Ma lasciamoli pure lì a combattersi e passiamo invece a parlare di Teseo.
Il destino, quel ministro generale (3) che attua sulla terra la provvidenza di Dio e che tutto prevede, ha un tale potere che, se anche il mondo intero si mettesse a far scongiuri contro qualcosa, pure, prima o poi succede in un giorno quello che non succederebbe in mille anni. Difatti quaggiù i nostri desideri, siano di guerra o di pace, d’odio o d’amore, vengono tutti regolati da quell’occhio che sta lassù in cielo.
Dico a questo proposito del gagliardo Teseo, che aveva sempre tanta voglia d’andare a caccia (specialmente in maggio a quella del cervo adulto), che non spuntava giorno nel suo letto senza che lui non fosse già vestito e pronto a cavalcare, con tutto il suo seguito di cacciatori coi corni e i cani. Tanta era la sua passione per la caccia, che uccidere il cervo era ormai tutta la sua gioia e contentezza, ora che dopo Marte s’era messo a servire Diana.
Era, come vi dicevo, una bella giornata, e Teseo, tutto felice e contento, con la sua bella regina Ippolita ed Emilia, vestita di verde, se ne partì maestosamente per la caccia, dirigendosi verso il bosco più vicino dove gli era stato detto che s’era rifugiato il cervo.
E andò subito difilato nella radura, perché di solito era là che il cervo fuggiva e doveva attraversare un ruscello prima di poter procedere nella sua corsa; fu il duca stesso a volerlo inseguire per una pista o due con certi bracchi che a lui piaceva comandare.
Ma, giunto alla radura, guardando in direzione del sole, il duca vide invece Arcita e Palemone che, infuriati come due verri, continuavano a combattere; le loro spade luccicanti guizzavano così paurosamente di qua e di là, che al minimo colpo pareva dovessero abbattere una quercia. Non sapendo chi fossero quei due, il duca spronò il cavallo e in un balzo fu in mezzo a loro, e sguainando la spada gridò: «Ehi, basta, se non volete rimetterci la testa! Per il potente Marte, il primo che in mia presenza lancia ancora un colpo, sarà spacciato! Ditemi piuttosto chi siete, che vi mettete qui a combattere senza nemmeno un giudice o un arbitro, come se foste in un torneo di re!».
Rispose subito Palemone e disse: «Sire, a che servono tante parole? Ci meritiamo tutt’e due la morte. Siamo due poveri disgraziati, due prigionieri stanchi di vivere; e tu che sei nostro signore e giudice non avere per noi pietà o misericordia. Uccidimi per primo, fammi questa carità, ma con me uccidi anche il mio compagno. Oppure uccidi prima lui, perché, se ancora non te ne sei accorto, si tratta d’Arcita, tuo mortale nemico, bandito dalle tue terre sotto pena di rimetterci la testa, e che perciò ben merita d’essere ucciso: è lui che venne alla tua porta dicendo di chiamarsi Filostrato, ormai da anni ti tradisce, tu lo hai perfino nominato tuo primo scudiero, ed egli è innamorato d’Emilia. Ma è venuto il giorno che devo morire, e perciò ti confesso apertamente anch’io d’esser quel Palemone sventurato che con inganno fuggì dalla tua prigione: sono anch’io tuo mortale nemico, ma così innamorato della bella Emilia, che ormai vorrei soltanto morire qui davanti a lei! Ecco perché ti chiedo la mia condanna a morte; ma uccidi anche il mio compagno, perché nessuno è ormai degno di continuare a vivere».
Il valente duca replicò dicendo: «E’ presto fatto; vi siete condannati da soli, per bocca vostra e con la vostra confessione: a me non resta che prenderne atto. Non c’è neanche bisogno di mettervi alla tortura, e giuro per il potente dio rosso Marte che morirete!».
La regina allora, molto femminilmente, scoppiò in lacrime, e con lei Emilia e tutte le dame del seguito, impietositesi al pensiero che dovesse accadere una tal disgrazia a due gentiluomini d’illustre stirpe, che soltanto per amore si trovavano a combattere; vedendo poi le loro orribili ferite sanguinanti ancora aperte, tutte gridarono, dalla prima all’ultima «Pietà, signore, di noi che siamo donne!» e prostrandosi a terra in ginocchio, fecero l’atto di baciare i piedi al duca, il cui umore alla fin fine si placò, giacché a cuor gentile pietà corre veloce… (4) E benché subito egli fosse scosso e infiammato d’ira, si mise poi a riflettere sulla colpa che quei due avevano commesso e sul motivo che li aveva spinti; e se prima nel furore li avrebbe condannati, ora invece con la ragione li scusava tutt’e due: pensò che chiunque per amore avrebbe fatto lo stesso, cercando a ogni costo di fuggire di prigione, e in cuor suo provò anche compassione di tutte quelle donne che continuavano a piangere. E così, pieno di nobili pensieri, fra sé disse: ‘Guai a quel sovrano che non vuole aver pietà, e fa la voce e la parte del leone sia con chi ha timore e si pente, come con chi è superbo e sprezzante e persiste in quanto ha iniziato! Dimostrerebbe ben poco giudizio il sovrano che in un simile caso non sapesse distinguere, e valutasse nello stesso modo orgoglio ed umiltà’.
