Dormire, mangiare, bere, tutto gli era impossibile, sicché diventò magro e asciutto come uno stecco, con certi occhi infossati che facevano impressione, e un colorito terreo, smorto come cenere spenta. Se ne stava sempre solo e appartato, e di notte non faceva che piangere e disperarsi; se poi per caso sentiva qualcuno cantare o suonare, si metteva a piangere senza riuscire più a trattenersi. Di spirito era così debole, così abbattuto ed alterato, che, sentendolo parlare, non si riconoscevano neppure più le sue parole o la sua voce. E se ne andava in giro con l’aria non solo d’uno spasimante malato d’amore, ma d’un maniaco colpito dall’umor malinconico proprio nel lobo frontale del cervello. Tutto insomma era sottosopra, consuetudini e inclinazioni, nell’infelice innamorato messer Arcita.

Ma perché parlarvi sempre dei suoi mali? Trascorsi un anno o due in questo crudele tormento, fra tante pene e tanti dolori, mentre, come vi dicevo, Arcita se ne stava a Tebe, nella sua patria, una notte, mentre dormiva, gli parve di vedere in sogno Mercurio, il dio alato, che gli diceva di farsi coraggio. Teneva ritta in mano la verga che concilia il sonno e portava sulle sue chiome luccicanti un cappello. Era vestito, questo dio, almeno così gli parve, proprio come quando aveva addormentato Argo, e gli diceva: «Devi tornare ad Atene, perché è là che avrà fine il tuo dolore».

A queste parole Arcita si svegliò con un sussulto. «Ora basta» disse «costi quel che costi, partirò subito per Atene, e non sarà certo la paura della morte ad impedirmi di vedere la donna di cui sono innamorato. Pur di rivederla non m’importa di morire.»

Mentre così diceva, gli capitò fra le mani un grande specchio e s’accorse che aveva mutato aspetto e che il suo viso era completamente trasformato. Gli venne allora subito in mente che, col volto così sfigurato dalla malattia sofferta, avrebbe potuto, camuffandosi da pezzente, vivere per sempre sconosciuto in Atene e vedere tutti i giorni la sua donna. Si cambiò immediatamente gli abiti travestendosi da povero operaio e tutto solo, eccetto uno scudiero suo confidente che conosceva tutta la sua storia, vestito anche lui miseramente, prese la via più breve per Atene.

Là si presentò un giorno a palazzo, offrendosi presso il portico a questo e a quello come uomo di fatica per i lavori più pesanti. Insomma, per non farla troppo lunga, capitò al servizio d’un ciambellano addetto proprio all’appartamento di Emilia, perché, furbo com’era, aveva saputo subito distinguere chi fra tutti i servi lavorasse presso di lei.

Spaccava legna e trasportava acqua senza fatica, perché era ancora giovane e robusto, massiccio e ben piantato, capace di reggere a qualsiasi lavoro che gli venisse comandato.

Rimase così a servizio per un anno o due come garzone di palazzo presso Emilia la radiosa, dicendo di chiamarsi Filostrato (2). Ma nessuno degli altri servitori a corte era benvoluto come lui: aveva certi modi così distinti, che tutti a corte ne parlavano.

Dicevano che Teseo avrebbe fatto un’opera di carità a promuoverlo di grado, assegnandogli un lavoro decoroso nel quale potesse mettere in pratica le sue doti. E

così, in breve tempo, tanto si sparse la fama dei suoi modi e del suo ben parlare, che Teseo lo volle accanto a sé, e lo nominò scudiero al suo servizio, assegnandogli naturalmente la paga adatta al grado. C’era per giunta chi di nascosto, ogni anno, gli portava dal suo paese le rendite dei suoi beni; egli però era così retto e cauto nelle spese, che mai nessuno s’accorse dei suoi introiti.

Per tre anni se la passò in questo modo, e seppe comportarsi così bene, in pace come in guerra, che nessuno fu mai più caro di lui a Teseo. Ma lasciamo per ora Arcita in questa sua beatitudine, e torniamo un po’ a parlare di Palemone.

Palemone, dunque, da ormai sette anni languiva nell’oscurità dell’orribile e massiccia prigione, macerato dal patimento e dalla tristezza. Chi mai soffrì doppiamente tante pene e dolori? L’amore lo tormentava fino a farlo impazzire dal dispiacere e, come se questo non bastasse, egli era condannato a rimanere in carcere, e non per un anno, ma per sempre. Chi mai saprebbe degnamente descrivere il suo martirio? Non io di certo, e perciò al più presto passiamo oltre.

Nel settimo anno, la notte del tre di maggio (questo dicono certi antichi libri che raccontano la storia in tutti i suoi particolari), fosse il caso o il destino - tanto, quando una cosa è stabilita, deve per forza accadere - il fatto è che subito dopo la mezzanotte, con l’aiuto di un amico, Palemone riuscì a sfondare la prigione e a darsela a gambe, lasciando al più presto la città. Al carceriere aveva dato da bere una specie di chiaretto, composto di vino, narcotici e puro oppio tebano, che l’avrebbe fatto dormire tutta la notte (neppure a scuoterlo si sarebbe svegliato!), e poi via al più presto di corsa. Ma la notte era corta e il giorno ormai vicino: bisognava ad ogni costo che Palemone si nascondesse. Ed eccolo infilarsi di soppiatto in un boschetto proprio là vicino.