Lo sento colare con un lungo murmure, ma mi tasto invano in cerca d'una ferita.
Fluisce attraverso la città come per un campo recintato e trasforma i selciati in isolotti, cava la sete a ogni creatura, tinge la natura in rosso.
Spesso al vino capzioso ho chiesto di addormire per un giorno il terrore che m'assilla; ma il vino rende l'occhio più acuto e l'orecchio più fino.
Ho cercato nell'amore il sonno dell'oblio; ma l'amore, per me, non è che un materasso d'aghi fatto per procurare da bere a crudeli puttane.
114 • ALLEGORIA (Torna all'indice)
È una bella donna, di ricca nuca, e lascia che la sua chioma fluisca nel vino... Le unghiate dell'amore e i veleni della bisca scivolano e si smussano al granito della sua pelle. Ride della Morte e si beffa del Vizio, quei mostri la cui mano, sempre pronta a raschiare e falciare, ha rispettato nei suoi giochi distruttori la rude maestà del corpo sodo e dritto. Incede come una dea, riposa come una sultana; ha nel piacere la fede dei maomettani, nelle sue braccia spalancate, che il seno colma, richiama con gli occhi l'intera razza umana. Crede, sa, questa vergine infeconda, e pure necessaria al cammino del mondo, che la bellezza del corpo è un dono sublime capace di trovare un perdono a ogni infamia. Ignora Inferno e Purgatorio; quando verrà l'ora d'entrare nell'oscurità della Notte, fisserà la Morte senza odio né rimorso, come un neonato.
115 • LA BEATRICE (Torna all'indice)
In terreni di cenere, calcinati, brulli, un giorno, mentre mi lagnavo con la natura, e, vagando senza meta, aguzzavo lentamente sul cuore la lama del pensiero, vidi, in pieno mezzodì, discendermi sulla testa una nube funebre, gravida di tempesta e d'un branco di demòni viziosi, in tutto simili a nani curiosi e crudeli. Si misero a guardarmi freddamente, e li udii - come fanno i passanti con i pazzi - ridere e bisbigliare fra di sé, scambiandosi cenni e ammicchi.
«Guardiamola a nostro piacere questa caricatura, quest'ombra di Amleto che ad Amleto si atteggia, lo sguardo vago e i capelli al vento. Non fa pena vedere questo bel tomo, questo pezzente, quest'attorucolo disoccupato, questo buffone che, perché sa sostenere il suo ruolo d'artista, pretende interessare al canto dei suoi dolori le aquile e i grilli, i ruscelli e i fiori, e vuole anche a noi, inventori di queste vecchie storie, declamare urlando le sue tirate pubbliche?»
Avrei potuto (la mia superbia, alta come le montagne, domina i nembi e il grido dei demòni) volgere semplicemente altrove il mio sguardo sovrano, se non avessi veduto in quella turba oscena - delitto che non ha fatto vacillare il sole - la regina del mio cuore dallo sguardo impareggiabile, che con essi rideva della mia cupa angoscia, a tratti gratificandoli di qualche sporca carezza.
116 • UN VIAGGIO A CITERA (Torna all'indice)
Come un uccello, gioioso, volteggiava il mio cuore, planando liberamente attorno al cordame; sotto un cielo limpido la nave scivolava, simile a un angelo inebriato da un sole radioso.
Che isola è mai quella, così nera e triste? È Citera, qualcuno risponde, terra famosa nelle canzoni, banale Eldorado dei vecchi diversi. Ma guardata dappresso, è una ben povera terra.
- Isola dei dolci segreti e delle feste del cuore! Dell'antica Venere il superbo fantasma si libra sui tuoi mari come un aroma, riempendo gli animi d'amore e di languore.
Bella isola di verdi mirti, ricca di fiori schiusi, venerata in eterno da tutte le nazioni, e in cui i sospiri dei cuori adoranti errano come l'incenso su un roseto
o come il tubare infinito del colombo! - Citera non era più che una magra terra, un deserto roccioso turbato da stridule grida. Ma vi scorgevo un oggetto singolare!
Oh, non un tempio dalle ombre silvestri, dove la giovane sacerdotessa, innamorata dei fiori, andava, il corpo bruciato da segreti ardori, dischiudendo la tunica alle brezze fuggitive...
Ma ecco che, rasentando da vicino la costa, così da intimorire gli uccelli con le nostre bianche vele, ci apparve una forca a tre bracci, nera contro il cielo come un cipresso.