Insomma, quando l’ira in questo modo gli fu passata, sollevando da terra i suoi accesi occhi, disse a voce alta queste precise parole:
«Ah, “benedicite”, che potente e gran signore è il dio dell’amore! Non c’è davvero ostacolo che resista alla sua potenza! Egli può veramente chiamarsi dio per i suoi miracoli, giacché d’ogni cuore può fare a suo modo tutto ciò che vuole. Ecco, guardate Arcita e Palemone: erano finalmente liberi di prigione e avrebbero potuto vivere a Tebe come due re, sapevano che io ero il loro nemico e che avrei potuto condannarli a morte, eppure ecco che l’amore li ha ricondotti come due ciechi proprio qui a morire.
Non vi pare che ciò sia follia pura? Ma chi è più pazzo d’un innamorato? Guardate, per amor di Dio che sta nei cieli, guardate come sanguinano! Non vi sembrano abbastanza mal ridotti? Ecco come il loro padrone, il dio dell’amore, li ha pagati e compensati per il loro servizio! Eppure credono d’aver ragione loro, a voler servire amore a tutti i costi…
Ma il più bello è questo: che la donna per la quale hanno fra loro questo bel divertimento, può ringraziarli giusto quanto me, perché di tutta questa gran caldana, perdio, non ne sa più di quanto ne sappia un cuculo o una lepre! E’ proprio vero che, focosi o frigidi, dobbiamo tutti esser messi alla prova e, prima o poi, bisogna che l’uomo perda la testa: questo lo so, perché anch’io ai miei tempi sono stato servo d’amore. Ed ora, siccome appunto conosco le sue pene e so quanto possano straziare un uomo, proprio per esser stato preso al laccio anch’io, ecco, vi perdono ogni vostra mancanza, anche perché la regina è qui che me lo chiede in ginocchio, con la sua cara sorella Emilia. Voi due, però, dovete qui subito giurarmi che non cercherete mai d’insidiare il mio paese attaccando guerre, ma rimarrete sempre alleati miei. Eccovi dunque completamente assolti!»
Subito e apertamente quelli prestarono il giuramento richiesto, pregando il duca di concedere a tutt’e due la sua pietosa protezione. Ed egli, promettendo loro tutto il suo favore, proseguì:
«Quanto a nobiltà e ricchezza, ciascuno di voi è senza dubbio degno di sposare un giorno anche una regina o una principessa. Riguardo però a mia cognata Emilia, per la quale è sorta tra voi tutta questa contesa e gelosia, voi capite che non può sposarvi tutt’e due, neppure se voi continuaste a combattere per sempre. Uno di voi, voglia o non voglia, dovrà per forza mettersi l’animo in pace, giacché, per quanto siate gelosi e infuriati, non potrete mai ottenerla in due! Facciamo dunque in modo che ognuno di voi abbia la sorte che si merita… Sentite come avrei pensato di risolvere una buona volta la questione, senza che poi vi siano repliche: si tratta ad ogni modo d’un consiglio, voi potete regolarvi come credete. Ognuno di voi se ne vada liberamente dove gli garba, senza bisogno d’alcun riscatto o svincolo, ma fra cinquanta settimane a partire da oggi, non un giorno prima o uno dopo, ciascuno ritorni portando qui cento cavalieri armati di tutto punto, pronti ad entrare in lizza e a decidere in battaglia ogni contesa.
Vi do la mia parola di cavaliere che a chi di voi due si dimostrerà più forte, sarà cioè capace, con i cento cavalieri di cui vi dicevo, d’uccidere l’avversario o di metterlo fuori combattimento, a lui darò Emilia in moglie, a chi cioè tal grazia otterrà dalla fortuna.
Qui stesso farò costruire lo stadio, e Dio non perdoni l’anima mia se come giudice non sarò imparziale e retto! La battaglia non avrà termine finché uno dei due non resti ucciso o sia fatto prigioniero.
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