Salpiamo. Se cielo e mare sono neri come inchiostro, i nostri cuori, che tu conosci, sono colmi di raggi.
Versaci, perché ci conforti, il tuo veleno. Noi vogliamo, per quel fuoco che ci arde nel cervello, tuffarci nell'abisso, Inferno o Cielo, non importa. Giù nell'Ignoto per trovarvi del nuovo.
I RELITTI
1 • TRAMONTO ROMANTICO (Torna all'indice)
Com'è bello il sole quando tutto fresco si leva e ci lancia il suo buongiorno come un'esplosione! - Fortunato colui che può con amore salutare il suo tramonto, più glorioso d'un sogno!
Ricordo... Ho visto tutto, fiore, fonte, solco, crogiolarsi sotto il suo occhio palpitante... - È tardi, corriamo verso l'orizzonte per cogliere almeno un suo raggio obliquo.
Ma io inseguo invano il Dio che si ritira; l'irresistibile, la nera, funesta, abbrividente Notte, fonda il suo imperio;
nelle tenebre flutta un odore di tomba e il mio piede intimorito calpesta, sull'orlo del padule, rospi improvvisi e fredde lumache.
POESIE CONDANNATE TRATTE DAI «FIORI DEL MALE»
2 • LESBO (Torna all'indice)
Madre di giochi latini e di voluttà greche, Lesbo, ove, languenti o gai, caldi come soli, freschi come cocomeri, i baci, sono l'ornamento di notti e di giorni gloriosi; Lesbo, madre di giochi latini e di voluttà greche,
in cui i baci somigliano le cascate che si gettano impetuosamente negli abissi infiniti, e corrono, singhiozzando e ridendo a strappi, tempestosi e segreti, frenetici e profondi; Lesbo, in cui i baci somigliano le cascate,
e le Frini s'attirano l'un l'altra, e mai un sospiro restò senz'eco: come Pafo le stelle t'ammirano, e Venere ha ben diritto d'esser gelosa di Saffo! Lesbo, ove le Frini s'attirano l'un l'altra,
terra di notti calde e languide che, sterile voluttà, portano dinanzi ai loro specchi fanciulle dagli occhi segnati, innamorate dei propri corpi, a carezzarsi i frutti della verginità; Lesbo, terra di notti calde e languide.
Lascia che il vecchio Platone aggrotti l'occhio austero; tu ottieni il perdono per eccesso dei tuoi baci, regina d'un dolce impero, terra nobile e amabile, d'inesauribili raffinatezze. Lascia che il vecchio Platone aggrotti l'occhio austero.
Tu trai il perdono dal tuo eterno martirio, inferto senza requie ai cuori ambiziosi e che attira lungi da noi il radioso sorriso intravisto appena ai confini d'altri cieli! Tu trai il perdono dal tuo eterno martirio!
Chi, fra gli Dei, Lesbo, oserà giudicarti e condannare la tua fronte impallidita nelle fatiche, se le sue bilance d'oro non avranno pesato il diluvio di lagrime versato nel mare dai tuoi ruscelli? Chi fra gli Dei, Lesbo, oserà giudicarti?
Che hanno a che fare con noi le leggi del giusto e dell'ingiusto? O vergini di sublime cuore, onore dell'arcipelago, la vostra religione è augusta come un'altra, e l'amore potrà ridere del Cielo e dell'Inferno! Che hanno a che fare con noi le leggi del giusto e dell'ingiusto!
Poiché Lesbo m'ha scelto fra tutti sulla terra per cantare il segreto delle sue vergini in fiore; io fui sin dall'infanzia ammesso al nero mistero delle risa sfrenate miste ai cupi pianti, poiché Lesbo m'ha scelto fra tutti sulla terra.
Da quel giorno io veglio in cima a Lèucada come una sentinella acuta e fidata che scruta notte e giorno le forme fontane di fregate e tartane ondeggianti sull'azzurro; da quel giorno io veglio in cima a Lèucada
per sapere se il mare è buono e indulgente: e se, fra i singhiozzi di cui la roccia echeggia, una sera riporterà a Lesbo indulgente il cadavere adorato di Saffo che partì per sapere se il mare è buono e indulgente!
Della maschia Saffo, poeta e amante, più bella di Venere nel suo malinconico pallore. - L'occhio azzurro è vinto dal nero occhio segnato dal cerchio tenebroso tracciato dai dolori della maschia Saffo poeta e amante.
