Se vi pare che quanto ho detto sia giusto, esprimete il vostro giudizio dandomi la vostra approvazione. Ecco, ho concluso e terminato.»
Chi c’era più contento di Palemone? Chi se non Arcita poteva far salti di gioia? Chi mai saprebbe descrivere o rappresentare tanto gaudio dopo che Teseo ebbe concesso una così bella grazia? Tutti gli s’inginocchiarono davanti, ringraziandolo fervidamente di cuore, specialmente i due giovani tebani, i quali poi, con l’animo pieno di speranza e contentezza, presero commiato e se ne partirono a cavallo verso Tebe, la loro città dalle antiche ed ampie mura.
EXPLICIT SECUNDA PARS.
SEQUITUR PARS TERCIA.
Mi si potrebbe accusare di negligenza, se ora tralasciassi di parlarvi della prodigalità con cui Teseo s’affaccendò a far costruire lo stadio, ma vi assicuro che non vi fu mai al mondo anfiteatro più nobile e maestoso. Misurava circa un miglio di circonferenza, con mura di macigno e fossato tutt’intorno, formando un circolo così perfetto, che pareva tracciato direttamente col compasso; le gradinate all’interno arrivavano a un’altezza di sessanta piedi, ed erano disposte in modo che chi fosse seduto davanti non impedisse agli altri dietro di vedere. Aveva una porta di marmo bianco rivolta verso oriente e un’altra, perfettamente simile, nella direzione opposta, ad occidente. Non vi fu insomma sulla terra edificio più grandioso, costruito in minor tempo, giacché quanti esperti di geometria o arte metrica, pittori o scultori vi fossero da quelle parti, tutti vennero mantenuti e stipendiati da Teseo per costruire e decorare l’anfiteatro. Egli volle che sulla porta ad oriente fosse innalzato un oratorio con un altare per la celebrazione di riti e sacrifici, in onore di Venere, la dea dell’amore; sopra quella ad oriente, ne volle un altro perfettamente simile, in memoria di Marte, e gli costò di sicuro un bel carro d’oro; infine a nord, dentro una piccola torre sul muro, ne fece edificare un terzo in onore della casta Diana, magnifico, tutto d’alabastro bianco e di rosso corallo, uno splendore di ricchezza. E ancora non v’ho descritto le splendide incisioni e le pitture, con l’espressione e l’aspetto delle figure che si vedevano in questi tre oratorii…
Innanzi tutto nel tempio di Venere si vedevano dipinti sulla parete, in un commovente quadro, i sonni interrotti e i freddi sospiri, le sacrosante lacrime e i lamenti, e gli atroci colpi di passione che soffrono in questa vita gli schiavi d’amore, e i giuramenti che suggellano i loro patti, e il Piacere, la Speranza, il Desiderio, l’Audacia, la Bellezza, la Gioventù, la Ruffianeria, la Ricchezza, la Civetteria, la Violenza, la Menzogna, l’Adulazione, la Prodigalità, l’Intrigo e la Gelosia con una gialla ghirlanda di calendule ed un cuculo appollaiato sulla mano, e poi banchetti, strumenti musicali, carole, danze, libidine e lusso: insomma, dipinte in ordine su quella parete, c’erano proprio tutte le consorterie d’amore, quelle che v’ho citato e vi citerò, e molte più di quante io possa menzionare. Da una parte, ad esempio, si vedeva dipinto tutto il monte Citerone, dove Venere ha la sua principale dimora, con tutto il giardino delle delizie. Nessuno era stato dimenticato: l’Ozio a guardia delle porte, Narciso, una volta famoso per la sua bellezza, Salomone con le sue follie, Ercole con la sua forza meravigliosa, Medea e Circe con i loro incantesimi, Turno con il suo fiero coraggio e il ricco Creso posto in catene. Essi stavano a rappresentare che non c’è né sapienza, né ricchezza, né bellezza, né astuzia, né forza, né coraggio, che possa in qualche modo competere con Venere, la quale da sola governa il mondo come vuole: tutta questa gente infatti era presa nei suoi lacci e non faceva che lamentarsi per il dolore. Potrei citarvi un esempio o due, ma là ce n’erano più di mille!
L’immagine di Venere, invece, in tutta la sua gloria, fluttuava nuda in mezzo al gran mare, e dall’ombelico in giù era tutta coperta da onde verdi e cristalline. Aveva nella mano destra una cetra, e sul capo, bellissima, una ghirlanda di rose fresche e profumate, mentre in alto volavano le sue colombe. Le stava dinanzi suo figlio Cupìdo, che aveva due ali alle spalle ed era cieco, come tutti sanno, e armato d’arco e di frecce lucide e acuminate.
Ma perché non parlarvi anche delle pitture che stavano sulla parete nel tempio di Marte, il potente dio rosso? Quella parete era dipinta tutta quanta come l’interno di quell’orrido edificio ch’è il gran tempio di Marte in Tracia, in quell’aspra regione gelida dove il dio ha la sua reggia.
Si vedeva innanzi tutto una foresta, abbandonata dagli uomini e dagli animali, con certi vecchi alberi nodosi e spogli dai tronchi mozzi e orribili, che parevano percorsi da brontolii e sibili come se un uragano ne schiantasse i rami. In basso, sotto il fianco d’un colle, sorgeva il tempio del bellicoso Marte, tutto d’acciaio brunito, con un’entrata lunga e stretta che metteva paura, dalla quale si scatenava una tempesta così violenta, che faceva tremare tutte le cancellate. Filtrava attraverso le porte una luce boreale, mentre sui muri non c’erano finestre dalle quali si scorgesse un lume. L’ingresso era tutto di puro diamante, rinsaldato per lungo e per traverso da durissime sbarre di ferro, e di ferro bruno lucente erano rinforzate anche tutte le colonne che, larghe come tinozze, sostenevano il tempio.
Subito si distingueva la cupa immagine del Tradimento con tutte le sue consorterie: l’Ira spietata, rossa come un tizzone; il tagliaborse e la pallida Paura; l’uomo che ride col pugnale sotto il mantello; la stalla in fiamme tra nuvoli neri; l’insidia del delitto dentro il letto; la Guerra aperta con le ferite sanguinanti; la bieca Rissa minacciosa con un coltello sporco di sangue. E c’era dappertutto un cupo frastuono, in quel luogo di dolore. Si vedeva poi il suicida, coi capelli intrisi nel sangue che gli sgorgava dal cuore; nella penombra il chiodo conficcato in una tempia; e la fredda morte che levava in alto la bocca spalancata. In mezzo al tempio sedeva, con espressione afflitta e sconsolata, la Sventura. Si vedevano inoltre la Pazzia ghignante di rabbia, l’Insurrezione armata, il Clamore e il furioso Oltraggio; in un cespuglio il cadavere con la gola spezzata; e poi mille, tutti uccisi di morte violenta; il tiranno col bottino estorto; la città distrutta dove non era rimasto nulla. Si vedevano navi bruciare danzando; il cacciatore sgozzato dagli orsi inferociti; la scrofa che divora il bimbo nella culla; il cuoco ustionato con tutto il suo lungo ramaiolo. Nulla riguardante il sinistro influsso di Marte era stato dimenticato, neanche il carrettiere travolto dal suo carro, lungo disteso sotto le ruote. C’erano anche, fra le schiere di Marte, il barbiere, il macellaio e il fabbro nell’atto di forgiare aguzze spade sull’incudine. E molto in alto, dipinta in una torre, si vedeva la Vittoria seduta in gran trionfo, con una spada tagliente che da un sottile filo doppio le pendeva sopra il capo.
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