Un prete dovrebbe dar l’esempio, con la sua purezza, di come dovrebbe vivere il suo gregge. Lui non cedeva in affitto il suo beneficio, non lasciava le sue pecore nel pantano, per correre a Londra a San Paolo a procurarsi una prebenda cantando messe per i defunti, o una confraternita in cui sistemarsi. Ma se ne stava a casa, a occuparsi del suo gregge, perché il lupo non ne facesse strage. Era un pastore lui, non un mercenario. E benché fosse virtuoso e santo, coi peccatori non era sprezzante, né violento e arrogante nei suoi discorsi, ma discreto e affabile quando li ammoniva. Indirizzare la gente al cielo con garbatezza, col buon esempio, ecco la sua preoccupazione. Ma se qualcuno era ostinato, ricco o povero che fosse, allora lo strigliava a dovere. Credo proprio che da nessuna parte esistesse un prete migliore.
Non si curava né di pompe né di onori, né per essi si faceva scrupoli di coscienza, ma insegnava la dottrina di Cristo e dei suoi dodici apostoli, ed era il primo a seguirla.
Era con lui un Contadino, suo fratello, abituato a caricare dei gran carri di letame: un vero lavoratore (37), un galantuomo, che viveva in pace e in carità perfetta. Amava Dio sopra ogni cosa, con tutto il cuore, in ogni circostanza lieta o triste, e poi il suo prossimo come se stesso. Quando poteva, andava a battere il grano, a zappare e a vangare, in nome di Cristo, per quei poveri che non potevano permettersi di pagare.
Rendeva le sue decime onestamente e per intero, sia lavorando che in moneta. Avvolto in un tabarro, marciava in groppa a una cavalla.
C’erano ancora un Fattore e un Mugnaio, un Cursore e un Indulgenziere, un Economo, e infine c’ero io.
Il Mugnaio era un robusto pezzo d’uomo, grosso di muscoli e di ossa: lo provava il fatto che dovunque andasse nelle gare di lotta, vinceva sempre il montone. Era tarchiato e tozzo, duro come un ceppo d’albero. Non c’era porta che non avrebbe scardinata o rotta, andandoci a cozzar contro con la testa. Aveva la barba rossa come il pelo d’una scrofa o d’una volpe, e larga per di più come una pala. Proprio sulla punta del naso aveva una verruca, con un ciuffetto di peli sopra, rossi come le setole nell’orecchio d’una troia; le sue narici erano larghe e nere. Portava al fianco una spada e uno scudo.
Aveva una bocca grande come una fornace, ed era ciarliero e buontempone, se si trattava soprattutto di peccati e di ribalderie. Rubava sul grano e si prendeva il triplo di quanto gli spettava; eppure, perdio, aveva un pollice d’oro! (38) Portava un pastrano bianco col cappuccio turchino. Sapeva suonare bene la cornamusa, e con quella ci accompagnò fuori della città.
C’era il garbato Economo d’un collegio d’avvocati, dal quale la gente al mercato avrebbe dovuto imparare a far la spesa giornaliera: pagasse o prendesse a credito, era così accorto nelle sue compere, da esser sempre il primo a concludere buoni affari. Non è forse una gran bella grazia di Dio che l’acume d’un uomo così insipiente dovesse sorpassare in avvedutezza un mucchio d’uomini istruiti? Aveva più di trenta maestri, tutti esperti e studiosi di diritto, dei quali una dozzina almeno in quel collegio eran capaci d’amministrare le rendite e le terre di qualsiasi nobiluomo d’Inghilterra, così da farlo vivere del suo, onorevolmente e senza debiti (a meno che non fosse matto), oppure modestamente, se così gli fosse piaciuto; capaci di mettere in sesto tutta una contea, qualunque cosa potesse insorgere o accadere. Eppure quest’Economo li metteva tutti nel sacco.
Il Fattore era un uomo smilzo e collerico: si radeva la barba più vicino alla pelle che poteva; aveva i capelli tagliati in tondo attorno alle orecchie è il cucuzzolo pelato sul davanti come un prete; gambe lunghissime e molto magre, che parevano stecchi senza polpa. Sapeva lui come va tenuto un granaio o una cantina, e non c’era revisore dei conti che lo superasse. Calcolava alla perfezione quel che avrebbero reso, col secco e col bagnato, il grano e la semente.
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