- Più bella di Venere che si leva sul mondo e versa i tesori della sua serenità e l'irradiarsi della sua bionda giovinezza sul vecchio Oceano, incantato dalla propria creatura, più bella di Venere che si leva sul mondo.
- Saffo che morì il giorno della sua bestemmia, quando, insultando il rito e l'inventato culto, il suo bel corpo offrì in pasto a un bruto il cui orgoglio punì l'empietà di colei che morì il giorno della sua bestemmia.
È da allora che Lesbo si lamenta, e malgrado gli onori che le tributa il mondo, s'inebria ogni notte del grido che la tormenta innalza verso il cielo dalle sue rive deserte. È da allora che Lesbo si lamenta!
3 • DONNE DANNATE (Torna all'indice)
Delfina e Ippolita
Al pallido chiarore di lampade languenti, su profondi cuscini impregnati di profumi, Ippolita sognava le carezze possenti che risvegliavano il suo giovane candore.
Ella cercava, con l'occhio intorpidito dalla tempesta, il cielo ormai lontano dalla sua ingenuità, come il viaggiatore che si volge verso gli azzurri orizzonti varcati il mattino.
Dei suoi occhi pesti le lagrime indolenti, l'aria rotta, la stupefazione, l'oscura voluttà, le braccia vinte, buttate come vane armi, tutto, tutto serviva a ornare la sua fragile bellezza.
Stesa ai suoi piedi, calma e piena di gioia, Delfina la covava con occhi brucianti, come un forte animale che sorveglia la preda dopo averla segnata coi suoi denti.
Forte, superba bellezza inginocchiata dinanzi alla bellezza fragile, aspirava con voluttà il vino del trionfo, e s'allungava verso di lei come a cogliere un dolce ringraziamento.
E cercava negli occhi della sua pallida vittima il muto cantico del piacere, quella gratitudine infinita e sublime che filtra dalle palpebre come un lungo sospiro.
- «Cosa dici, Ippolita, cuor mio, di questo? Lo capisci, ora, che non bisogna offrire il sacro olocausto delle prime rose ai soffi violenti che potrebbero avvizzirle?
I miei baci sono leggeri come le farfalle che carezzano la sera i grandi laghi trasparenti; ma i baci del tuo amante apriranno solchi come fossero carri o vomeri taglienti;
essi passeranno su di te come un pesante tiro di buoi o di cavalli di zoccoli spietati... Ippolita, sorella, anima mia, mio intero e mia metà, volgi il tuo viso,
i tuoi occhi d'azzurro e di stelle! Per un tuo sguardo, divino incantato, alzerò i veli dei piaceri più oscuri e t'addormenterò in un sogno senza fine!»
Ma Ippolita, alzando la giovane testa: - «Non sono ingrata, e non mi pento, Delfina, ma soffro, inquieta, come dopo un gravoso banchetto notturno.
Sento avventarmisi i più cupi spaventi, neri battaglioni di fantasmi confusi, che vogliono condurmi per strade dissestate che un orizzonte di sangue chiude d'ogni parte.
Abbiamo commesso un atto così strano? Spiegami, se ti è possibile, il mio turbamento e la mia paura; rabbrividisco, quando mi dici «Angelo mio», e tuttavia tendo la bocca verso di te.
Non mi guardare così, o cuore mio! O te che amerò in eterno, sorella d'elezione, anche se tu fossi una trappola preparata, il principio della mia perdizione.»
Agitando la tragica criniera e come battendo il piede sul tripode di ferro, l'occhio fatale, così rispondeva Delfina con voce dispotica: - «Chi è che osa parlare d'inferno nel luogo dell'amore?
Maledetto per sempre sia il vano sognatore che, nella sua stupidità, volle per primo, invischiandosi in un problema insolubile e sterile, mescolare l'onestà all'amore.
Colui che vuole, in un mistico accordo, unire l'ombra al calore, la notte al giorno, non scalderà mai il corpo paralitico al roseo sole che chiamiamo amore.
Va', se vuoi, a cercarti uno stupido fidanzato, corri a offrire il tuo cuore vergine ai suoi baci crudeli; poi, piena di rimorsi e d'orrore, livida, torna a riportarmi i seni segnati di stimmate...
