Neppure la grottesca ballata del buffone favorito riesce più a distrarre la fronte di questo malato crudele. Il suo letto a fiordalisi si trasforma in sepolcro, e le dame del seguito, per le quali ogni principe è bello, non sanno più inventare quali impudichi abbigliamenti capaci di cavare un sorriso a quel giovane scheletro. Il sapiente che gli fabbrica l'oro non ha mai saputo estirpare la corruzione dal suo essere; e in quei bagni di sangue che abbiamo ereditato dai romani e a cui i potenti, invecchiati, sono soliti ricorrere, egli non ha saputo riscaldare il cadavere ebete in cui non sangue scorre, ma verde acqua di Lete.
78 • SPLEEN (Torna all'indice)
Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l'intero giro dell'orizzonte, una luce diurna più triste della notte;
quando la terra è trasformata in umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti;
quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d'un grande carcere, e un popolo muto d'infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,
improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti, senza patria, che si mettono a gemere, ostinati.
-
E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima, vinta; la Speranza, piange; e l'atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato, il suo nero vessillo.
79 • OSSESSIONE (Torna all'indice)
Voi m'impaurite, grandi boschi, come fsote delle cattedrali; voi urlate come l'organo, e nei nostri cuori maledetti, stanze d'eterna doglia in cui vibrano antichi lamenti, risponde l'eco dei vostri De Profundis.
Te odio, Oceano! Il mio spirito ritrova in sé le tue impennate e i tuoi tumulti: il riso amaro dell'uomo sconfitto, pieno di singhiozzi e d'insulti, lo ritrovo nella risata enorme del mare.
Come ti amerei, o Notte, senza le stelle la cui luce parla un linguaggio così noto! Perché cerco il vuoto, il nero, il nudo!
E le stesse tenebre sono tele in cui vivono, uscendo a migliaia dai miei occhi, esseri ormai spariti agli sguardi famigliari.
80 • VOGLIA DEL NULLA (Torna all'indice)
Triste mio spirito, un tempo innamorato della lotta, la Speranza il cui sperone attizzava i tuoi ardori, non vuole più cavalcarti! Giaciti dunque senza pudore, vecchio cavallo il cui zoccolo incespica a ogni ostacolo.
Rassegnati, cuor mio: dormi il tuo sonno di bruto!
Spirito vinto e stremato! Per te, vecchio predone, l'amore ha perduto il suo gusto, e l'ha perduto la disputa; addio, canti di ottoni e sospiri di flauto! Piaceri, desistete dal tentare un cuore cupo e corrucciato!
L'adorabile Primavera ha perduto il suo profumo.
Il Tempo m'inghiotte minuto per minuto come fa la neve immensa d'un corpo irrigidito; io contemplo dall'alto il globo in tutta la sua circonferenza e non vi cerco più l'asilo d'una capanna.
Valanga, vuoi tu portarmi via nella tua caduta?
81 • ALCHIMIA DEL DOLORE (Torna all'indice)
Chi ti illumina col suo ardore, chi ti abbruna del suo lutto, o Natura! Quel che all'uno dice: Sepoltura, all'altro dice: Vita e Splendore!
O Ermete ignoto che m'assisti e sempre m'intimidisti, tu di me fai un Mida, il più triste degli alchimisti;
grazie a te io muto l'oro in ferro, il paradiso in inferno; nel sudario delle nubi
io scopro un caro cadavere e costruisco grandi tombe sulle rive celesti.
82 • ORRORE SIMPATICO (Torna all'indice)
Da questo cielo bizzarro e livido, tormentato come il tuo destino, quali pensieri discendono nella tua anima vuota? Rispondi, libertino.
- Mai saziato dall'oscuro e dall'incerto, non gemerò come fece Ovidio cacciato dal suo paradiso latino.