Appollaiati sulla loro pastura feroci uccelli distruggevano rabbiosamente un impiccato, già sfatto: ciascuno piantando, come un attrezzo, il becco impuro in ogni angolo sanguinante di quel marciume,
gli occhi due buchi, e dal ventre sfondato i grevi intestini colavano lungo le cosce; quei carnefici, satolli di orribili delizie, l'avevano, a colpi di becco, castrato completamente.
Ai piedi, un branco di invidiosi quadrupedi, muso alzato, giravano e rigiravano: in mezzo s'agitava una bestia più grande, come un boia circondato dai suoi aiutanti.
Abitatore di Citera, figlio d'un cielo così bello, in silenzio sopportavi tutti questi oltraggi in espiazione degli infami culti e dei peccati che t'hanno negato una tomba.
Grottesco impiccato, i tuoi sono anche i miei dolori! Alla vista delle tue membra penzolanti sentivo, come un vomito, risalire ai miei denti il lungo fiume di fiele degli antichi dolori;
dinanzi a te, povero cristo così caro al ricordo, ho provato tutti i becchi e tutte le mascelle dei corvi lancinanti e delle nere pantere che un tempo amavano triturare la mia carne.
- Il cielo era incantevole, il mare calmo; ma per me tutto era tenebre e sangue, ormai, e avevo, ahimè, il cuore sepolto in questa allegoria come in uno spesso sudario.
Nella tua isola, o Venere, non ho trovato che una forca da cui pendeva la mia immagine...
- Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare senza disgusto il mio corpo e il mio cuore!
117 • L'AMORE E IL CRANIO (Torna all'indice)
Vecchio fregio
L'Amore sta assiso sul cranio dell'Umanità e da quel trono profano, con riso sfrontato,
soffia gaio delle bolle rotonde che s'innalzano nell'aria, quasi a raggiungere i mondi al fondo dell'etere.
Il globo fragile e luminoso prende un grande slancio, scoppia e sputa la sua anima gracile come un sogno d'oro.
Odo il cranio, a ogni bolla, gemere e pregare: «Quando finirà questo gioco feroce e ridicolo?»
Perché quel che la tua bocca crudele sparpaglia nell'aria, mostro assassino, è il mio cervello, il mio sangue, la mia carne!»
RIVOLTA
118 • IL TRADIMENTO DI SAN PIETRO (Torna all'indice)
Che se ne fa Dio di quel fiotto di bestemmie che sale ogni giorno verso i suoi diletti Serafini? Come un tiranno rimpinzatosi di vini e di carne, egli s'addorme al dolce rumore dei nostri orribili anatemi.
I singhiozzi dei martiri e dei suppliziati sono certo una sinfonia inebriante, se i cieli, malgrado il sangue che costa la loro voluttà, non ne sono ancora sazi.
- Ricordati, Gesù, dell'Orto degli Ulivi! Nel tuo candore tu pregavi in ginocchio colui che nel suo cielo rideva al rumore dei chiodi che ignobili carnefici piantavano nella tua carne viva.
E quando vedesti sputare sulla tua divinità le feccia del corpo di guardia e delle cucine, e sentisti penetrare le spine nel tuo cranio in cui viveva l'immensa Umanità;
quando il tremendo peso del tuo corpo spezzato stirava le tue braccia distese, sangue e sudore colavano dalla tua fronte impallidita, e fosti posto davanti a tutti come un bersaglio,
ripensavi i giorni luminosi che venisti ad adempiere all'eterna promessa e in groppa a un asinello paziente percorrevi strade tappezzate di fiori e di rami,
e il cuore gonfio di speranza e d'ardire fustigavi con forza quei vili mercanti, e fosti alfine padrone? Non s'è addentrato il rimorso nel tuo fianco più a fondo della lancia?
- Quanto a me, uscirò volentieri da un mondo in cui l'azione non è la sorella del sogno; possa usare la spada e di spada perire! San Pietro ha rinnegato Gesù... Ha fatto bene.
119 • ABELE E CAINO (Torna all'indice)
_I
Razza d'Abele, dormi bevi e mangia: Dio ti sorride con compiacenza.
Razza di Caino, striscia nel fango e muori miseramente...
Razza d'Abele, il tuo sacrificio solletica le narici del Serafino!
Razza di Caino, avrà mai fine il tuo supplizio?
Razza d'Abele, contempla la floridezza dei tuoi seminati e del tuo bestiame.
Razza di Caino, i tuoi visceri urlano la loro fame come un vecchio cane.
Razza d'Abele, scaldati il ventre al focolare patriarcale.
Razza di Caino, rabbrividisci di freddo nel tuo antro come un povero sciacallo!