Non si può, a questo mondo, contentare più d'un padrone.» La fanciulla, urlando con immenso dolore: - «Sento allargarsi nel mio essere un abisso, questo abisso è il mio cuore!
Ardente come un vulcano, profondo come il vuoto! Nulla sazierà questo mostro gemebondo e ristorerà la sete dell'Eumenide che, torcia in mano, lo brucia a sangue.
Ah, che queste cortine ci separino dal mondo, e che la stanchezza apporti riposo! Voglio annientarmi nel profondo del tuo petto e trovarvi la frescura delle tombe!»
- Discendete, discendete, lamentevoli vittime, discendete per la strada dell'eterna dannazione! Buttatevi nel profondo dell'abisso, ove tutti i delitti, flagellati da un vento che non scende dai cieli,
ribollono mischiati in un fragore di tempesta. Ombre folli, correte dove vi portano i vostri desideri; non potrete mai quetare la vostra furia, e il castigo nascerà dai vostri piaceri.
Mai un fresco raggio illuminò le vostre caverne; miasmi febbrili s'infiltrano nelle crepe dei muri infiammandosi come lanterne e impregnando i vostri corpi dei loro profumi orrendi.
L'aspra sterilità dei vostri godimenti accresce la vostra sete, inaridisce la vostra pelle, e il vento furioso della concupiscenza come vecchia bandiera fa schioccare la vostra carne.
Lungi dai popoli viventi, erranti, condannate, come lupi correte i deserti; seguite il vostro destino, anime torbide, e fuggite l'infinito che portate dentro di voi!
4 • IL LETE (Torna all'indice)
Vieni sul mio cuore, anima sorda e crudele, tigra adorata, mostro dalle pose indolenti; voglio immergere a lungo le mie dita tremanti nella massa pesante della tua criniera;
e seppellire la mia testa indolorita nelle gonne che il tuo profumo impregna, respirare, come un fiore passo, il dolce tanfo del mio amore defunto.
Voglio dormire, dormire, non vivere! In un sonno dolce come la morte, sul tuo corpo levigato alla pari del rame, deporrò i miei baci, senza rimorso.
Nulla, per inghiottire i miei singhiozzi languenti, vale l'abisso del tuo letto; l'oblìo tiene possente la tua bocca e il Lete scorre nei tuoi baci.
Al mio destino, divenuto ormai una delizia, obbedirò come un prescelto; martire docile, condannato innocente, che con fervore attizza il suo supplizio,
succhierò, per soffocare il mio rancore, il nepente e la cicuta benefica, alle punte incantevoli del tuo seno eretto che mai ha imprigionato un cuore.
5 • A COLEI CHE È TROPPO GAIA (Torna all'indice)
Sono belli come un bel paesaggio, la tua testa il tuo gesto il tuo atteggiarti; il tuo riso scherza sul tuo viso come in un cielo chiaro fresco vento.
Il malinconico passante che tu sfiori è abbagliato dalla salute che zampilla dalle tue braccia, dalle tue spalle, come una luce.
I colori squillanti che spargi nelle tue vesti suscitano nel cuore dei poeti l'immagine d'un balletto di fiori.
Quegli abiti folli sono l'emblema del tuo spirito screziato: folle che mi rende folle, io t'odio nella misura che t'amo.
A volte in un bel giardino ove trascinavo la mia atonìa, ho sentito l'ironia del sole straziare il mio petto;
e se la primavera, il verde hanno tanto umiliato il mio cuore, ho punito in un fiore l'insolenza della Natura.
Così la notte, quando scocca l'ora della voluttà, verso i tesori del tuo corpo vorrei arrampicarmi in silenzio, come un vile:
per castigare la tua carne gioiosa, straziare il tuo seno pacificato, nel tuo fianco stupefatto aprire una larga ferita
e, vertiginosa dolcezza, attraverso queste splendenti, bellissime labbra, infonderti, sorella, il mio veleno.
6 • I GIOIELLI (Torna all'indice)
L'adorata era nuda, e conoscendo il mio cuore, non aveva serbato che i suoi gioielli sonori, il cui ricco ornamento le dava l'aria vittoriosa che hanno, nei giorni felici, le schiave dei Mori.
Quando quel mondo risplendente di metallo e di pietra getta danzando il suo vivo e capriccioso suono, mi rapisce in estasi: io amo alla follia le cose in cui suono e luce si mischiano.
