Gli parve di esser un altro: dimenticò il passato, l'ieri, l'idea morbosa del delitto e la certezza che quest'idea gli fosse venuta per atavismo.

Seduto sempre accanto al fuoco, attese il ritorno di sua madre. Fuori la nebbia diradavasi: tra vaporosità argentee apparivano squarci di cielo azzurri e luminosi, lembi verdi di pianura, alberi lucenti.

Andrea pensava con piacere alle escursioni che avrebbe fatto durante quelle vacanze; e intanto si divertiva col gattino, lanciandogli pallottoline di carta, e strisciando il piede per farlo accorrere. Il gattino s'appiattava, si slanciava, saltava, s'aggrappava tutto al piede dello studente, e gli mordeva la scarpa.

Ed egli, che era ritornato al suo paese per commettere un delitto orribile, si divertiva infantilmente ai giochi del gattino!

Zia Andreana rientrò verso le nove. Tosto s'accorse che Andrea era di buon umore e gli diede una lieta notizia.

— Quell'uomo è in paese: è dal signor Tedde. Sii prudente, figlio mio, —

diss'ella poi, guardandolo supplichevole, — forse ti manderanno a chiamare.

Egli non rispose, ma si alzò, uscì fuori e attese quasi ansioso.

— Mi manderanno a chiamare? Tanto meglio.

Poco dopo, infatti, la serva del Tedde portò un bigliettino.

«Andrea, L. V. è qui da me: ha le migliori intenzioni del mondo, e desidera vederti. Vieni, ti aspetto, vieni subito.

Tuo Tedde».

Egli andò.

Il Tedde e zio Larentu sedevano nella stanza da pranzo, davanti al tavolo su cui brillava un'anforetta di cristallo piena di acquavite.

Andrea guardò suo padre, guardò l'anforetta, poi fissò gli occhi sdegnosi negli occhi del maestro, il quale rispose con uno sguardo eloquente, e con un lieve movimento delle mani, che significava:

— Cosa vuoi? Era necessario!

— Ecco il nostro professore! — disse poi il maestro, volgendosi a zio Larentu.

Il Verre guardava Andrea, esaminandolo da capo a piedi.

— Perché non mi stringi la mano? — gridò, accavalcando una gamba sull'altra. — Eppure hai le scarpe rotte, e i tuoi gomiti chiedono misericordia [3].

Andrea porse la mano, in silenzio, poi sedette lontano da suo padre che puzzava forte d'acquavite.

Zio Larentu continuò a fissarlo, con gli occhi rossi e vitrei.

— Eppure sei mio figlio! — proruppe. — È inutile che tu ti vergogni di me.

Perché? Perché ti vergogni di me? Credi forse che io sia ubbriaco? Credi che io sia uno stupido e che non abbia veduto lo sguardo che hai rivolto poco fa a questo bravo uomo? Ed ora credi che io non veda il disgusto che tu provi?

— Finitela — rispose Andrea, seccato e disgustato. — Ditemi piuttosto perché mi avete fatto venir qui.

— Perché ti ho fatto venir qui? Per vedere le tue scarpe e il tuo vestito, e anche la tua saccoccia! Vedo bene: non mi avevano ingannato.