Razza d'Abele, ama e riproduciti. Persino il tuo oro prolifica.
Razza di Caino, cuore ardente, guardati dai tuoi grandi appetiti.
Razza d'Abele, tu cresci, tu pascoli, come il tarlo nel legno.
Razza di Caino, trascina per le strade la tua famiglia misera.
_II
Razza d'Abele, la tua carogna ingrasserà la terra fumigante.
Razza di Caino, la tua opera non è compiuta.
Razza d'Abele, ecco la tua vergogna: la spada è vinta dalla spada.
Razza di Caino, sali al cielo, getta Dio sulla terra.
120 • LE LITANIE DI SATANA (Torna all'indice)
Oh tu, che sei il più bello e il più sapiente degli Angeli, Dio tradito dalla sorte, spogliato d'ogni lode.
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Principe dell'esilio, cui è stato fatto torto, e che ti rialzi, vinto, sempre più forte.
Satana, abbia pietà del mio lungo penare!
Tu che conosci ogni cosa e regni sul sottosuolo, guaritore abituale delle angosce umane.
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
O tu che anche ai lebbrosi, ai paria maledetti, per mezzo dell'amore insegni il gusto del Paradiso.
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che dalla Morte, tua vecchia e forte amante, generasti la Speranza, affascinante folle!
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che dài al proscritto lo sguardo calmo e altero, che danna tutto un popolo intero attorno ad un patibolo.
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che sai dove, in quali angoli delle terre invidiose, Dio, geloso, ha nascosto le tue gemme,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu, il cui occhio limpido sa gli arsenali profondi in cui, sepolto, dorme il popolo dei metalli,
Satana abbi pietà del mio lungo penare!
Tu, la cui lunga mano nasconde i precipizi che s'aprono al sonnambulo vagante sull'orlo delle cose,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che, magicamente, addolcisci le vecchie ossa del nottambulo ubbriaco calpestato dai cavalli,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che per consolare l'uomo debole che soffre, ci insegnasti a mischiare lo zolfo col salnitro,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che imprimi il tuo marchio, complice sottile, sulla fronte dell'impietoso e vile Creso,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Tu che poni negli occhi e nel cuore delle ragazze il culto della piaga, l'amore dei cenciosi,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Sostegno degli esuli, luce degli inventori, confessore degli impiccati e dei cospiratori,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Padre adottivo di tutti coloro che con nera furia Dio Padre ha cacciato dal paradiso terrestre,
Satana, abbi pietà del mio lungo penare!
Preghiera
Siano gloria e lodi a te, o Satana, nel più alto dei cieli, dove tu regnasti, e nelle profondità dell'Inferno, dove tu, vinto, sogni in silenzio! Fa' che un giorno la mia anima riposi presso di te sotto l'Albero della Scienza, nell'ora che sulla tua fronte i suoi rami come un nuovo Tempio s'intrecceranno!
LA MORTE
121 • LA MORTE DEGLI AMANTI (Torna all'indice)
Avremo letti pieni di profumi leggeri, divani profondi come tombe e sulle mensole strani fiori dischiusi per noi sotto cieli più belli.
Usando, a gara, i loro estremi ardori, i nostri cuori saranno due grandi fiaccole, che rifletteranno le loro doppie luci nei nostri spiriti, specchi gemelli.
Una sera di rosa e azzurro mistico ci scambieremo un unico bagliore, simile a un lungo singhiozzo, risonante d'addii.
Più tardi, un Angelo, dischiuse le porte, verrà, gaio e fedele, a ravvivare gli specchi offuscati e le fiamme ormai morte.
122 • LA MORTE DEI POVERI (Torna all'indice)
La Morte ci consola, ahimè, e ci fa vivere; lo scopo dell'esistenza, la sola speranza che, come un elisir, ci sostiene e ci inebria, facendoci coraggio per arrivare a sera;
lei, che attraverso la tempesta, la neve e il gelo, dà un vibrante chiarore al nostro nero orizzonte; è la locanda famosa di cui si parla nel libro, dove si potrà sedere, e mangiare, e dormire;
lei, l'Angelo che racchiude fra le sue dita magnetiche il sonno e il dono dei sogni estatici, lei che rifà il letto alla gente povera e nuda:
gloria divina, granaio mistico, borsa del povero e sua patria antica, portico aperto su cieli sconosciuti!
123 • LA MORTE DEGLI ARTISTI (Torna all'indice)
Quante mai volte dovrò scuotere i miei sonagli e baciare la tua fronte bassa, cupa caricatura? Per colpire il bersaglio mistico, quante frecce dovrò sprecare, o mia faretra?