Ella giaceva dunque, lasciandosi amare, e dall'alto del divano sorrideva beatamente al mio amore, che dolce e profondo come il mare, saliva a lei come verso uno scoglio.
Fissando gli occhi su di me, simile a tigre mansuefatta, con aria vaga e sognante provava nuove pose, e il candore unito alla lascivia dava un incanto nuovo alle sue metamorfosi;
e il suo braccio e la sua gamba, la sua coscia e le sue reni, lisci come l'olio, sinuosi come un cigno, passavano davanti ai miei occhi limpidi e sereni; e il suo ventre e i suoi seni, grappoli della mia vigna,
si facevano avanti, più tentatori che gli Angeli del male, per turbare la calma della mia anima, e per allontanarla dalla roccia di cristallo ove s'era assisa.
Mi sembrava di veder uniti, in un nuovo disegno, le anche di Antiope al busto d'un imberbe: tanto la sua vita risaltava sul bacino. Sul fondo fulvo e bruno della pelle il belletto era stupendo!
- E, poi che la lampada s'era rassegnata a morire, solo il camino illuminava la stanza: ogni volta che mandava un rosseggiante sospiro, inondava di sangue la sua pelle d'ambra.
7 • LE METAMORFOSI DEL VAMPIRO (Torna all'indice)
Dalla sua bocca di fragola la donna, contorcendosi come un serpente sulla brace e i seni strusciando contro i ferri del busto, lasciava colare queste parole tutte impregnate di muschio: «Ho le labbra umide e so l'arte di portare a perdizione su un letto l'antica coscienza. Asciugo ogni lagrima sui miei seni trionfanti e faccio sì che i vecchi ridano come i bambini. Chi mi vede nuda e senza veli, vede la luna, il sole, le stelle ed il cielo. Sono, caro sapiente, così dotta in voluttà, quando fra le braccia temute soffoco un uomo, o quando, timida e libertina, fragile e vigorosa, abbandono ai suoi morsi il mio seno, che, su questi materassi turbati, impotenti gli angeli si dannerebbero per me.»
Poi che ella ebbe succhiato tutto il midollo delle mie ossa, mi volsi languidamente verso di lei per darle un ultimo bacio: ma non vidi più che un otre viscido e marcescente. Chiusi gli occhi, preso da un freddo terrore; e quando li riapersi alla luce, al mio fianco, in un luogo del gran manichino che sembrava aver fatto provvista di sangue, tremavano confusamente pezzi di scheletro, stridendo come quelle banderuole o insegne appese a un ferro che il vento fa oscillare nelle notti d'inverno.
GALANTERIE
8 • LO ZAMPILLO (Torna all'indice)
Come sono stanchi i tuoi begli occhi, povera amante! Non riaprirli, rimani a lungo nella posa abbandonata in cui t'ha sorpresa il piacere. Nel cortile lo zampillo che chiacchiera e non tace giorno né notte s'intrattiene dolcemente con l'estasi in cui m'ha tuffato stasera l'amore.
Lo zampillo apertosi in mille fiori, che Febea allegra colora, cade come una pioggia di tante lagrime.
Così la tua anima che incendia l'ardente lampo delle voluttà si slancia, rapida e ardita, verso vasti cieli incantati, per poi spandersi, smorendo, in un'onda di triste languore che per un'invisibile china scende sino in fondo al mio cuore.
Lo zampillo apertosi in mille fiori, che Febea allegra colora, cade come una pioggia di tante lacrime.
O te, che la notte abbellisce, come m'è dolce, chino sui tuoi seni, ascoltare l'eterno lamento che singhiozza nella vasca. Luna, acqua sonora, notte benedetta, alberi che rabbrividite tutt'intorno, la vostra pura melanconia è lo specchio del mio amore.
Lo zampillo apertosi in mille fiori, che Febea allegra colora, cade come una pioggia di tante lagrime.
9 • GLI OCCHI DI BERTA (Torna all'indice)
Potete disprezzare gli occhi più rinomati, begli occhi della mia fanciulla, attraverso i quali filtra e fugge via un non so che di buono, di dolce come la Notte. Begli occhi, versate su di me, le vostre incantate tenebre.
Grandi occhi della mia fanciulla, misteri adorati, voi somigliate a quelle grotte fantastiche in cui, dietro mucchi d'ombre letargiche, scintillano vagamente tesori inesplorati!
