Le pecore, i bovini, il latte, i maiali, i cavalli, il raccolto e il pollame del padrone, tutto era nelle mani di questo Fattore, il quale ne rendeva conto per contratto fin da quando il padrone aveva compiuto vent’anni, e mai una volta venne sorpreso in arretrato. Non c’era domestico, né mandriano o altro garzone di cui non conoscesse i trucchi o gl’imbrogli: lo temevano tutti come la morte.

Abitava sulla brughiera, in un bel posto ombreggiato dal verde degli alberi. Sapeva spendere il suo denaro meglio del padrone e s’era messo segretamente da parte un bel gruzzolo: così poteva far dei piaceri al suo signore cedendogli o prestandogli del suo, guadagnandosene in questo modo la riconoscenza e magari un mantello col cappuccio.

Aveva imparato in gioventù un buon mestiere: era un ottimo artigiano, un falegname.

Ed ora questo Fattore cavalcava un magnifico stallone, tutto grigio pomellato, di nome Scott. Indossava una lunga tunica azzurra e portava al fianco una lama arrugginita. Era di Norfolk, questo Fattore di cui parlo, dei dintorni d’una città chiamata Baldswell.

Teneva la tunica rimboccata alla vita come un frate, e cavalcava sempre in coda alla compagnia.

C’era con noi anche un Cursore, (39) con una faccia da cherubino rossa come il fuoco (40), piena di sfogo, e con gli occhi ravvicinati. Era ardente e lascivo come un passero, con nere sopracciglia tignose e la barba spelacchiata. I bambini avevan paura della sua faccia. Non c’era mercurio, né ossido di piombo, né zolfo, né borace, né cerussa, né olio di tartaro, nessun unguento che purifichi e bruci, che potesse alleviargli le bianche pustole e i vespai troneggianti sulle sue guance. Gli piacevano molto l’aglio, le cipolle e i porri, e bere vino forte, rosso come il sangue, per poi mettersi a chiacchierare e a gridare come un pazzo. Quando aveva ben bevuto, non parlava che in latino. Ne conosceva due o tre parole che aveva apprese in qualche decreto, e non c’è da meravigliarsi perché non sentiva altro in tutto il giorno: voi sapete che un pappagallo può chiamar “Loreto” come un papa. Ma bastava saggiarlo su altri punti per vedere che aveva ormai sborsato tutto quello che sapeva, e allora non faceva che ripetere

“Questio quid iuris” (41). Era uno scapestrato mite e accomodante: miglior compagno non si sarebbe potuto trovare. Per un quarto di vino lasciava che un amico si tenesse per un anno una concubina, scagionandolo in tutto, ma intanto di nascosto spennava il povero fringuello. Se s’imbatteva in un semplicione, gl’insegnava a non aver paura della scomunica dell’arcidiacono: l’uomo non ha certo l’anima nel portamonete, e in fondo lì soltanto sarebbe stato punito. «L’inferno dell’arcidiacono» diceva «è solo il portamonete.» Ma si sa benissimo che mentiva: chi è in colpa deve temere la scomunica, perché la scomunica danna mentre l’assoluzione invece salva, e bisogna stare attenti al “Significavit”. (42) Aveva sotto la sua giurisdizione, a modo suo, i giovani e le ragazze della diocesi, e conosceva i loro segreti ed era in tutto il loro consigliere.

S’era messo in testa una ghirlanda di frasche, grande come l’insegna d’una birreria, e portava per scudo una pagnotta.

Cavalcava con lui un mite Indulgenziere di Roncisvalle, (43) suo degno amico e compare, ch’era appena tornato dalla corte di Roma. Costui cantava a squarciagola:

«Vieni, vieni, amor, da me!». E il Cursore gli faceva da accompagnamento, con una voce due volte più bassa e forte del suono d’un trombone. Quest’Indulgenziere aveva i capelli gialli come la cera, che ricadevano giù molli come una matassa di lino; i riccioli che aveva, a once, gli si allungavano fin sulle spalle e penzolavano radi, uno per uno, come straccetti. Eppure per civetteria non portava il cappuccio, tenendolo ben chiuso nella bisaccia. Credeva d’andare all’ultima moda, coi capelli sciolti e la testa coperta solo da un berrettino. Aveva gli occhi sporgenti come quelli d’una lepre.