Consumeremo la nostra anima in sottili raggiri e demoliremo più d'una greve armatura prima di poter completare la grande Creatura della quale un infernale desiderio ci riempie di singhiozzi!
V'è chi non ha mai conosciuto il suo Idolo... E agli scultori condannati, e segnati da un affronto, che si danno di martello sul petto e sulla fronte,
non resta che una speranza, strano e oscuro Campidoglio: che la Morte, sospesa come un nuovo sole, faccia sbocciare i fiori del loro cervello.
124 • FINE DEL GIORNO (Torna all'indice)
Sotto una tetra luce, corre, danza, si torce senza ragione, la Vita, impudente e stridula. Così, appena all'orizzonte
sale la notte voluttuosa, placando tutto, anche la fame, scancellando tutto, anche la vergogna, il poeta si dice: «Finalmente!»
Come le mie vertebre il mio spirito invoca ardentemente il riposo; con il cuore pieno di funebri sogni
mi butterò con la schiena sul letto e mi avvolgerò nei vostri tendaggi, o tenebre di frescura!»
125 • IL SOGNO DI UN CURIOSO (Torna all'indice)
A F.N.
Hai anche tu, come me, il gusto del dolore e di te ti fai dire: «Che uomo singolare!» - Stavo sul punto di morire. Nella mia anima appassionata v'era, desiderio mischiato a orrore, uno strano male;
angoscia e viva speranza, senza alcun fazioso umore. Più la fatale clessidra andava vuotandosi, più la mia tortura si faceva aspra e deliziosa; il mio cuore si staccava dal mondo familiare.
Come il bambino avido di spettacoli, odiavo l'ostacolo del sipario. Alfine si rivelò la fredda verità:
ero morto senza accorgemene, la terribile aurora m'avvolgeva. - Ma come, è tutto qui? Il sipario s'era alzato, e io aspettavo ancora.
126 • IL VIAGGIO (Torna all'indice)
A Maxime du Camp
_I
Per il ragazzo, innamorato di mappe e di stampe, l'universo è pari alla sua vasta brama. Come è grande il mondo alla luce della lampada, come, agli occhi del ricordo, meschino!
Un mattino partiamo, il cervello in fiamme, il cuore gonfio di rancore e di voglie amare, e andiamo seguendo il ritmo delle onde, cullando il nostro infinito sul finito dei mari:
gli uni, felici di fuggire una patria infame, gli altri l'orrore delle proprie culle; e alcuni, astrologhi perduti negli occhi d'una donna, Circe tirannica dai profumi fatali.
Per non essere mutati in bestie, s'inebriano di spazio, di luce e di cieli infuocati; il gelo che li morde, i soli che li bruciano cancellano lentamente il segno dei baci.
Ma, veri viaggiatori sono quelli che partono per partire; cuori leggeri, simili a palloncini, non si staccano mai dal loro destino, e senza sapere perché dicono sempre: Andiamo!
I loro desideri hanno forme di nuvole, e come il coscritto il cannone, sognano grandi, cangianti, ignote voluttà, il cui nome lo spirito umano non ha mai conosciuto.
_II
Imitiamo orrore, la trottola e la palla nei loro valzer e nei loro salti; come un Angelo crudele che frusta i soli la Curiosità ci tormenta e ci fa girare.
Singolare sorte in cui la meta cambia continuamente di posto, e non trovandosi da nessuna parte, può trovarsi dovunque! Ad essa, l'Uomo cui mai vien meno la speranza, per trovare posa corre sempre come un pazzo.
La nostra anima è un tre-alberi che cerca la sua terra, l'Icaria; «Apri l'occhio» echeggia sul ponte... Dalla coffa una voce ardente e dissennata «Amore, gloria, felicità» va gridando. Dannazione, uno scoglio.
Ogni isolotto avvistato dall'uomo di guardia è un Eldorado offerto dal Destino: ma l'Immaginazione, che subito s'abbandona ai suoi eccessi, non incontra che uno scoglio alla luce del mattino.
O misero innamorato di paesi di fiaba! Bisognerà incatenarti e buttarti a mare, marinaio ubbriaco, inventore di Americhe, il cui miraggio fa più amari gli abissi?
Così il vagabondo, pesticciando nel fango, sogna, naso in aria, paradisi luminosi; e l'occhio ammaliato scopre una Capua dovunque una candela illumini un tugurio.