Cieli strappati come greti, il mio orgoglio si specchia in voi; le vostre grandi nubi listate a lutto
sono i carri funebri dei miei sogni, e i vostri strappi di luce il riflesso dell'Inferno ove il mio cuore si bea.
83 • L'EAUTONTIMORUMENOS (Torna all'indice)
A J.G.F.
Ti colpirò senza collera e senza odio, come un macellaio; come Mosè colpì la roccia: e farò sgorgare dalla tua palpebra
le acque della sofferenza per dissetare il mio Sahara; il mio desiderio gonfio di speranza galleggerà sulle tue lagrime salate
come un vascello che prende il largo; nel mio cuore che inebrieranno, i tuoi cari singhiozzi echeggeranno come un tamburo che batta la carica.
Non sono forse io un falso accordo nella divina sinfonia, grazie alla vorace Ironia che mi scuote e mi morde?
Essa è nella mia voce clamante! Ed è tutto sangue mio, questo nero veleno! Io sono il sinistro specchio in cui la megera si contempla.
Sono la piaga e il coltello, lo schiaffo e la guancia; sono le membra e la ruota, la vittima e il carnefice!
Sono il vampiro del mio cuore, uno di quei grandi derelitti condannati al riso eterno e incapaci di sorridere!
84 • L'IRRIMEDIABILE (Torna all'indice)
_I
Un'Idea, una Forma, un Essere partito dall'azzurro e caduto in uno Stige plumbeo e fangoso dove nessun occhio del cielo può penetrare;
un Angelo, viaggiatore imprudente, tentato dall'amore del deforme, dibattentesi come un nuotatore al fondo di un incubo enorme
e pugnante, o funebre angoscia, contro un gigantesco mulinello che va cantando come i pazzi e piroettando nelle tenebre;
un infelice stregato nei suoi futili brancolamenti per fuggire da un nido di vipere, in cerca di una luce e di una chiave;
un dannato che discende senza lampada sino all'orlo di un abisso la cui puzza tradisce umida profondità ed eterne scale senza rampe
ove vegliano viscidi mostri i cui grandi occhi fosforescenti rendono la notte anche più nera facendo visibili soltanto se stessi;
una nave imprigionata nel polo come in una trappola di cristallo che cerca per quale stretta fatale sia caduta in questo carcere...
- Emblemi netti, quadro compiuto d'una sorte irrimediabile fanno pensare che al Diavolo riesca sempre tutto!
_II
Incontro a due, scuro e limpido, di un cuore divenuto specchio di se stesso, pozzo di Verità, chiaro e nero, ove palpita una livida stella,
faro ironico, infernale, torcia di grazie sataniche, sollievo e gloria unici: consapevolezza nel Male!
85 • L'OROLOGIO (Torna all'indice)
Orologio, dio sinistro, pauroso, impassibile, il cui dito ci minaccia dicendoci «Ricordati!». Vibranti Dolori si configgeranno presto nel tuo cuore come in un bersaglio;
il vaporoso Piacere fuggirà verso l'orizzonte come una silfide in fondo al palcoscenico; ogni istante ti divora un po' di quel piacere che viene accordato all'uomo fin che dura il suo tempo.
Tremilaseicento volte all'ora il secondo mormora «Ricordati!». Rapido, con la sua voce d'insetto, l'Adesso dice: Io sono l'Allora, ho pompato la tua vita con la mia tromba immonda!
Remember
! Ricordati! prodigo! Esto memor! (La mia gola metallica pronuncia tutte le lingue.) I minuti, o sventato mortale, sono delle sabbie che non bisogna abbandonare senza estrarne un po' d'oro!
Ricordati che il Tempo è un giocatore avido che vince senza barare, a ogni colpo. È la legge. Decresce il giorno, la notte avanza. Ricordati! L'abisso ha sempre sete, la clessidra si svuota.
