranno lo tengono in vita: ma come tali illusioni cadono, per sempre, egli fugge, muore. Giungiamo così all'ultima opera di Ibsen, al suo testamento tremendo e sconsolato. Il dubbio di aver fallito al suo scopo, nella vita, è divenuto certezza. A che tanto affannarsi? Vane sono state le sue rinunzie, vani i suoi sacrifici. Di tutta la sua opera di apostolo non è rimasto nulla. Valeva dunque la pena?... Quando noi morti ci destiamo riprende il tema di Sulle vette: uno scultore, qui, ha tutto sacrificato alla sua arte; e si sente ora vuoto, terribilmente inutile e triste, giacché sente come una condanna "l'impotenza di creare, e l'impossibilità in pari tempo di raggiungere la gioia". E il lavoro, come la vita del poeta, termina con un grido di sconforto: "Solo quando noi morti ci destiamo, ci avvediamo di non essere mai stati vivi".»
Italo Vitaliano, 1928
6. «L'Ibsen vero è l'Ibsen che è in grado di rappresentare tutt'insieme fusi, la brama dello straordinario, il peccato che la corrode e la rinunzia, la desolazione e la morte, che l'attende; e rappresentarli in forma sua propria (...).
Quando l'arte dell'Ibsen vinse, come si suol dire, la lunga indifferenza del pubblico, e intorno le si raccolsero ammiratori ferventi, zelatori fanatici, interpreti e imitatori, insomma una "scuola", che in quanto tale s'industriava di differenziarsi dalle altre precedenti e contemporanee, quell'arte fu definita e celebrata "arte di problemi", come se la sua peculiare caratteristica consistesse nel proporre problemi morali e sociali, invece di porgere soluzioni anticipate similmente alla commedia francese a tesi, o di rappresentare realisticamente affetti e passioni e azioni. E questa diversità era ben còlta, ma non altrettanto si deve dire della determinazione positiva datale di "arte di problemi"; perché i problemi sono del pensatore, e nessuno è meno pensatore dell'Ibsen nonostante la sua ricca osservazione e l'acuta percezione dei moti dell'animo; e guai a lui se tale egli fosse stato, perché tutto l'ardente suo mondo passionale si sarebbe spento d'un subito sotto il soffio critico della saggezza, più rapidamente e completamente che non il mondo sentimentale giovanile del Goethe sotto la mitezza e il sorriso del Goethe divenuto saggio.»
Benedetto Croce, 1942
7. «C'era qualcosa di negativo, piuttosto che d'impotente, in quel suo parco, un po' timido, avanzar la proposta conciliativa della libertà e della responsabilità (dunque del vivere accomunati agli altri da una legge: dal "rispondere" di noi stessi agli altri dentro una cerchia morale) senza saper accettare le conseguenze della proposta: è fiducioso che altri accolga la parola? Attende l'ultima trasfigurazione di Hilde? Intanto, ancora oscillante, dall'ottimismo di Ellida passa all'anarchismo estetizzante di Hedda. Dico subito estetizzante perché, a contatto con le sue perenni esigenze morali, l'idea antica di una immagine che da una sfera di fantasia piomba sulla vita e la distrugge, rivela sin da principio la propria insufficienza. Era l'ipostasi della sua opera di poeta che attende (ma non ne reca in sé la legge) di umanamente conformarsi e vivere: onde nasce l'intima sua esigenza drammatica; ma quando, per gusto di sperimentatore analista quasi più che per legge di coerenza, egli vuol fare la prova di che cosa sia quel dono di fantasia (e, se volete, di vita fantastica) senza il suo complemento della vita morale, ne esce la più acerba, ironica accusa dell'estetismo che, in tempi che preparavano il trionfo del dannunzianesimo, sia mai stata formulata.»
Mario Apollonio, 1944
8. «C'è in Ibsen il poeta epico e c'è il poeta borghese. C'è il poeta di Brand, Peer Gynt, Ipretendenti alla corona e Cesare e Galileo e c'è il poeta dei Ritornanti e dell'Anitra selvatica, della Donna del mare.
Diciamo subito che l'Ibsen degno di più lunga vita non è l'Ibsen epico, sì l'Ibsen borghese. Difatti l'Ibsen borghese rimane ancora e certamente continuerà a rimanere, mentre quello dall'altisonante fiato è dimenticato e da molti non è stato e non sarà mai conosciuto.
(...)