_III
Straordinari viaggiatori, quali nobili storie leggiamo nei vostri occhi profondi come il mare. Oh, mostrateci gli scrigni della vostra ricca memoria, i gioielli meravigliosi fatti di astri e di etere.
Senza vapore né vela vogliamo navigare! Per alleviare il tedio delle nostre prigioni fate passare sui nostri spiriti, tesi come una tela, i vostri ricordi chiusi in cornici d'orizzonti.
Diteci: che vedeste?
_IV
Abbiamo visto astri e flutti; sabbie; e come qui, malgrado traumi e improvvisi disastri, ci siamo spesso annoiati.
Lo splendore del sole sopra il mare violetto, la gloria delle città nel sole che tramonta accendevano nei nostri cuori un inquieto ardore, ci spingevano a tuffarci in un cielo dai riflessi incantati.
Le più doviziose città, i più vasti paesaggi non possedevano mai il fascino misterioso che il caso ricava dalle nuvole: e sempre il desiderio ci tallonava dappresso.
- Il godere dà forza al desiderio. Desiderio, vecchia pianta, cui il piacere è concime: mentre che ingrossa e indurisce la tua scorza, i tuoi rami vogliono vedere il sole da vicino.
Crescerai eternamente, grande albero più vitale del cipresso? - Tuttavia, con cura, abbiamo colto alcuni schizzi per il vostro album vorace, o fratelli che trovate bello tutto quanto viene di lontano!
Abbiamo salutato idoli con la proboscide: troni costellati di gioielli lucenti; palazzi elaborati la cui pompa incantata sarebbe un sogno rovinoso dei nostri banchieri;
costumi che inebriano gli occhi, donne che si tingono denti e unghie, giocolieri esperti che il serpente accarezza.
_V
E poi, poi ancora?
_VI
«O cervelli infantili! Abbiamo visto dovunque (per non dimenticare la cosa capitale) e senza averlo cercato, dall'alto sino al basso della scala fatale, lo spettacolo tedioso dell'eterno peccato:
la donna, schiava vile, stupida e orgogliosa, senza ridere e senza disgustarsi, si ama, si adora; l'uomo, tiranno cupido, ingordo, lascivo e duro, schiavo della schiava, rigagnolo nella fogna;
il carnefice che gioisce, il martire che singhiozza; la festa che insaporisce e profuma il sangue; il tiranno snervato dal veleno del potere e il popolo amante dello scudiscio che l'abbrutisce;
tante religioni simili alla nostra che danno la scalata al cielo; la Santità che, come un uomo di gusti delicati, sguazza su un letto di piume, cerca la voluttà fra i chiodi e il crine;
ciarliera, ebbra del proprio genio, pazza come era un tempo, l'Umanità che grida a Dio nella sua delirante agonia: «O mio simile, o mio signore, io ti maledico!»
e i meno sciocchi, arditi amanti della Demenza, che fuggendo il grande gregge recintato dal Destino, si rifugiano nell'oppio senza fine. - Tale è l'eterno resoconto del mondo intero.»
_VII
Amaro sapere, quello che si ricava dal viaggiare! Il mondo, piccolo e monotono oggi come ieri, come domani, come sempre, ci mostra la nostra immagine: un'oasi d'orrore in un deserto di noia!
Partire? Restare? Se puoi, resta, se è necessario, parti. Chi corre, chi si rannicchia per ingannare il Tempo, nemico vigilante e funesto... Vi sono, ahimè, dei viaggiatori senza requie
(come l'Ebreo errante e gli apostoli) ai quali nulla basta, né treno né nave, per fuggire questo infame reziario; ma ve ne sono che sanno ammazzarlo senza uscire dalla loro tana.
Quando alfine calcherà il piede sulla nostra schiena, potremo ancora sperare e gridare: Avanti. Come un tempo si partiva per la Cina, gli occhi puntati al largo ed i capelli al vento,
ci imbarcheremo, col cuore gioioso d'un giovane passeggero, sul mare delle tenebre. Udite queste voci, funebri e affascinanti, che cantano: «Di qui, voi che volete assaporare
il Loto profumato! Qui si raccolgono i frutti miracolosi dei quali il vostro cuore è affamato; venite a inebriarvi della strana dolcezza di questo pomeriggio senza fine?»
Riconosciamo lo spettro dal tono familiare; là i nostri Piladi tendono a noi le loro braccia. «Nuota verso la tua Elettra, se vuoi rinfrescarti il cuore», ci dice quella cui, un giorno, baciavamo le ginocchia.
_VIII
O Morte, vecchio capitano, è tempo, leviamo l'ancora. Questa terra ci annoia, Morte.
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