Era raccomandata dal duca d'Orléans. Chiasso nell'alveare; le madri vocali tremavano tutte; madame de Genlis aveva scritto dei romanzi; lei per prima in verità si affrettò a dichiarare che li detestava, e poi era giunta a un punto di devozione sfrenata. Con l'aiuto di Dio, e anche del principe, entrò. In capo a sei sette mesi se ne uscì giustificandosi con il fatto che nel giardino non c'era abbastanza ombra. Le monache ne rimasero affascinate. Anche se molto vecchia suonava ancora l'arpa e molto bene.

            Andandosene lasciò il suo marchio nella cella. Madame de Genlis era superstiziosa e latinista. Basterebbero queste due parole per dare di lei un buon ritratto. Qualche anno fa c'era ancora, incollato all'interno di un armadietto dove soleva chiudere i soldi e i gioielli, un foglietto giallo con su scritti cinque versi latini che, secondo lei, avevano la virtù di spaventare i ladri:

 

            Imparibus meritis pendent tria corpora ramis:

            Dismas et Gesmas, media est divina potestas;

            Alta petit Dismas, infelix, infima, Gesmas,

            Nos et res nostras conservet summa potestas.

            Hos versus dicas, ne tu furto tua perdas.

 

            Questi versi, nel latino del sesto secolo, sollevano la questione di sapere se i due ladroni del Calvario, si chiamano, come comunemente si crede, Disma e Gesta o Disma e Gesma. Ortografia questa che avrebbe potuto vanificare, nel secolo scorso, la pretesa del visconte di Gestas di essere un discendente del cattivo ladrone. Del resto la morale di questi versi costituisce, nell'Ordine degli ospedalieri, articolo di fede.

            La chiesa, costruita in modo da separare, come un taglio netto, il Convento Grande dal Pensionato era, beninteso, comune al Convento Grande, al Pensionato e al Convento Piccolo. Vi era ammesso perfino il pubblico attraverso una porticina particolare che s'apriva sulla via. Ma tutto era messo in modo che nessuna delle abitazioni del chiostro potesse vedere anche un solo viso del mondo esterno. Pensate a una chiesa dove il coro, come stretto da una mano gigantesca e piegato in modo da formare non, come nelle chiese normali, un prolungamento dietro l'altare, ma una specie di sala, o di caverna buia alla destra dell'officiante; immaginate questa sala chiusa dalla cortina alta sette piedi della quale abbiamo già parlato; ammucchiate all'ombra di questa cortina, su stalli di legno, figuratevi le monache professe a sinistra, le educande a destra, le converse e le novizie in fondo, e avrete un'idea delle abitanti del Petit-Picpus che assistono al servizio divino. Questa caverna, che veniva chiamata coro, comunicava col chiostro attraverso un corridoio. La chiesa prendeva luce dalla parte del giardino. Quando le monache assistevano all'ufficio durante il quale la loro regola prescriveva il silenzio, il pubblico si accorgeva della loro presenza solo dai colpi delle misericordie degli stalli che si alzavano e si abbassavano rumorosamente.

 

VII • FIGURE DI QUELL'OMBRA    (torna all'indice)

 

            Nei sei anni che vanno dal 1819 al 1825 era priora del Petit-Picpus mademoiselle de Blemeur che in religione si chiamava madre Innocente. Apparteneva alla stessa famiglia di Marguerite de Blemeur, autrice della Vita dei santi dell'ordine di san Benedetto. Era stata rieletta. Era una donna sulla sessantina, bassa e grassa, che «cantava come un vaso incrinato», dice la lettera che abbiamo già citata, peraltro donna eccellente, l'unica allegra in tutto il convento e per questo adorata.

            Madre Innocente assomigliava alla sua ava Marguerite, la Dacier dell'ordine. Era letterata, erudita, dotta, competente, in un certo suo modo cultrice della storia, farcita di latino, imbottita di greco, piena d'ebraico, e più benedettino che benedettina.

            La sottopriora era una vecchia monaca spagnola, quasi cieca, la madre Cineres.

            Le madri vocali più in vista erano la madre Ste-Honorine, tesoriera, la madre Ste-Gertrude, prima maestra delle novizie, la madre St-Ange, seconda maestra, la madre Annonciation, sacrestana, la madre St-Augustin, infermiera, l'unica nel convento che fosse cattiva: e poi madre Ste-Mechtilde (signorina Gauvain), giovanissima, con una voce stupenda; madre Anges (signorina Drouet), che era stata nel convento delle Filles-Dieu e nel convento del Trésor tra Gisors e Magny; madre St-Josef (signorina de Cogolludo), madre Ste-Adélaide (signorina d'Auverney), madre Miséricorde (signorina de Cifuentes), che non sopportò le mortificazioni, madre Compassion (signorina de la Miltère), ammessa a sessant'anni nonostante la regola, ricchissima; madre Providence (signorina de Laudinière), madre Presentation (signorina de Siguenza), che nel 1847 divenne priora; e per finire madre Ste-Céligne, sorella dello scultore Ceracchi, che divenne pazza e madre Ste-Chantal (signorina de Suzon), che pure impazzì.

            E c'erano anche, tra quelle più graziose, un'affascinante giovane di ventitré anni, originaria dell'isola Borbone e discendente del cavaliere Roze, che nel mondo si chiamava signorina Roze e che ora si chiamava madre Assomption.

            Madre Ste-Mechtilde, incaricata del canto e del coro, v'impiegava volentieri le educande. Ne sceglieva di solito una scala completa, cioè sette, dai dieci a sedici anni, voci e statura assortite, e le faceva cantare in piedi, in fila, una accanto all'altra per ordine d'età, dalla più piccola alla più grande. Venivano a formare come una siringa, una specie di un flauto di Pan vivente, fatto di angeli. Tra le converse, quelle che le educande preferivano erano suor Ste-Euphrasie, suor Ste-Marguerite, suor Ste-Marthe, che era rimbambita, e suor St-Michel, il cui lungo naso le faceva ridere.

            Tutte queste donne trattavano dolcemente tutte quelle fanciulle. Solo con se stesse le monache erano severe. Il fuoco veniva acceso solo all'educandato e il cibo, in confronto a quello del convento, si sarebbe potuto definire raffinato. E poi mille attenzioni. Però quando una delle ragazze incontrava una monaca e le parlava la monaca non rispondeva.

            Quella regola del silenzio aveva fatto sì che, in tutto il convento, la parola era stata ritirata alle creature umane e data agli oggetti inanimati. Una volta era la campana della chiesa a parlare, una volta il sonaglio del giardiniere. Un campanello molto sonoro, sistemato vicino alla madre guardiana, segnalava con un diverso squillare, quasi una sorta di telegrafo acustico, tutte le azioni della vita materiale da compiere e chiamava in parlatorio, all'occorrenza, questa o quella abitante della casa.