Presto suonerà l'ora in cui il divino Caso, l'augusta Virtù, tua sposa ancora intatta, il Pentimento stesso (ahi, ultimo rifugio), ogni cosa ti dirà: «Muori, vecchio vigliacco, ormai è troppo tardi.»
QUADRI PARIGINI
86 • PAESAGGIO (Torna all'indice)
Voglio, per comporre castamente le mie egloghe, dormire accanto al cielo, come fanno gli astrologhi; e vicino ai campanili, ascoltare sognando i loro inni solenni portati via dal vento. Le mani sotto il mento, dall'alto della mia mansarda, vedrò l'officina che canta e che chiacchiera, i comignoli, i campanili, alberi maestri della città, e i grandi cieli che fanno sognare l'eterno.
È dolce veder nascere tra le brume la stella nell'azzurro, la lampada alla finestra, i fiumi di carbone che salgono al firmamento e la luna che versa il suo pallido incanto. Vedrò passare primavere, estati, autunni; e quando arriverà, con le sue nevi monotone, l'inverno, serrerò porte e finestre, fabbricherò nella notte i miei palazzi stregati. Sognerò allora orizzonti azzurrini, giardini, zampilli d'acqua riversanti il loro pianto negli alabastri, baci, uccelli cantanti sera e mattino, e quanto di più infantile l'Idillio può possedere. Tempestando vanamente al mio vetro la Rivolta non riuscirà a farmi alzare la fronte dal leggìo, perché sarò tutto immerso nel piacere d'evocare la Primavera, di far nascere un sole dal mio cuore e di trasformare i miei pensieri ardenti in una tiepida atmosfera.
87 • IL SOLE (Torna all'indice)
Lungo il vecchio sobborgo, ove le persiane pendono dalle catapecchie, rifugio di segrete lussurie, quando il sole crudele batte a raggi raddoppiati sulla città e i campi, sui tetti e le messi, io mi esercito tutto solo alla mia fantastica scherma, annusando dovunque gli imprevisti della rima, inciampando nelle parole come nel selciato, urtando qualche volta in versi a lungo sognati.
Questo padre fecondo, nemico di clorosi, sveglia nei campi i vermi e le rose, fa svaporare gli affanni verso il cielo, immagazzina miele nei cervelli e negli alveari. È lui a ringiovanire coloro che vanno con le grucce e a renderli allegri, dolci come fanciulli, lui a ordinare alle messi di crescere e maturare entro il cuore immortale che vuol sempre fiorire.
Quando, simile a un poeta, scende nelle città, nobilita le cose più vili e s'introduce da re senza rumore, senza paggi, entro tutti gli ospedali e tutti i palazzi.
88 • A UN MENDICANTE DAI CAPELLI ROSSI (Torna all'indice)
Bianca fanciulla dai capelli rossi, il cui vestito lascia intravvedere dai suoi buchi bellezza e povertà,
per me, misero poeta, il tuo giovane corpo malaticcio ha una sua dolcezza.
Tu porti con più galanteria i tuoi zoccoli pesanti che non porti i suoi coturni di velluto un'eroina da romanzo.
In luogo del tuo straccetto troppo corto, oh, che un superbo abito di corte ricada in pieghe lunghe e fruscianti sui tuoi talloni;
e che un pugnaletto d'oro riluca sulla tua gamba - per gli occhi dei libertini - in luogo delle tue calze bucate;
che nodi malfatti svelino - per i nostri peccati - i tuoi due bei seni, radiosi come occhi;
che per svestirti le braccia si facciano pregare e caccino a colpi ribelli le dita birichine,
perle della più bella acqua, sonetti di Maestro Belleau dai tuoi innamorati in pena incessantemente offerti,
servitorame di rimatori offerenti le loro primizie contemplando la tua scarpa di sotto la scala,
più d'un paggio desideroso d'avventura, più d'un signore, più d'un Ronsard spierebbero, per un convegno, il tuo fresco rifugio!
