Ah, non avessi mai conosciuto Piritoo! Così almeno sarei rimasto da Teseo, incatenato sì nella sua prigione, ma felice e non in questo tormento. A me sarebbe bastato vederla, la donna che amo, anche se non ne avessi mai potuto meritar grazia. Ah, cugino mio Palemone, in questo caso sei tu che hai vinto! Beato te che sei ancora in prigione… In prigione? Ma no, tu sei in paradiso! La fortuna ha fatto il tuo gioco, e così Emilia tu almeno puoi vederla, mentre io ne sono a miglia di distanza, E può ancora darsi, ora che le sei vicino, tu che sei un valoroso e nobile cavaliere, che per un qualunque caso tu riesca, visto che la fortuna è così mutevole, a ottenere proprio ciò che desideri. Ma io, che sono esiliato, destituito d’ogni grazia e così disperato che non c’è terra, né acqua, né fuoco, né aria, nessuna creatura al mondo che possa aiutarmi e darmi conforto, io non posso far altro che languire nella disperazione e nello spasimo. Addio vita, piaceri e felicità! Ah, perché la gente si lamenta della divina provvidenza o fortuna che spesso e volentieri, in un modo o nell’altro, dà molto più di quanto si riesca ad immaginare? Uno desidera la ricchezza, e questa gli provoca la morte o una grave malattia; un altro vuol uscire di prigione, e viene assassinato dai suoi stessi servi in casa sua. Infiniti sono i mali che noi stessi ci procuriamo. Non sappiamo neppure noi che cosa vogliamo: ci comportiamo come tanti sorci ubriachi, sappiamo d’avere una casa, ma non troviamo mai la via giusta per arrivarvi e continuiamo sempre a ruzzolare. Ecco come ci comportiamo a questo mondo. Corriamo dietro alla felicità, ma quasi sempre ci sbagliamo. Tutti quanti dobbiamo ammetterlo, e specialmente io, che mi credevo ed ero certo che, se solo avessi potuto fuggire di prigione, avrei toccato la gioia e la felicità perfetta: e invece eccomi esiliato dal mio bene. O Emilia, se non posso più vederti, sono spacciato e per me è finita!».
D’altra parte Palemone, come seppe che Arcita se n’era andato, si abbandonò a una disperazione tale, da far risuonare tutta la torre dei suoi lamenti e delle sue grida; perfino i ferri che stringevano le sue grosse caviglie erano bagnati d’amare lacrime salate. «Ahimè» diceva «Arcita, cugino mio, Dio sa che in questa nostra lite tu hai avuto il sopravvento! Ormai te ne vai per Tebe in libertà e poco t’importa dei mio dolore. Con la tua astuzia e furberia sei capace d’adunare tutta la gente della nostra stirpe e attaccar guerra contro questa città, riuscendo poi, con un po’ di fortuna e di maneggi, a prenderti per tua signora e moglie la donna per la quale io devo invece rimetterci la vita. Tu almeno sei libero, lontano dalla prigione e padrone di te stesso: ecco il tuo vantaggio; mentre io sono qui a morire rinchiuso in una gabbia. Finché avrò vita, non mi resterà che piangere e lamentarmi per le sofferenze della prigione, alle quali s’aggiungono i tormenti dell’amore che raddoppiano i miei patimenti e le mie pene.»
D’improvviso gli si accese in petto il fuoco della gelosia e lo prese così furiosamente al cuore, ch’egli diventò pallido come il bosso o la cenere quand’è spenta e fredda. Allora disse: «O dèi crudeli, che governate il mondo col vincolo della vostra parola eterna e scrivete su tavola di diamante le vostre leggi e le vostre eterne concessioni, che cos’è per voi il genere umano più del gregge accovacciato nell’ovile? L’uomo viene scannato come una qualsiasi bestia, arrestato, messo in prigione, soggetto a malattie e a grandi avversità, e spesso, perdio, senz’averne colpa! Quale criterio esiste in questa prescienza che tormenta a torto gl’innocenti? Ma ciò che più ancora accresce questa mia pena è che l’uomo sia costretto, per amor di Dio, a rinunciare alla propria volontà, mentre una qualunque bestia può dar sfogo a tutti i propri istinti; e quando una bestia è morta non soffre più, mentre un uomo deve continuare a piangere e a tribolare anche dopo la morte, come se a questo mondo non vi fossero già abbastanza pene e preoccupazioni. Proprio così. Il perché lo spieghino gl’indovini: io so soltanto che a questo mondo c’è molto da soffrire. Ahimè, si vedono serpenti, oppure ladri che hanno derubato parecchia gente, andarsene liberamente dove a loro pare e piace. Io invece devo starmene in prigione, e tutto per colpa di Saturno e di quella gelosa pazza di Giunone che ha sterminato quasi tutta la stirpe di Tebe diroccandone perfino le vaste mura; e per giunta Venere mi fa morire di gelosia e di timori a causa d’Arcita».
Ma smettiamola un po’ con Palemone, lasciandolo nella sua prigione, e proseguiamo invece appunto con Arcita.
Passata l’estate, le notti s’allungarono raddoppiando le amare pene sia dell’amante che del prigioniero. Non so proprio chi dei due avesse la peggior sorte: Palemone era condannato a perpetua prigione e a morire in catene e ceppi, ma anche Arcita, esiliato com’era sotto pena di morte e lontano da tutti, non avrebbe mai potuto rivedere la sua donna. Lo chiedo perciò a voi che siete innamorati: chi dei due aveva la peggio, Arcita o Palemone? L’uno poteva vedere la sua donna tutti i giorni, ma era condannato a rimaner per sempre in prigione; l’altro poteva spostarsi a cavallo o a piedi dove gli pareva, ma la sua donna non avrebbe mai più potuto rivederla. Giudicate un po’ come vi garba, voi che di queste cose ve ne intendete, intanto io, ormai che ho incominciato, proseguo il mio racconto.
EXPLICIT PRIMA PARS.
SEQUITUR PARS SECUNDA.
Arcita dunque, tornato a Tebe, non faceva che languire e lamentarsi tutto il giorno, perché ormai non avrebbe più potuto rivedere la sua donna. A dire in breve tutto il suo dolore, non c’era mai stato, né ci sarà mai, essere al mondo che soffrisse tanto.
1 comment