Aiutami dunque, signora, tu che nella tua triplice forma (10) tutto puoi e conosci. E quanto a Palemone, che prova per me tanto amore, e ad Arcita, che mi ama così tormentosamente (ti chiedo soltanto questa grazia e basta), fa’ che tutti e due si trovino in pace e d’accordo, e distogli da me i loro cuori, così che tutto il loro ardente amore e il loro desiderio, tutto il loro affannoso tormento e il loro fuoco, si spengano o siano rivolti altrove. Se però non vuoi farmi questa grazia, o è destino ch’io debba proprio sposare uno di loro, mandami allora quello che più mi desidera. Guarda, purissima dea della castità, le amare lacrime che scendono sulle mie guance! Tu che sei vergine e nostra protettrice, proteggi e conserva la mia verginità, e allora io, finché vivrò, vergine rimarrò al tuo servizio.»

I fuochi ardevano chiari sull’altare, mentre Emilia se ne stava così in preghiera. Ma ad un tratto ebbe una strana visione: all’improvviso uno dei fuochi si spense e si riaccese, subito dopo si smorzò l’altro fuoco, e si spense completamente, e spegnendosi mandò un sibilo, come fanno certi tizzoni umidi quando bruciano, e all’estremità del tizzo si misero a scorrere numerose gocce che parevano sangue. Emilia ne fu così atterrita che per poco non si sentì impazzire, e si mise a gridare, non comprendendo che cosa tutto ciò volesse dire; e presa dal terrore gridava e piangeva da far pietà a sentirla.

All’improvviso apparve Diana con l’arco in mano, proprio come una cacciatrice, e disse:

«Calmati, figlia mia. Gli eccelsi dèi hanno stabilito, scritto e confermato con parole eterne, che tu dovrai sposare uno di quei due che per te soffrono tante pene e tanto dolore: ma chi fra loro non ti so dire. Addio, non posso rimanere più a lungo. Prima che tu te ne vada, te lo chiariranno i fuochi che ardono sul mio altare, quale sia l’esito di questa tua avventura d’amore». E a queste parole, le frecce nella faretra della dea si scossero risuonando, e lei s’allontanò e scomparve. Emilia, sbalordita, disse: «Ahimè, che cosa significa questo? O Diana, io mi metto sotto la tua protezione e a te mi affido!». E se ne tornò subito difilato a casa. E questo fu tutto, non rimane altro.

Infine, nell’ora consacrata a Marte, fu Arcita a recarsi al tempio di questo fiero dio, offrendo sacrifici secondo i riti d’usanza pagana. Con umile cuore e con profonda devozione, rivolse a Marte questa preghiera:

«Dio della forza, che nei freddi regni della Tracia sei onorato da signore, tu che hai in mano le redini di tutti gli eserciti e ne amministri le fortune come vuoi, accetta questo mio devoto sacrificio. Se la mia gioventù ha qualche merito, se la mia forza mi rende degno di stare al servizio della tua divinità come uno dei tuoi, allora, ti prego, abbi pietà della mia pena! Per quella tua pena, per quell’intenso fuoco che tutto ti arse di desiderio, quando godesti le smaglianti grazie di Venere bella e giovane e fresca, e la stringesti a tua voglia fra le braccia (quantunque una volta ti andasse male, quando Vulcano ti colse al laccio e ti sorprese mentre, ahimè, giacevi con sua moglie!…), per quel dolore che tu provasti al cuore, abbi pietà delle mie cocenti pene! Io sono giovane e inesperto, lo sai, e più colpito da amore di quanto non credo lo sia mai stata anima viva: e colei che mi fa tanto soffrire non si cura ch’io affondi o galleggi. So che le sue grazie devo conquistarmele sul campo con la forza; ma so anche che, senza il tuo aiuto e il tuo favore, la mia forza non serve a nulla. E allora domani nella mia battaglia aiutami, signore: per quel fuoco che una volta ti arse e che ora arde me, fa’ che domani io abbia la vittoria. A me la fatica e a te la gloria! Io poi onorerò il tuo sovrano tempio più d’ogni altro luogo, e mi eserciterò sempre più nel tuo duro mestiere pur di farti cosa gradita. Appenderò nel tempio l’insegna e tutte le armi della mia schiera e sempre, fino al giorno della mia morte, manterrò acceso davanti a te un fuoco perenne.

Anche questo voto ti faccio: la mia barba, i miei lunghi capelli spioventi, non mai sfiorati dalle forbici o dal rasoio, li sacrificherò a te e, finché vivrò, sarò sempre il tuo servo fedele. Signore, abbi pietà del mio acuto dolore, e concedimi la vittoria: non ti chiedo altro.»

Terminata la preghiera del forte guerriero, i cardini e i battenti che pendevano alla porta del tempio tremarono così violentemente, che lo stesso Arcita ne fu atterrito.

Divamparono i fuochi sull’altare, e tutto il tempio incominciò ad illuminarsi, mentre dal suolo s’andava spandendo un dolce profumo. Allora Arcita, levando in alto la mano, gettò, con altri riti, nuovo incenso sul fuoco. Alla fine l’armatura di Marte si mise a risuonare, e insieme a quel suono s’udì una voce, bassa e cupa, che mormorò:

«Vittoria!». E di ciò Arcita rese onore e gloria a Marte. E pieno di gioia e di speranza, se ne tornò in fretta al suo alloggio, lieto come un uccello quando splende il sole.

A questo punto, tra Venere, la dea dell’amore, e Marte, il fiero e potente dio delle armi, scoppiò su nel cielo una gran lite a causa delle promesse che ciascuno aveva fatto.

Invano Giove s’affannò a metter pace; alla fine dovette intervenire il pallido e freddo Saturno: costui sapeva tante vecchie storie e, con la sua antica esperienza, trovò ben presto il modo di conciliare le due parti.