V’era dipinta l’uccisione di Giulio (5), del grande Nerone e di Antonio: essi allora non erano ancora nemmeno nati, eppure già si vedeva, fedelmente raffigurata, la fine alla quale Marte li avrebbe destinati. Si poteva così apprendere da quel quadro, chiaramente come dalle stelle in cielo, chi sarebbe stato ucciso e chi invece sarebbe morto per amore. E basti quest’esempio d’antiche storie, perché, anche volendo, non potrei citarli tutti…

S’ergeva sopra un carro l’immagine di Marte, armato e come stravolto da un lampo di furore, e gli splendevano sul capo le figure di due stelle, chiamate nelle scritture l’una

“Puella” e l’altra “Rubeus”. (6) Ecco com’era raffigurato il dio delle armi. Gli stava ai piedi un lupo con gli occhi rossi, nell’atto di divorare un uomo: si trattava d’un episodio dipinto per celebrare Marte e la sua gloria, ed era veramente un fine lavoro di pennello.

Ma passiamo ora più in fretta che possiamo al tempio della casta Diana, per darne una rapida descrizione. Qua e là sulle pareti erano dipinte scene di caccia e di pudica ritrosia. Si vedeva la povera Callisto quando dalla furente Diana venne mutata di donna in orsa, e diventò poi la stella polare (così almeno stava dipinto, non so che dirvi; ma anche suo figlio (7) è una stella, chiunque può vederlo … ). C’era poi Dafne trasformata in albero: non Diana la dea, ma Dafne, la figlia di Peneo. E si vedeva Atteone mutato per vendetta in cervo, per avere guardato Diana quand’era nuda; si vedevano i suoi cani che, non avendolo riconosciuto, lo sbranavano vivo. Un po’ più oltre era dipinta Atalanta a caccia del cinghiale, e Meleagro, e molti altri ai quali Diana procurò affanni e pene; e si vedevano ancora altri meravigliosi episodi, che non sto qui a rammentare…

La dea stava seduta in alto sopra un cervo, con alcuni cagnolini intorno ai piedi; e sotto i piedi una luna crescente, ma ormai prossima a calare. La figura era vestita di verde azzurro, con l’arco in mano e le frecce nella faretra, ed aveva gli occhi rivolti in basso, verso il cupo regno di Plutone. Le stava innanzi una donna in doglie la quale, poiché il bambino tardava a nascere, pareva invocare pietosamente Lucina e dire: «Aiutami, tu che fra tutti puoi aiutarmi!». Sapeva veramente dipingere dal vivo chi aveva fatto questo quadro, e di fiorini doveva averne speso con tutti quei colori…

Lo stadio, dunque, ormai era pronto, e Teseo, che con tanta profusione di denaro aveva fatto ornare anfiteatro e templi, quando tutto fu finito, ne rimase enormemente soddisfatto. Ma tralasciamo per ora Teseo, e parliamo invece di Palemone e Arcita.

Per loro s’avvicinava ormai il giorno del ritorno, il giorno in cui, come vi ho detto, ciascuno avrebbe dovuto portare cento cavalieri per decidere in torneo la foro discussione: e infatti ciascuno, mantenendo i patti, con cento cavalieri armati di tutto punto e pronti alla battaglia, partì alla volta di Atene. C’era da credere veramente che da che mondo era mondo, dovunque Iddio avesse creato terra o mare, per un’impresa cavalleresca non si fosse mai adunata in così breve tempo una più nobile compagnia.

Chiunque infatti amasse la cavalleria e volesse in essa farsi un nome, aveva chiesto di poter far parte di quel torneo, e fortunato chi fu scelto! Sapete bene che se domani capitasse un’occasione simile, qualsiasi valido cavaliere, gagliardo e amante d’imprese amorose, inglese o di qualsiasi altra terra, vorrebbe a tutti i costi parteciparvi…

Combattere per una donna, “benedicite”, è pur sempre un gran bello spettacolo!

Questo almeno è ciò che pensavano quanti erano con Palemone. Venivano con lui cavalieri diversissimi: alcuni armati di gazzerini, piastroni e casacche leggere, altri d’un paio d’ampi cosciali; chi portava uno scudo di Prussia o una targa, e chi invece era ben riparato sulle gambe e impugnava una scure o una mazza d’acciaio… E proprio vero che non c’è moda nuova che non sia stata antica! (8) Ciascuno, insomma, s’era armato come aveva voluto. Accanto a Palemone si vedeva avanzare Licurgo in persona, il gran re di Tracia: barba nera e volto maschio; il bulbo degli occhi che in fronte mandava bagliori fra il giallo e il rosso, mentre lui si guardava attorno come un grifone, con ispidi peli sulle grosse sopracciglia; membra enormi, muscoli duri e forti; spalle larghe, braccia tonde e lunghe. Secondo il costume del suo paese, stava in piedi alto sopra un carro d’oro, con quattro tori bianchi alle tirelle. Sull’armatura portava, invece dell’insegna, una pelle d’orso, diventata col tempo nera come il carbone, con certi artigli gialli che luccicavano come l’oro. Aveva i capelli lunghi, pettinati indietro sulle spalle, lucidi e neri come piume di corvo; in testa portava una corona d’oro grossa come un braccio, di peso enorme, tempestata di pietre preziose, rubini e diamanti finissimi. Intorno al carro camminavano più di venti alani bianchi, grossi come manzi, adatti alla caccia del cervo e del leone, e lo seguivano stretti nella museruola e con l’anello d’oro del collare ben limato. Aveva al seguito cento baroni, perfettamente armati, dal cuore saldo e forte.

Insieme con Arcita, sta scritto nelle storie, simile a Marte il dio delle armi, veniva cavalcando il grande Emetrio, re dell’India, sopra un cavallo baio con bardature d’acciaio, coperto d’un drappo tutto d’oro. La sua cotta era di panno tartaro, guarnito di candide perle grosse e rotonde; la sella d’oro brunito appena battuto. Aveva le spalle ricoperte da un mantello tempestato di rossi rubini, scintillanti come il fuoco; i crespi capelli gli scendevano a cerchietti, biondi e brillanti come il sole. Aveva il naso dritto, gli occhi chiari color del cedro, le labbra tonde e la carnagione sanguigna, con alcune efelidi sparse sul viso, d’un colore fra il giallo e il nero, e lanciava sguardi da leone. Avrà avuto venticinque anni: la barba gli era incominciata a crescere ormai da tempo, e aveva una voce squillante come una tromba.