L'Ibsen poeta epico rientra nella specie delle ardimentose ripetizioni, dei supplementi, dei pleonasmi, dei superflui.
L'Ibsen poeta borghese, invece, crea tipi nuovi e viene a colmare nel casellario dei tipi una lacuna.
Sin dall'apparizione del primo dramma borghese, Casa di bambola, un campanello nuovo squillò nei penetrali del palazzo mentale, una luce nuova si accese sul quadro segnalatore, il cervello del mondo si sentì ricco d'una ricchezza nuova.»
Alberto Savinio, 1945
9. «Assai più e meglio dell'epistolario o delle documentazioni aneddotiche fanno penetrare nel mondo più intimo dell'artista — e anche dell'uomo — gli abbozzi e le varianti dei suoi drammi.
È qui il grande Ibsen, impegnato in un lento metodico lavoro di scavo psicologico, insoddisfatto e diffidente nei personaggi non abbastanza meditati e approfonditi, desideroso di conoscerli in tutti i tratti e in tutte le singolarità del carattere; implacabile nel metterne a nudo i segreti e le contraddizioni. Seguendo questo lento e faticoso processo di formazione del personaggio ibseniano, questo assiduo scrutare e scandagliare l'uomo interiore, non per negarlo atomisticamente, ma per riplasmarlo, si tocca il fondo stesso dell'arte di Ibsen.
Dalla concezione fantastica iniziale lentissimo è il trapasso alla redazione finale dei drammi, attraverso un successivo e progressivo spostarsi dell'angolo visivo. Così Brand del poema drammatico è ben diverso dall'astratta figura dei primi abbozzi, che rispondeva al nome di Kroll; Nora di Casa di bambola non è più l'eroina delle prime stesure; Hjalmar Ekdal di Anitra selvatica non è Gregers Ekdal né Halvdan Ekdal dei primi manoscritti, Alfred Allmers de II piccolo Eyolf non è Harald Borgheim del primo manoscritto né Hakon Skjoldheim del secondo; e Rosmer di La casa dei Rosmer già prima di essere tale ha vissuto due precedenti vite sotto i nomi di Romer e di Rosenhjelm.
Via via che i personaggi prendevano forma e individualità, non sfuggiva all'occhio inesorabile di Ibsen la duplicità della natura umana, l'antitesi tra l'essere e il parere, tra la verità interna e la verità esterna: ed ecco mescolarsi alla sincerità dei sentimenti la teatralità degli atteggiamenti. Ecco l'onesto e mediocre Torvald Helmer farsi meschino egoista, solo preoccupato della propria salvezza; ecco Nora abbandonarsi alla fede del miracolo, cioè alla gradita certezza che il marito prenderà su di sé ogni responsabilità del falso da lei commesso; ecco Hjalmar Ekdal farsi melodrammatico declamatore del suo vuoto spirituale.
È un gioco sottilissimo di luci e ombre, di punti e contrappunti, d'improvvisi trapassi e sfumature, troppo spesso sfuggito all'epidermica attenzione di tanti spettatori e lettori di Ibsen. E bisogna aggiungere: di tanti critici. Pochissimi infatti hanno messo in rilievo il segreto legame che esiste nel drammaturgo norvegese fra l'idealista morale e il nichilista, fra la voce profetica di Brand e la squillante risata di Peer Gynt; ed è davvero strana sorte, che uno dei più problematici e antidottrinali poeti moderni, passi ancor oggi per scolastico banditore di tesi filosofiche morte e sepolte da anni!
Pochi drammi ottocenteschi sono, come gli ibseniani, ravvivati dal soffio sconvolgente della vita, della feroce derisione d'ogni moralismo astratto.
Qui appunto va ricercata la spiegazione della loro validità estetica che di tanto sovrasta la polemica contingente darwinistica e spencerista e le mode letterarie del naturalismo e del simbolismo.»
Mario Gabrieli, 1956
10. «La "morte" nell'ultimo atto dei drammi di Ibsen non è altro che il colpo di grazia dato a persone drammaticamente esaurite. La caduta di Solness dalla torre è evidentemente simbolica come la caduta di Fetonte dal carro del sole. Per le "morti shakespeariane" nel teatro ibseniano bisogna risalire ai drammi anteriori a Brand.
Il dramma nacque in antico dall'unione di due desideri: il desiderio di vedere una danza e quello di udire una storia. La danza divenne declamazione, la storia situazione.
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