Lo stesso accade ad uno dall’altra parte. Ogni tanto Teseo fa riposare i combattenti, perché si riprendano e bevano se vogliono. I due tebani si sono ormai scontrati ferendosi più d’una volta, e l’uno ha già smontato l’altro da cavallo: eppure, non c’è tigre nella valle di Galafa che, derubata del suo piccolo tigrotto, si scagli contro il cacciatore con la ferocia con cui la gelosia spinge ancora Arcita contro Palemone; e non c’è leone in Belmaria che, inseguito o reso furente dalla fame, sia tanto avido del sangue della preda, quanto lo è Palemone d’uccidere il suo avversario Arcita! (12) Colpi di gelosia mordono gli elmi, e il sangue sgorga rosso lungo i loro fianchi…
Ma, prima o poi, tutto a questo mondo finisce. Così, non era ancora tramontato il sole che il forte re Emetrio abbrancò Palemone, mentre lottava con Arcita, e gli affondò la spada nelle carni; ma lui non volle arrendersi, e in venti dovettero afferrarlo per trascinarlo fuori combattimento! Perfino il prode re Licurgo, accorso in aiuto di Palemone, venne gettato a terra, ed anche re Emetrio, pur con tutta la sua forza, venne scagliato di sella alla distanza d’una spada, tale fu il colpo che Palemone gli vibrò prima d’esser preso! Ma tutto invano: venne ugualmente portato allo steccato; a nulla gli servì il suo valore e, una volta preso, dovette per forza e secondo i patti rimaner fuori.
Chi mai fu più infelice del povero Palemone ora che non poteva più tornare a combattere?…
Ciò veduto, a quanti stavano ancora lottando Teseo gridò: «Oh, basta! E’ finita! Intendo essere un buon giudice, non un favoreggiatore. Emilia toccherà dunque al tebano Arcita, che per sua ventura ha lealmente vinto».
La folla esplose allora in un clamore di gioia, così potente e alto, che lo stadio parve dovesse crollare.
Che poteva fare lassù in cielo la bella Venere? Che poteva dire ormai? Che cosa restava alla regina dell’amore, non avendo ottenuto ciò che voleva, se non pianger tanto da far cadere le sue lacrime fin nello stadio? E intanto diceva: «Ah, che vergogna!».
Disse Saturno: «Figliola, sta’ tranquilla! E’ vero che Marte ha ottenuto quel che voleva e il suo cavaliere tutto ciò che aveva chiesto, ma, vedrai, anche tu sarai presto accontentata!».
I trombettieri che suonavano forte le trombe, gli araldi che urlavano e gridavano a gran voce, tutti erano pieni di contentezza per la gioia di messer Arcita. Ma basta col chiasso; sentite piuttosto che prodigio accadde improvvisamente.
Il fiero Arcita dunque, toltosi l’elmo per mostrare il volto, attraversava a cavallo la vasta arena guardando in alto verso Emilia, ed ella volgeva a lui il suo sguardo amico (le donne, si sa, fan presto ad adattarsi ai favori della fortuna…) dimostrando apertamente d’appartenere ormai tutta al suo cuore. Quand’ecco sbucar fuori dalla terra una furia infernale, mandata da Plutone su richiesta di Saturno: il cavallo [di Arcita] terrorizzato si mise a volteggiare e a far balzi e, così balzando, stramazzò su un lato: prima ancora che potesse rendersene conto, Arcita venne scagliato a capofitto a terra, dove giacque come morto, col petto squarciato dall’arcione, diventando ben presto nero come un carbone o un corvo, per il gran sangue che gli affluiva al viso. Venne subito raccolto e trasportato, fra il cordoglio generale, al palazzo di Teseo: qui venne estratto dall’armatura e deposto al più presto a letto, perché era ancora vivo e in sé e non faceva che invocare Emilia.