Conteresti allora nei tuoi letti più baci che gigli, e sottoporresti alle tue leggi più d'un Valois!
- E tuttavia tu vai raccattando qualche vecchio rimasuglio buttato sulla soglia di un Véfour da sobborghi;
e vai adocchiando, di nascosto, dei gioielli da pochi soldi che io, ahimè, neppure posso donarti.
Va' dunque senza ornamento o profumo, o perle, o diamante, va', solo con la tua magra nudità, o mia bella.
89 • IL CIGNO (Torna all'indice)
A Victor Hugo
_I
Andromaca, io penso a voi! Quel fiumiciattolo, misero e triste specchio dove un tempo rifulse l'immensa maestà delle vostre pene di vedova, quel Simoenta ingrossato dalle vostre lagrime,
ha d'improvviso fecondato la mia fertile memoria mentre attraversavo il Carosello nuovo. La vecchia Parigi non esiste più (l'aspetto d'una città muta più presto, ahimè, che il cuore dell'uomo),
soltanto in spirito vedo tutto il campo di baracche, il mucchio di capitelli appena sbozzati e di fusti di colonne,
le erbe, i grandi massi inverditi dall'acqua delle pozzanghere e, nel brillìo delle vetrine, la confusione delle cianfrusaglie.
Laggiù stava un giorno un serraglio, e là io vidi, un mattino, all'ora in cui sotto cieli freddi e chiari il Lavoro si sveglia, e gli spazzini levano un oscuro uragano nell'aria silenziosa,
un cigno evaso dalla sua gabbia: con i piedi palmati fregava il selciato arido, trascinando il bianco piumaggio sul terreno accidentato. Presso un ruscello secco l'animale, aprendo il becco,
immergeva febbrilmente le ali nella polvere, e diceva, il cuore tutto memore del suo bel lago natìo: «Quando scenderai, acqua, quando esploderai, fulmine?»
Vedo quel misero, strano e fatale mito, verso il cielo, talvolta, verso il cielo ironico e crudelmente azzurro - come l'uomo di Ovidio sul suo collo convulso innalzando l'avida testa - in atto di lanciare rimproveri a Dio
_II
Parigi cambia! Ma nulla è mutato nella mia malinconia: palazzi nuovi, impalcature, massi, vecchi quartieri, tutto in me diviene allegoria, e i miei ricordi più cari sono grevi come rocce.
Così, dinnanzi al Louvre un'immagine m'opprime. Penso al mio grande cigno (ai suoi movimenti folli), ridicolo e sublime come gli esuli, e divorato da un desiderio senza requie. E penso a voi,
Andromaca, caduta dalle braccia d'un grande sposo, come un vile capo di bestiame, sotto la mano del superbo Pirro, curva su una tomba vuota, estatica, penso a voi, vedova di Ettore e sposa di Eléno.
Penso alla negra smarrita e tisica scalpicciante nel fango, in atto di cercare, col suo occhio sconvolto, gli alberi di cocco assenti della superba Africa dietro il muro immenso della nebbia;
penso a chiunque ha perduto quel che non si ritrova mai più, a coloro che si saziano di lagrime succhiando il Dolore come una buona lupa, ai magri orfanelli appassentisi come fiori!
Così, nella foresta ove il mio spirito si rifugia, un vecchio Ricordo suona a perdifiato il suo corno. E penso ai marinai dimenticati su di un'isola, ai prigionieri, ai vinti... e a molti altri ancora!
90 • I SETTE VECCHI (Torna all'indice)
A Victor Hugo
Città formicolante, città piena di sogni, ove lo spettro, in pieno giorno, s'attacca al passato! D'ogni parte colano misteri come linfe negli stretti canali del possente colosso.
Un mattino, nella triste strada, mentre che le case, allungate dalla bruma, sembravano i due argini d'un fiume in piena e che, scenario simile all'anima d'un attore,
un nebbione sudicio e giallo inondava lo spazio, io camminavo, tendendo i nervi come un eroe e discutendo con la mia anima spossata, giù per il quartiere scosso da pesanti carriaggi.
