Oramai lo stazzo di Larentu Verre era lontano, dietro il sovero verde della spianata, ma Andrea vedeva sempre davanti a sé le figure dei suoi parenti ricchi, il viso rosso di Millèna, il vi-so pallido e la corta barbetta rossa di "quell'uomo" dalla sopragiacca di pelo aperta sul giustacuore paesano, e sopratutto l'odiosa faccia di zia Coanna.
I Verre poveri, come li chiamavano per distinguerli dai Verre ricchi, abitavano una casupola fabbricata sopra un'altura rocciosa, circondata da un mu-ricciuolo sul quale sporgeva un pero selvatico. Davanti si stendeva la campagna, sparsa di ovili solitarî, fresca e pura dopo le prime pioggie di autunno.
Quell'estremo lembo di villaggio, composto di casette brune, pareva disabitato: non si vedeva anima viva. Solo qualche gallina picchiava il becco sui muri e sulle pietre della via scoscesa.
La madre di Andrea salì svelta i gradini rozzamente scavati nella roccia, aprì la porta e rientrò in casa, mentre il fanciullo, rimasto vicino al muro om-breggiato dal pero selvatico, guardava lontano, verso lo stazzo del Verre.
Confuse impressioni gli sfioravano l'anima. Egli non sapeva ancora che zio Larentu era suo padre, ma più volte zia Andreana gli aveva additato il ricco parente che appena si degnava salutarli, e gli aveva detto:
— Egli non ha figli; forse lascierà a te ogni suo avere.
Andrea dunque si considerava già come erede del Verre, ma non amava quel parente superbo.
Andreana, che lavorava per campare la vita, riprese il suo fuso e si mise a filare, ritta sul limitare della porta. Era un po' triste, ma tranquilla come sempre. Andrea si volse a guardarla. Sua madre, a cui egli rassomigliava, gli piaceva tanto, gli sembrava la più bella donna del villaggio, così alta e dritta, con la pelle color rame e il viso un po' quadrato; gli pareva rassomigliasse ad una figura egiziana che aveva veduto in un libro del maestro.
— Andrea, — ella gli disse, — ora puoi andare dal maestro e dirgli ciò che tuo zio ha promesso.
Egli si scosse dalla sua contemplazione, si turbò, s'avviò senza parlare.
Furono per lui giorni indimenticabili: non poteva mangiare, né bere, né studiare. Non vedeva l'ora che giungesse la domenica; sperava, ma sempre gli persisteva in fondo alla piccola anima un vago sentimento di umiliazione.
Il venerdì mattina, assai per tempo, mentre guardava dalla piccola finestra senza vetri della stanzetta ove dormiva, Andrea scorse il Verre che veniva a cavallo verso il paese. Molte volte egli aveva veduto così "quell'uomo" appollaiato sull'alta cavalla grigia, col fucile ad armacollo; mai però aveva sentito l'emozione che provò quella mattina. S'immaginò che il Verre venisse da lo-ro, e quando il ricco parente giunse sotto la finestra, egli rattenne il respiro.
Ma zio Larentu passò oltre, senza fermarsi, senza guardare, come sempre.
Verso il meriggio, però, venne dai Verre poveri il maestro di scuola, il signor Giacinto Tedde, un bel giovine di vent'anni, alto ed elegante, tutto roseo in volto.
Vedendolo salire i gradini della roccia, il piccolo studente arrossì e si sentì battere il cuore, anche perché provava un vivo sentimento di ammirazione e di rispetto, tanto per il talento quanto per l'eleganza del giovine maestro.
— Ebbene, buon giorno, che notizie da ieri ad oggi? — chiese il maestro.
— Favorisca, venga su — disse Andrea, tutto vergognoso per la miseria della sua casetta. Ma il giovine volle stare in cucina, e non si guardò attorno: del che Andrea gli fu grato.
— Nessuna notizia — disse Andreana, sedendosi su uno sgabello, e curvandosi, con le mani giunte in grembo. — Andrea però mi disse di aver veduto... "quell'uomo". L'ha veduto, lei? Non è vero, Andrea?
— Sì — rispose con un soffio il fanciullo.
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