La mia fanciulla ha occhi oscuri, grandi e profondi come te. Notte immensa, e come te rischiarati! I loro fuochi sono quei pensieri d'amore e di Fede mescolati che, voluttuosi o casti, brillano nel fondo.
10 • INNO (Torna all'indice)
Alla più cara, alla più bella, che inonda il mio cuore di luce, all'angelo, all'idolo immortale, salute in eterno.
Ella si espande nella mia vita come un'aria impregnata di sale, versa il gusto dell'eterno nella mia anima affamata.
Sacchetto sempre fresco che profuma l'atmosfera d'un caro rifugio, incensiere obliato che fuma segretamente, nella notte;
come, amore incorruttibile, esprimerti con verità? Granello di muschio, invisibile, nel fondo della mia eternità!
Alla tanto cara, tanto bella che mi dà gioia e salute, all'angelo, all'idolo immortale, salute per l'immortalità!
11 • LE PROMESSE D'UN VOLTO (Torna all'indice)
Amo, o pallida beltà, le tue sopracciglia abbassate, onde sembrano calare le tenebre; i tuoi occhi, neri come sono, non m'ispirano pensieri funebri.
I tuoi occhi, in armonia con i tuoi capelli neri, con la tua criniera elastica, languidamente mi dicono: «Se tu vuoi, amante della plastica musa,
seguire la speranza che in te abbiamo eccitato, e i vari gusti che professi, potrai constatare come siamo veraci dall'ombelico alle natiche;
troverai su due bei seni colmi due larghe medaglie di bronzo, e sotto un ventre liscio, dolce come velluto, bistrato come la pelle d'un bonzo,
un ricco vello, in tutto simile alla gran capellatura morbida e riccia, che ti eguaglia nella sua folta impenetrabilità, Notte senza stelle, Notte oscura.»
12 • IL MOSTRO O IL PARAVENTO DI UNA NINFA MACABRA (Torna all'indice)
_I
Certo non sei, o mia cara, quel che Veuillot chiama un boccio. Gioco, amore, buona cucina ribollono in te, vecchia pentola! Non sei più fresca, o mia cara,
vecchia bambina! E tuttavia le tue insensate carovane t'hanno dato il lustro abbondante delle cose lise eppure seducenti.
Non trovo monotono il succo dei tuoi quarant'anni; preferisco i tuoi frutti, Autunno, agli insipidi fiori della Primavera! Oh no, tu non sei mai noiosa!
La tua carcassa ha dei pregi e delle grazie particolari; scopro strane spezie fra le tue saliere. La tua carcassa ha dei pregi!
Al diavolo amanti ridicoli, il melone e la zucca! Preferisco le tue clavicole a quelle di Re Salomone e compiango la gentaglia ridicola!
I tuoi capelli come un elmo blu ombrano la tua fronte guerriera, che mai pensa e poco arrossisce, e ti scendono dietro come i crini di un elmo blu.
I tuoi occhi simili al fango in cui brilla qualche fanale, ravvivati dal belletto delle tue guance, lanciano un lampo infernale. I tuoi occhi son neri come fango!
Con la sua lussuria e il suo sprezzo il tuo labbro amaro ci provoca; questo labbro, Eden che ci attira e respinge. Che lussuria, e che sprezzo!
La tua gamba muscolosa e secca sa affrontare i vulcani e malgrado neve e miseria danzare il più vertiginoso can can. La tua gamba è muscolosa e secca.
La tua pelle arida e senza alcuna dolcezza come quella d'un vecchio gendarme non sa più il sudore di quanto il tuo occhio le lagrime. (E tuttavia ha la sua dolcezza.)
_II
Sciocca, tu te ne vai al Diavolo! Volentieri ti seguirei se questa velocità mozzafiato non mi mettesse in crisi. Vattene dunque, tutta sola, al Diavolo.
Rene, polmone, garretto non mi permettono più di rendere omaggio, come sarebbe doveroso, a questo Signore. «Oimè è davvero peccato» dicono il mio rene e il mio garetto.
Oh, sinceramente soffro di non scender ai sabba, a vedere se spetazza zolfo quando tu lo baci nella chiappa. Oh, sinceramente soffro.
Sono maledettamente desolato di non essere il tuo torciere, e di prendere congedo da te, fiaccola dell'inferno. Puoi giudicare tu, mia cara, quanto io sia desolato.
Perché io t'amo da tanto tempo, essendo molto logico.
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