Improvvisamente un vecchio, i cui stracci gialli sembravano imitare il colore di questo cielo piovoso, e il cui aspetto avrebbe fatto fioccare elemosine se la cattiveria non gli avesse brillato negli occhi,
m'apparve. Si sarebbe detto che avesse la pupilla temprata nel fiele, il suo sguardo rendeva più acuto il gelo e la sua barba di lunghi peli, rigida spada, sporgeva in avanti, simile a quella di Giuda.
Non era curvo, ma spezzato, la sua schiena formava un angolo retto con le sue gambe, perfetto. Così il bastone, completando la sua figura, gli dava l'aria e il passo malsicuro
d'un quadrupede infermo o d'un ebreo trascinantesi a stento. S'andava invischiando nella neve e nel fango come se schiacciasse dei morti con le sue ciabatte, più che indifferente, ostile verso il mondo.
Uno del tutto simile a lui lo seguiva: barba, occhio, schiena, bastone, stracci, niente distingueva questo gemello centenario venuto da un medesimo inferno. Spettri barocchi, precedevano di pari passo verso una meta ignota.
In che complotto infame ero caduto o quale malvagio caso m'implicava, umiliandomi? Infatti, un minuto dopo l'altro, contai sette volte quel sinistro vegliardo in via di moltiplicarsi.
Chi si ride della mia inquietudine e non si sente percorso da brividi fraterni, sappia che, ad onta della decrepitezza, quei sette mostri avevano l'aria d'essere eterni!
Avrei potuto, senza morirne, contemplare l'ottavo, sosia inesorabile, ironico e fatale, ripugnante Fenice, padre e figlio di se stesso? Così volsi le spalle all'infernale corteo.
Esasperato al pari d'un ubbriaco che vede doppio, rientrai a casa, serrai la porta, pieno di spavento, malato, infreddolito, l'anima febbrile e turbata, ferito dal mistero e dall'assurdo.
Invano la mia mente voleva riprendere il timone; la tempesta, mulinando, rendeva inutili i suoi sforzi e la mia anima, vecchia barca senza alberi, ballava e ballava su un mare mostruoso e illimitato.
91 • LE VECCHIETTE (Torna all'indice)
A Victor Hugo
_I
Nelle pieghe tortuose delle antiche capitali, dove tutto, anche l'orrore, si trasforma in incanto, io guato, ubbidendo ai miei fatali umori, degli esseri singolari, decrepiti e affascinanti.
Questi esseri sgangherati furono un tempo donne, Epònina, Laìde! Mostri frantumati, ingobbiti, contorti: amiamoli! Sono anime ancora. Sotto gonne piene di buchi, sotto freddi tessuti,
procedono, flagellate da inique ventate, sussultano al fracasso di omnibus rotolanti e si stringono al fianco, come reliquie, borsettine ricamate a fiori o indovinelli:
trottano, in tutto simili a marionette; si trascinano come animali feriti o danzano, senza volere, povere campanelle cui s'attacca un Diavolo senza pietà! Pur malridotti,
i loro occhi penetrano come succhielli e lucono come i buchi in cui la notte l'acqua s'addorme: divini occhi di fanciulla che si meraviglia e ride d'ogni cosa che brilla.
Avete notato mai che alcune bare di vecchie sono piccole quasi come quelle dei bambini? In queste bare la Morte sapiente mette un simbolo di gusto bizzarro e affascinante;
e ogni volta ch'io vedo un debole fantasma attraversare il brulicante quadro di Parigi, penso sempre che quell'essere fragile s'incammini dolcemente verso una nuova culla;
pur che io non indaghi, meditando sulla geometria, al vedere quelle membra discordi, quante mai volte l'operaio debba cambiare la forma della cassa destinata a questi corpi.
