— Sono degno figlio di "quell'uo-mo".
Poi gli tornò in mente la storia dell'appaltatore: e una luce improvvisa, rapida e spaventosa come lo splendore di un fulmine, gli atterrì l'anima.
— Sono il figlio di un assassino — pensò. — Ed è per un oscuro istinto che quell'uomo mi è riuscito sempre disgustoso. Ed è dunque l'atavismo che mi mette la colpa nel sangue? Non è l'odio, non è un orribile progetto d'artista, non è la miseria; è soltanto l'atavismo che mi spinge! Io compirò il mio delitto, perché questo è il mio destino!
Ricordò le impressioni della giornata; l'arrivo, la fiera tristezza, l'oblìo momentaneo davanti al paesaggio primaverile, il senso d'invidia e di melanconia provato nella casa del maestro, la collera nell'udire la storia dell'appaltatore. — Mi pareva di non crederci, — pensò, — ma mi ingannavo. Difen-dendo quell'uomo mentivo, o meglio difendevo me stesso. Sono dunque capace di mentire, di fingere, d'invidiare, di aver paura! Che farò ora? Sono un delinquente o sono un artista?
Si riaddormentò all'alba, senza aver ben risposto alle sue domande.
Appena si alzò, la prima persona che vide dal finestrino della sua cameretta fu appunto suo padre.
Zio Larentu veniva attraverso la pianura nebbiosa, appollaiato sopra la sua alta cavalla grigia; anch'egli era molto invecchiato, aveva la barba quasi bianca, il viso abbrutito, gli occhi rossi: giunto presso la casetta guardò intorno, in alto, in basso: poi proseguì la sua via.
— Egli deve sapere ch'io sono arrivato — pensò Andrea, meravigliandosi di non provare alcuno sdegno nel rivedere "quell'uomo".
La pianura era tutta coperta di nebbia; una nebbia tenue, argentea, luminosa. Dal suo finestrino Andrea vedeva un breve orizzonte vaporoso, sul cui sfondo argenteo distinguevasi appena qualche albero dai rami sfumati: il quadro era dolce, poetico, ma il giovane studente non sentiva più la gioia della primavera, come l'aveva sentita il giorno prima. — Che farò oggi? — si domandò. Si propose di scrivere, di prendere qualche appunto sul paesaggio che vedeva, sulle impressioni che sentiva; ma poi sorrise della sua idea.
Scese in cucina. Sua madre non c'era, ma sul focolare acceso bolliva il caffè; un bel gattino a macchie nere e gialle volteggiava per la cucina, combattendo una battaglia vana contro la sua coda che non riusciva ad afferrare.
Regnava un profondo silenzio; dal finestrino della porta scorgevasi uno sfondo nebbioso; pareva che il mondo finisse lì.
Andrea sedette presso il fuoco, prese il caffè, osservò i giochi del gattino: ricordi infantili ritornarono nel suo pensiero.
— Quanti sogni ho fatto qui, seduto presso il fuoco! Ero ambizioso e fiero, non c'è che dire, avevo vergogna di questa casetta, sognavo di fabbricare qui un palazzo, e di far indossare a mia madre vestiti da signora. Gli anni sono passati invano, ed ora eccomi qui ancora, povero e piccolo come lo ero da fanciullo! Senonché allora ero felice ed ora non lo sono più! Fossi rimasto un semplice paesano, un lavoratore della terra, un essere incosciente! Ebbene, —
pensò poi, — dopo tutto sono io forse un sentimentale? Sono debole, sono vi-le, sono piccolo, ecco tutto! Perché sono ritornato? Per compiere un delitto, studiare le mie impressioni come un eroe di Bourget e scriverne un libro terribile? Sciocchezze, sogni mostruosi! No, sono ritornato perché non avevo il coraggio, né la volontà di affrontare la vita, di lottare contro la miseria, di farmi un posto nel mondo. L'anima mia è rudimentale, feroce e debole come l'anima di un bambino. Io sono un abbozzo d'uomo; sono pieno di contrad-dizioni e mentisco continuamente a me stesso. Finché ho avuto di che vivere coi danari di "quell'uomo" mi son creduto qualche cosa, ma s'è visto cosa val-go, quando si è trattato di vivere senza l'aiuto altrui! Ed ora sono qui, e il caffè che bevo, il pane che mangio, tutto, tutto è prodotto del lavoro di mia madre, di quella donna che sognavo render signora e padrona di un palazzo!
Eppure, pur comprendendo tutto questo, e avendone vergogna, mi perdo in sogni mostruosi; non voglio umiliarmi, non voglio riconoscere la mia inet-titudine, la mia debolezza; non voglio sottomettermi a "quell'uomo"! Per non diminuirmi ai miei stessi occhi, dico a me stesso che se accetterò la pace e l'aiuto di Larentu Verre, sarà solo per penetrare nello stazzo, e per compiervi un delitto. Mentisco sempre: perché sento che il delitto non lo commetterò, ed è l'aiuto che voglio, non altro. Andrea Verre, di' la verità a te stesso, di' che sei un matto, e sollèvati, e va, e umiliati, e non essere più uno scemo. Ebbene, sì, andrò oggi stesso.
Pensando tutte queste cose, egli finì di sorbire il caffè. Ripose sul pancone la chicchera grossolana, e si sentì improvvisamente felice.
— Egli sborserà di nuovo i quattrini, io ripartirò, ricomprerò il mandolino, le vesti, i libri; la vita sarà di nuovo bella e gaia.
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