Pensò infatti di rimanere nascosto in quel boschetto tutto il giorno, per poi riprendere durante la notte la strada di Tebe e andare a pregare i suoi amici d’aiutarlo a far guerra contro Teseo. Ormai aveva deciso: o perdere la vita o prendersi come sposa Emilia.

Ma torniamo di nuovo ad Arcita, che non sognava neppure quanti guai gli stessero per capitare, finché la fortuna non lo riprese al laccio…

Affaccendata l’allodola, messaggera del giorno, salutava col suo canto l’alba cenerina, e Febo incandescente sorgeva così fulgido, che tutto l’oriente sorrideva della sua luce, mentre coi suoi raggi egli asciugava nei boschi le gocce d’argento che pendevano dalle foglie. Arcita, dunque, primo scudiero nella reggia di Teseo, alzandosi vide ch’era un bel giorno: allora, per rendere gli onori a maggio, ricordandosi in quel punto del suo desiderio, sopra un cavallo guizzante come il fuoco, partì correndo per un miglio o due nella campagna, lontano dalla corte. E si diresse per caso proprio verso quel boschetto di cui vi dicevo, per farsi una ghirlanda di rami di caprifoglio o biancospino, cantando a voce alta nella luce del sole:

«Maggio verde pien di fiori,

che tu sia ben tornato,

Maggio fresco, aggraziato,

nel tuo verde anch’io spero!»

Scendendo con animo allegro da cavallo, entrò lesto nella boscaglia e si mise a girovagare per un sentiero, proprio dove Palemone, trepidando morto di paura, stava nascosto in un cespuglio, e non credeva di sicuro che quello fosse Arcita; Dio sa che non se lo sarebbe mai immaginato! Ma dice bene un antico proverbio: «Perfino i campi hanno occhi per vedere, e i boschi orecchi per sentire». Bisogna perciò comportarsi sempre bene, perché tutti i giorni s’incontra l’imprevisto. Neppure Arcita s’immaginava che il suo compagno, accovacciato immobile in un cespuglio, gli fosse così vicino da sentire ogni sua parola!

Ad ogni modo, quand’ebbe ben girovagato, cantando allegramente il suo ritornello, Arcita cadde improvvisamente in preda alla malinconia, come succede agli innamorati coi loro strani umori: ora sono in alto sulla vetta, ora in basso in mezzo ai rovi, su e giù come un secchio dentro il pozzo. Com’è vero che di venerdì un po’ piove e un po’ c’è il sole, così la capricciosa Venere muta il cuore degli amanti: come il suo giorno è variabile, così lei è volubile. E’ raro, infatti, che il venerdì sia come gli altri giorni della settimana…

Arcita, dunque, aveva appena terminato di cantare che subito si abbandonò a sedere, incominciando a sospirare: «Ahimè» diceva «maledetto il giorno che sono nato! O

Giunone, fin quando ti accanirai con la tua crudeltà contro la città di Tebe? Ahimè, estinto è ormai il sangue reale di Cadmo e di Anfione, di quel Cadmo che per primo costruì Tebe, per primo ne tracciò le fondamenta e ne fu per primo incoronato re! Ed io che sono della sua stirpe, diretto discendente di sangue reale, eccomi, prigioniero e schiavo, a far miseramente da scudiero a chi mi è nemico a morte. Ma questa mia vergogna non basta a Giunone, perché non posso neanche più usare il mio nome: una volta mi chiamavo Arcita, ora invece Filostrato, cioè buono a nulla. Ahimè, terribile Marte! Ahimè, Giunone! La vostra ira ha distrutto tutta la nostra stirpe, all’infuori di me e di quel povero Palemone che Teseo tormenta ancora in prigione. E per colmo di sventura, per darmi proprio il colpo di grazia, ecco che amore m’ha conficcato il suo dardo rovente in questo mio sincero e povero cuore; si vede che a me la morte fu messa addosso prima ancora della camicia. O Emilia, tu mi uccidi con i tuoi occhi, sei tu che mi fai morire! Di tutto il resto dei miei guai non m’importerebbe nulla, se soltanto potessi far qualcosa per piacerti!». Così dicendo cadde svenuto, ma dopo qualche istante si riprese.