Il duca Teseo intanto, con tutto il suo seguito, se ne tornò entro la città di Atene in tutta tranquillità e con gran pompa. Benché fosse accaduta questa disgrazia, egli volle che tutti stessero allegri, tanto più che i medici dicevano che Arcita non correva alcun pericolo e che presto sarebbe guarito del suo male. E c’era poi un’altra cosa di cui esser contenti, che fra tutti nessuno era rimasto ucciso, anche se alcuni erano malamente feriti e uno in particolare aveva lo sterno spezzato da una lancia; ma per curarsi le ferite e rimettersi a posto le braccia rotte, ognuno aveva i suoi unguenti e i suoi amuleti, e tutti, pur di salvare la pelle, si bevevano ogni sorta di decotti e perfino acqua di salvia…
Il nobile duca dunque confortò e rese onori a ciascuno nel migliore dei modi, e intrattenne in festa per tutta la notte i baroni stranieri, com’era giusto, perché, trattandosi d’una giostra, d’un torneo, nessuno doveva ritenersi sconfitto. Non era una disfatta: cadere da cavallo non è che un incidente; essere poi condotto a viva forza nel recinto senz’arrendersi, abbrancato da venti cavalieri, un uomo solo, senza nessuno, trascinato per braccia, piedi e dita, col cavallo spinto via a mazzate da fanti, arcieri e servitori, non si può imputare a disonore e tanto meno si può chiamare vigliaccheria.
Perciò il duca Teseo, per stroncare ogni eventuale rancore o invidia, fece subito proclamare il pari valore dell’una e dell’altra schiera, essendo le due parti simili fra loro come due gemelli; e distribuì doni a tutti secondo il grado, e per tre giorni proseguì la festa. Alla fine scortò i re fuori città per un buon tratto di marcia, coi dovuti onori; e ciascuno se n’andò per la sua strada… addio, buon viaggio! Basta dunque col torneo: torniamo invece a Palemone e Arcita.
Gonfio era il petto d’Arcita, e il male gli cresceva sempre più intorno al cuore. Il sangue raggrumato, nonostante tutte le cure, corrompendosi gli rimaneva in corpo, e non c’erano né salassi, né ventose, né decotti d’erbe che potessero essergli d’aiuto: la forza espulsiva o animale, detta appunto perciò forza naturale, non riusciva a cacciar fuori ed espellere il veleno. Cominciarono ad enfiarsi i lobi polmonari, ed ogni muscolo, dal petto in giù, venne infestato di veleno e corruzione. Non c’erano emetici né lassativi che gli servissero a riacquistar vigore. E quando non può più far nulla la natura, addio medicina, portate pure il malato in chiesa! Arcita, insomma, doveva morire. Egli perciò mandò a chiamare Emilia e il suo caro cugino Palemone, e così disse, sentite:
«Ho un tale struggimento al cuore, che non posso neppur minimamente dirvi quanto io soffra, signora mia, ma vi amo, e a voi, sopra ogni altra creatura al mondo, affido la cura dell’anima mia: ormai la mia vita non può durare più a lungo… Ah, quanto dolore, quante atroci pene ho sofferto per voi, e per quanto tempo! Ed ora, la morte… Ahimè, Emilia mia, ahimè, com’è duro lasciarsi! Ahimè, regina del mio cuore! Ahimè, mia sposa, signora del mio cuore, unico scopo della mia vita! Cos’è mai questo mondo! Che cosa può volere l’uomo? Ora è felice col suo amore, ed ora eccolo nella fredda tomba, solo, senza nessuno. Addio, mia dolce nemica, Emilia mia! Prendetemi un poco fra le vostre braccia, per amor di Dio, e ascoltate ciò che sto per dirvi. A lungo ho portato odio e rancore contro questo mio cugino Palemone, per amor vostro e gelosia. Ma sia Giove guida all’anima mia, com’è vero che quanto a nobili qualità… vale a dire, lealtà, onore, cavalleria, saggezza, umiltà, rango e nobile casato, liberalità, tutte insomma le qualità del cavaliere… salvi Giove l’anima mia dicevo, non ho mai conosciuto al mondo nessuno più degno di essere amato di Palemone, il quale vi è devoto e sempre lo sarà per tutta la vita. Perciò, se un giorno doveste mai sposarvi, non dimenticate quel gentiluomo che è Palemone!»
Ciò detto, cominciò a mancargli la parola, e dai piedi fino al petto l’avvolse il freddo della morte, che ormai l’aveva vinto; anche alle braccia la forza venne meno e la vita a poco a poco scomparve.
1 comment