- Quegli occhi sono pozzi da un milione di lagrime formati, crogiuoli che un metallo raffreddandosi screziò... Quegli occhi misteriosi hanno un fascino invincibile per chi fu allattato dall'austera Sventura.
_II
Vestale innamorata del defunto «Frascati», sacerdotessa di Talìa, della quale, ahimè, conosce il nome solo un suggeritore già sotterrato, celebre svaporata che un tempo, nel suo fiore, ombreggiò «Tivoli!,
tutte m'inebriano! ma fra questi esseri fragili ce n'è che, ricavando miele dal dolore, hanno detto alla Dedizione che dava loro ali: «Possente Ippogrifo, portami sino in cielo!»
L'una, esercitata all'infelicità dalla patria, l'altra oppressa di dolori dal suo sposo, l'altra ancora, Madonna trafitta dal figlio: avrebbero potuto, tutte, fare un fiume delle loro lagrime.
_III
Ah, quante ne ho seguite di queste vecchine! Fra le altre, una, all'ora che il sole, cadendo, insanguina il cielo di ferite vermiglie, si sedeva pensosa, in disparte, su una panchina
per ascoltare uno di quei concerti, ricchi in ottoni, di cui i soldati alle volte inondano i parchi, e che in queste sere d'oro in cui ci si sente rinascere, versano un po' d'eroismo in cuore ai cittadini.
Ella, dritta ancora, fiera e presa tutta dal ritmo, avidamente fiutava quel canto vivo e guerriero; il suo occhio, a tratti, s'apriva come a una vecchia aquila, la sua fronte di marmo era pronta per il lauro!
_IV
Così ve ne andate, stoiche, senza un lamento, attraverso il caos delle città viventi, madri dal cuore sanguinante, cortigiane o sante, i cui nomi un tempo pronunciavano tutti.
Voi che foste la grazia, voi che foste la gloria, nessuno riconosce: un incivile ubriaco vi insulta, passandovi vicino, con un amore per burla, un ragazzo infame e vile saltella alle vostre calcagne.
Vergognose d'esistere, ombre avvizzite, strisciate, curve, impaurite, contro i muri, e nessuno vi saluta, o strani destini, relitti d'umanità maturi per l'eterno!
Ma io, io, che vi sorveglio di lontano, l'occhio inquieto fisso sui vostri incerti passi come se, o meraviglia, vi fossi padre, assaporo, a vostra insaputa, piaceri clandestini:
vedo schiudersi le vostre passioni prime; oscuri o luminosi che siano, vivo i vostri giorni perduti; il mio cuore molteplice gode di tutti i vostri vizi, la mia anima splende di tutte le vostre virtù.
O rovine, o famiglia mia, o cervelli congeniali, io vi do ogni sera un addio solenne. Dove sarete, domani, o Eve ottuagenarie su cui incombe l'artiglio terribile di Dio?
92 • I CIECHI (Torna all'indice)
Guardali, anima mia: sono veramente orribili. Simili a manichini, ridicoli; terribili, strani sonnambuli, dardeggiano non si sa dove i globi tenebrosi.
I loro occhi, abbandonati dalla divina scintilla, restano alzati al cielo come se guardassero lontano: non li si vede mai curvare verso il selciato la testa appesantita.
Traversano così l'oscurità senza confini, sorella del silenzio eterno. O città! Mentre attorno a noi tu canti ridi e urli,
innamorata atrocemente della voluttà, io, vedi, così mi trascino. Ma più di essi inebetito, mi dico: «Che cosa cercano in cielo, tutti questi ciechi?»
93 • A UN PASSANTE (Torna all'indice)
Dattorno a me urlava la strada assordante. Alta, sottile, in lutto stretto, maestosa nel suo dolore, una donna passò, sollevando con la mano superba il festone e l'orlo della gonna;
era così agile e nobile, con la sua gamba statuaria...
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