Palemone si sentì come se una fredda lama gli trapassasse improvvisamente il cuore: tremava di rabbia e non riusciva a star fermo. Dopo aver ascoltato i discorsi di Arcita, balzò fuori come un pazzo dal folto dei cespugli, con la faccia pallida d’un morto, e disse: «Arcita, falso traditore malefico, eccoti sorpreso finalmente! Prima t’innamori della mia donna, per la quale io già soffro pene e dolori, tu che pure sei del mio sangue e mio amico giurato, come ti ho già detto e ripetuto, e poi eccoti qui a ingannare il duca Teseo sotto falso nome! Ch’io possa morire subito se non t’ammazzo! Tu non amerai Emilia la mia donna; io soltanto l’amerò e nessun altro; sono io, Palemone, tuo mortale nemico! Anche se qui mi trovo senz’armi, per fortuna sono libero dalla prigione, e ti giuro che morirai o la smetterai d’amare Emilia. Scegli tu, intanto ormai non ti rimane scampo!».

Con animo infuriato Arcita, riconoscendolo e sentendo le sue parole, fiero come un leone trasse fuori la spada e disse: «Per Dio che sta nei cieli, se non fosse che sei malato e impazzito per amore e in questo momento anche disarmato, non usciresti più da questo bosco, perché ti ammazzerei con le mie mani! Ritiro ogni promessa o impegno che, tu dici, ho fatto con te. Balordo che sei, ricordati che l’amore è libero e che di lei io sarò sempre innamorato, a dispetto di tutta la tua arroganza! Se poi ti rimane ancora un po’ d’onore di cavaliere, e vuoi decidere la questione al duello, ti do la mia parola che domani, senza dir nulla a nessuno, anch’io da cavaliere non mancherò di trovarmi qui, e porterò armi abbastanza pure per te; anzi tu sceglierai le migliori, e lascerai le peggiori a me. Stasera intanto ti porterò da mangiare e da bere, e coperte per dormire. E se capiterà che tu vincerai la mia donna uccidendomi in questo bosco dove mi trovo, allora, per me, potrai tenertela!».

Al che Palemone rispose: «Va bene, d’accordo». E così si lasciarono fino all’indomani, dopo che ciascuno ebbe dato la sua parola all’altro.

Ah, Cupìdo, sei proprio senza carità! Sei un sovrano che accanto a sé non vuole aver nessuno! E giusto quel che si dice, che amore e prepotenza non vogliono saperne di stare insieme, ed era questo quel che Arcita e Palemone scoprirono.

Arcita dunque se ne tornò subito in città, e l’indomani, prima che fosse giorno, procuratesi di nascosto due armature con tutto il necessario e l’occorrente per decidere la questione al duello, se ne ripartì tutto solo tenendosi le armature davanti sul cavallo. E fu così che nel bosco, a tempo e luogo stabiliti, Arcita e Palemone si ritrovarono. E subito impallidirono, come certi cacciatori del regno di Tracia, i quali, appostati al varco con la lancia, durante la caccia del leone o dell’orso, appena lo sentono venire frusciando per il bosco e spezzando rami e fronde, pensano: ‘Ecco, s’avvicina il nemico! Ormai uno di noi deve morire: o io lo uccido subito, oppure, se manco il colpo, lui uccide me!’ Questo era anche ciò che pensavano quei due, impallidendo già a vedersi da lontano.

Non si scambiarono alcun buongiorno o altro saluto, e tuttavia, pur senza parole né complimenti, s’aiutarono a indossare l’armatura buoni come due fratelli. Poi, con poderose lance acuminate, si scagliarono l’uno contro l’altro e incominciarono a suonarsele. Avresti detto che nella lotta Palemone fosse un leone impazzito e Arcita una tigre feroce: si pestavano tutt’e due il grugno come verri selvaggi, con la bocca biancheggiante di bava per la gran rabbia e immersi ormai nel sangue fino al collo del piede.