Portava in testa una ghirlanda di verde alloro, così fresca che a guardarla era una bellezza. Reggeva in mano, per suo diletto, un’aquila ammaestrata, bianca come un giglio. I cento cavalieri che aveva con sé erano tutti armati sfarzosamente e, tranne l’elmo, nella maniera più svariata: pensate infatti che riuniti in quella sua nobile brigata, per amore e spirito di cavalleria, c’erano duchi e conti e re. E attorno al condottiero correvano d’ogni parte leoni e leopardi addomesticati.
Così, una mattina presto di domenica, tutti quanti questi signori arrivarono ad Atene: entrati in città, smontarono da cavallo.
Il duca Teseo, da nobile cavaliere qual era, dopo che li ebbe condotti a palazzo ed ebbe a ciascuno dato alloggio secondo il grado, tanto li festeggiò e s’adoperò per metterli a loro agio e render loro tutti gli onori, che non si riesce neppure a immaginare come un altro, di qualunque rango fosse e per quanto ingegno avesse, avrebbe potuto far meglio. Non sto qui ora a rammentarvi le musiche, il servizio a tavola, gli splendidi doni offerti a tutti dal primo all’ultimo, i fastosi paramenti del palazzo di Teseo, chi occupasse a mensa i posti d’onore, quali fossero le più belle dame e quali danze le migliori, chi fra tutti sapesse meglio danzare e cantare, e chi parlar d’amore con maggior sentimento, quanti falchi fossero appollaiati fra le pergole o quanti levrieri accucciati sul pavimento… Credo piuttosto che sia meglio andare avanti. Ora viene il bello: ascoltatemi, vi prego.
La domenica notte, prima che spuntasse il giorno, appena Palemone sentì cantare l’allodola (e già cantava che mancavano due ore all’alba), Palemone, dicevo, col cuore pio e l’animo fiducioso, s’alzò per andare a rendere omaggio alla beata Citerea benigna, a Venere insomma, gloriosa e degna. E proprio nell’ora a lei sacra, si recò allo stadio dove sorgeva il tempio e, inginocchiandosi umilmente, con animo sommesso, così le disse:
«Bella fra le belle, madonna Venere, figlia di Giove e sposa di Vulcano, tu che allieti il monte Citerone, per l’amore che provasti verso Adone, abbi pietà delle mie cocenti lacrime amare e prendi a cuore la mia umile preghiera. Ah, non ho parole per esprimere le pene e i tormenti del mio inferno, il mio cuore non sa più reggere a tanto male ed io sono così confuso, che non posso chiederti altro che di avere misericordia, luminosa dea, tu che ben conosci i miei pensieri e vedi quanti affanni provo! Considera tutto questo ed abbi pietà della mia pena, ed io ti prometto che fedelmente mi metterò con tutte le mie forze al tuo servizio, e farò sempre guerra alla castità. Io te lo prometto, ma tu aiutami! Non m’importano le imprese militari, io non ti chiedo di darmi domani la vittoria, né l’onore di questo torneo o la vanagloria d’un premio d’armi strombazzato da tutte le parti: vorrei soltanto che Emilia fosse mia, per poi morire al tuo servizio. Trova tu il mezzo o la maniera: non m’importa se sia meglio ch’io vinca o perda, purché io possa avere la mia donna fra le braccia. Anche se Marte è il dio delle armi, la tua potenza è così grande su in cielo che, se tu vorrai, io avrò certamente l’amor mio. E allora onorerò per sempre il tuo tempio e, ogni volta che uscirò a cavallo o a piedi, verrò a far sacrifici e ad accendere il fuoco sul tuo altare. Se però tu non vuoi, dolce mia signora, ti prego allora, fa’ che Arcita domani con la sua lancia mi trafigga il cuore. Così, una volta che avrò perduto la vita, non mi preoccuperò più che Arcita se la conquisti e faccia sposa. Ecco, ho terminato la mia preghiera. Oh, dammi il mio amore, beata signora cara!»
Compiuta l’orazione, Palemone offrì subito il suo sacrificio, molto devotamente, secondo ogni regola. Ma non starò ora a descrivervi tutte le sue cerimonie. Alla fine l’immagine di Venere si mise a tremare e fece un segno, dal quale egli capì che per quel giorno la sua preghiera era stata accolta. Anche se in realtà il segno accennava a un ritardo, era chiaro che la grazia gli sarebbe stata concessa. E tutto contento, se ne tornò veloce alla sua stanza.
Tre ore dopo che Palemone era stato al tempio di Venere, si levò il sole, ed anche Emilia s’alzò, e svelta si recò al tempio di Diana. Andarono con lei anche alcune ancelle che avevano con sé pronto il fuoco, l’incenso, i lini e tutto l’occorrente per il sacrificio, perfino i corni pieni d’idromele, proprio tutto insomma. Mentre il tempio veniva avvolto nel fumo e ornato di bei drappi, Emilia, con animo puro, si lavò il corpo con acqua di fonte; come però compisse questo rito non m’azzardo a dire se non così genericamente: sarebbe ben bello spiegare tutto, tanto più che non si può accusare chi sia in buona fede, ma in questo caso forse è meglio tenersi alla larga… Col pettine le furono sciolti i luminosi capelli, e le fu posta in capo, con molta grazia, una ghirlanda di verde quercia. Lei allora accese due fuochi sull’altare e compì le sue pratiche (tutte cose che si possono leggere nella “Tebaide” di Stazio (9) e simili antichi libri), e mentre il fuoco ardeva, si rivolse devotamente a Diana, così, sentite:
«O casta dea dei verdi boschi, tu che vedi il cielo e la terra e il mare, regina del regno tetro e profondo di Plutone, dea delle vergini, che ormai da anni conosci il mio cuore: risparmiami la tua vendetta e la tua ira, per le quali ha già crudelmente sofferto Atteone. Casta dea, tu sai bene che desidero rimanere vergine per tutta la vita, e che non vorrò mai innamorarmi o sposarmi. Sono ancora, tu lo sai, della tua schiera, vergine: amo andare a caccia e camminare per boschi selvaggi, non fare la moglie e avere bambini. Io non voglio conoscere compagnia d’uomo.
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