Pensò piuttosto alla grande potenza artistica del Dostojewsky: poi ricordò una novellina amorosa, convenzionale, che aveva scritto qualche tempo addietro, e gli sembrò di arrossire.

— Ma, perché devo arrossire? — si domandò poi. — Io sono un ragazzo.

Che ho provato io, che ho veduto io? Nulla; ho sempre vegetato. Dostojewsky ha sofferto, era epilettico, ed è tutta la sua sofferenza, tutto il fosforo del suo terribile cervello, tutta la febbre della sua esperienza che palpita nelle sue pagine: egli deve aver commesso il delitto di Raskolnikoff, e deve aver provato tutti i tormenti del castigo, per aver potuto fare questo libro. Come non avrebbe scritto il Sepolcro dei vivi senza esserci stato.

Fu in questo momento, appena formulata questa idea, che Andrea Verre ebbe il mostruoso pensiero di commettere un delitto, per studiarne le impressioni e scriverne poi un'opera potente.

La figura di zia Coanna ritornò. L'impressione fu così forte che per qualche istante Andrea dimenticò ogni altra cosa. Il cuore gli pulsò con violenza; fu un momento di ansia e di terrore...

Poi tutto dileguò. Egli rise di sé, si chiamò pazzo, cercò di addormentarsi.

Passò una notte agitata. Sognò, si svegliò, poi sognò ancora, e nel secondo sogno gli pareva di esser sveglio, ricordava il primo sogno, e ricordava il sogno di Raskolnikoff, quando lo studente assassino piange per pietà del cavallo martoriato.

Cosa strana: in questo secondo sogno pareva ad Andrea di aver deciso il delitto; non solo, ma egli pensava già al modo di rappacificarsi con suo padre per potersi introdurre nello stazzo e assassinare zia Coanna: e intanto analiz-zava le sue impressioni per riprodurle nelle pagine del suo futuro libro!

Svegliandosi, sentì un'angoscia indefinibile: gli sembrò che qualche cosa di mostruoso pesasse sul suo destino.

Ma intanto, come nel sogno, cercava di analizzare le sue impressioni pensando di servirsene un giorno, quando il suo destino sarebbe compiuto... Poi rise ancora di sé, riebbe tutta la coscienza della sua nullità.

— Eh, — pensò scoraggiato e stizzito, — sono un pazzo, solo a pensarci.

Anche se commettessi un delitto, non saprei mai riprodurre sulla carta le mie impressioni. A che mi servirebbe? Sono un piccolo, e basta... Sono un essere normale, d'ingegno molto limitato, e il mio destino si compirà semplicemente, senza ardimenti, né buoni, né cattivi!

S'alzò, aprì la finestra, tornò alla sua piccola realtà; i mostruosi sogni svanirono.

In quel giorno e nei seguenti egli proseguì a leggere il romanzo, ma senza affrettarsi, senza più provare le febbrili impressioni della prima notte. Raskolnikoff gli apparve qual era, un paranoico ambizioso e infelice.

Poi restituì il romanzo e a poco a poco le impressioni provate impallidiro-no e disparvero.

Però, dopo quella lettura, uno strano cambiamento s'avverò in lui. Progetti indistinti, idee di lavoro, improvvise umiliazioni, tenerezze accorate, gli fer-mentarono nell'anima. La musica umile e tenera del mandolino, certe poesie, certe voci, certe visioni, gli causavano emozioni profonde, talvolta tristi, talvolta liete.

Si isolò ancora di più, cadde in una specie di sogno.

Talvolta, solo nella sua cameretta, mentre al di fuori la città rumoreggiava come un mare mosso dai venti primaverili, egli suonava il mandolino, intendendo l'anima a voci lontane, che lo commovevano. Pensava alla patria lontana, ai suoi verdi paesaggi silenziosi, alla pianura sparsa di ovili e di soveri, alla casetta sulla roccia, ove sua madre filava pregando per lui; ed era allora che provava tenerezze improvvise, umiliazioni e nostalgie da lungo tempo dimenticate.