Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.

            Così l'impressione fu orribile e profonda; il giorno dopo quello dell'esecuzione, e per molti altri ancora, il vescovo parve prostrato. La serenità quasi violenta del momento funebre era scomparsa; il fantasma della giustizia sociale l'ossessionava. Egli, che di solito traeva da tutte le sue azioni una soddisfazione raggiante, sembrava farsene un rimprovero. Gli accadeva, a volte, di parlare tra sé e sé, mormorando a mezza voce lugubri monologhi. Eccone uno che sua sorella sentì una sera e raccolse: «Non credevo che fosse una cosa tanto mostruosa. È una colpa astrarsi dalla legge divina, al punto da non accorgersi della legge umana. La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».

            Col tempo quelle impressioni s'attenuarono e, forse, si cancellarono. Fu notato, tuttavia, che il vescovo evitava di passare nella piazza delle esecuzioni.

            Si poteva chiamare Myriel al capezzale dei malati e dei moribondi a qualsiasi ora: egli sapeva che quello era il suo più grande dovere, il suo più grande lavoro. Le famiglie vedove e orfane non avevano bisogno di chiamarlo, egli v'andava da sé. Sapeva sedersi e tacere per lunghe ore accanto al marito che aveva perduto la moglie adorata, alla madre che aveva perduto il figliolo. Così come conosceva il momento in cui tacere, conosceva quello in cui parlare. Ammirevole consolatore! Egli non cercava di cancellare il dolore con l'oblio, ma lo magnificava e lo nobilitava con la speranza. Diceva: «Badate al modo in cui considerate i morti. Non pensate a ciò che imputridisce; guardate intensamente: scorgerete la luce viva del vostro diletto defunto in fondo al cielo».

            Sapeva che la fede è sana. Cercava di consigliare, di calmare l'uomo disperato mostrandogli a dito l'uomo rassegnato e di trasformare il dolore che vede una fossa in quello che guarda una stella.

 

V • COME MONSIGNOR BIENVENU FACESSE DURARE TROPPO A LUNGO LE SUE SOTTANE    (torna all'indice)

 

            La vita domestica di monsignor Myriel era piena degli stessi pensieri che informavano la sua vita pubblica. Per chi avesse avuto la ventura di vederlo da vicino sarebbe stato uno spettacolo grave e incantevole quello offerto dalla povertà volontaria nella quale viveva monsignor vescovo di D.

            Come tutti i vecchi, e come la maggior parte dei pensatori, dormiva poco. Un breve sonno profondo. Al mattino, si raccoglieva per un'ora, poi diceva messa alla cattedrale o in casa. Detta la messa faceva colazione con un pane di segale inzuppato nel latte delle sue vacche. Poi lavorava.

            Un vescovo è un uomo occupatissimo: deve ricevere ogni giorno il segretario dell'arcivescovado, che, di solito, è un canonico, e, quasi tutti i giorni, i grandi vicari. Poi deve controllare congregazioni, concedere privilegi, esaminare tutta la letteratura ecclesiastica: messali, catechismo diocesano, breviari ecc.; deve scrivere pastorali, autorizzare prediche, mettere d'accordo parroci e sindaci, tenere una corrispondenza ecclesiastica e una corrispondenza amministrativa, da una parte lo Stato, dall'altra la Santa Sede, mille faccende.

            Il tempo che queste mille faccende, gli uffici e il breviario gli lasciavano lo dedicava ai bisognosi, ai malati, agli afflitti; il tempo che gli afflitti, i malati, i bisognosi gli lasciavano, lo dedicava al lavoro. Ora zappava il giardino, ora leggeva e scriveva. Usava una parola sola per indicare queste due specie di lavoro: chiamava ciò fare del giardinaggio. «La mente è un giardino», diceva.

            Verso mezzogiorno, quando faceva bello, usciva e passeggiava a piedi in campagna o in città, entrando sovente nei casolari. Lo si vedeva camminar solo, assorto nei suoi pensieri, lo sguardo a terra, appoggiato a un lungo bastone, vestito d'una sopravveste violacea imbottita e ben calda, con calze viola in grosse scarpe e il capo coperto dal cappello piatto che lasciava passare per i tre corni tre grosse ghiande d'oro a grani.

            Ovunque compariva, era una festa. Si sarebbe detto che il suo passaggio avesse qualcosa di luminoso.