Allora lo spirito che albergava nel suo animo malato e dolorante cominciò a venir meno, e la morte gli arrivò al cuore. Gli si velarono gli occhi e gli mancò il respiro, ma volse ancora lo sguardo alla sua donna, e le sue ultime parole furono: «Pietà, Emilia!». E la sua anima cambiò dimora, e se ne andò… non vi saprei dire dove, perché io non ci sono mai stato. Perciò mi fermo, non sono un indovino; d’anime non me ne intendo, e non mi piace riferire le opinioni di coloro che descrivono dove esse abitano. Arcita intanto ormai è freddo, e Marte accompagni l’anima sua!
Torniamo ad Emilia piuttosto…
Emilia singhiozzava accanto a Palemone che gemeva, e Teseo dovette affrettarsi a sorreggere la cognata che stava per svenire e accompagnarla via dal morto. A che serve sciupare la giornata per dirvi come lei piangesse sera e mattina? In simili casi, quando cioè il loro uomo se ne va via per sempre, le donne si disperano tutte più o meno allo stesso modo, o ne fanno una malattia tale, che poi finiscono per andarsene anche loro.
Ma anche in tutta la città infiniti furono i pianti e i lamenti per la morte di questo tebano. Giovani e vecchi, uomini e bambini, tutti per lui piangevano: tanto pianto non vi fu nemmeno quando Ettore, appena ucciso, venne portato a Troia. Ah, quanti ne provarono pietà e si graffiarono le guance e si strapparono i capelli! «Perché sei morto?» gridavano le donne. «Tu eri ricco e avevi la tua Emilia!»
Teseo, poi, nessuno sarebbe riuscito a confortarlo se non fosse stato per il suo vecchio padre Egeo, il quale conosceva bene le vicende di questo mondo e ne aveva visti di mutamenti in vita sua, la gioia che s’alterna al dolore e il dolore alla gioia, e lo dimostrava con i suoi esempi e i suoi paragoni. «Come non è mai morto nessuno»
diceva «senza che almeno sia vissuto per qualche tempo su questa terra, così nessuno è mai vissuto al mondo senza dover prima o poi morire. Questo mondo non è che una via di passaggio piena di dolore, e noi siamo pellegrini che vengono e che vanno.
Soltanto la morte può metter fine ai nostri guai.» E tante altre cose diceva ancora a questo proposito, esortando tutti saggiamente alla rassegnazione.
Il duca Teseo si mise allora a pensare dove meglio si potesse seppellire il buon Arcita, nel modo più onorevole per il suo rango. Alla fine decise che proprio dove prima Arcita e Palemone s’erano combattuti per amore, in quel bosco tranquillo e verde dove per amore Arcita aveva provato tanti desideri e affanni e cocenti ardori, s’innalzasse ora il rogo per la celebrazione del rito funebre. Diede subito ordine d’abbattere e tagliare antiche querce e di disporle in file e in cataste, pronte per bruciare; e i suoi ufficiali, via di corsa al suo comando.
Teseo mandò poi a prendere una bara e la ricoperse tutta con un drappo d’oro, il più sontuoso che avesse; e della stessa stoffa rivestì Arcita: gli mise i guanti bianchi, una corona di verde alloro in testa, e in mano una spada lucida e aguzza. E lo depose, a volto scoperto, sulla bara, piangendo molto pietosamente. E affinché tutti potessero vedere il prode cavaliere, appena fu giorno lo fece trasportare nella gran sala, che già risuonava di grida e di lamenti.
Giunse allora, sconsolato, il tebano Palemone con barba arruffata e gl’ispidi capelli coperti di cenere e gli abiti neri cosparsi di lacrime; e, superando tutti nel pianto, giunse Emilia, la più dolente del corteo. Affinché la funzione riuscisse più solenne e degna, il duca Teseo fece condurre tre cavalli bardati d’acciaio scintillante e coperti delle armi di messer Arcita; su questi cavalli, ch’erano enormi e bianchi, fece montare tre uomini, dei quali uno recava lo scudo, un altro reggeva in mano la lancia e il terzo portava l’arco turco con faretra e bardature d’oro brunito. E tutti, cavalcando mestamente al passo, s’avviarono verso il bosco come ora sentirete.
Portavano a spalla la bara i più nobili fra i greci presenti, procedendo a passi lenti, con gli occhi umidi e rossi, per la via principale della città ch’era tutta parata di nero e ricoperta dello stesso colore fin sul selciato. Avanzava sul lato destro il vecchio Egeo, sull’altro il duca Teseo, portando in mano vasi d’oro finissimo, pieni di miele, latte, sangue e vino; veniva poi Palemone con un gran seguito, e dietro di lui la dolente Emilia che recava in mano, secondo gli usi del tempo, il fuoco per la celebrazione del rito funebre.
Fervevano ormai i preparativi per la funzione; la catasta con la sua verde cima toccava il cielo e s’estendeva in larghezza per venti braccia tanto si spandevano i rami. Prima vennero sistemati diversi carichi di strame… Ma ora non starò a raccontarvi come venisse innalzata quella catasta, e quali fossero i nomi degli alberi che vennero spaccati oltre la quercia, l’abete, la betulla, il tremolo, l’ontàno, il leccio, il pioppo, il salice, l’olmo, il platano, il frassino, il bosso, il castagno, il tiglio, l’alloro, l’acero, il pruno, il faggio, il nocciolo, il tasso e il còrniolo; né come le divinità corressero di qua e di là, private delle loro abitazioni dove vivevano in tranquillità e pace, ninfe, fauni e amadriadi; né come le bestie e tutti gli uccelli fuggissero atterriti quando il bosco fu abbattuto; né come il terreno stesso, non abituato a veder la luce del sole, fosse sgomento da tanto chiarore; né come il fuoco fosse attizzato prima con strame e poi con tronchi secchi spaccati in tre, e poi con legna verde e spezie, e poi con drappi d’oro e pietre preziose, e ghirlande pendule di molti fiori, mirra e incenso dal forte profumo; né come Arcita fra tutto ciò giacesse o quanta ricchezza ne circondasse il corpo; né come Emilia, secondo le usanze, accendesse il fuoco del servizio funebre, né come svenisse quando s’accese il fuoco, né ciò che disse o quale desiderio esprimesse; né quali gioielli fossero gettati allora nel fuoco, quando il fuoco ormai era alto e divampava; né come alcuni vi gettassero lo scudo, altri la lancia o le stesse vesti che indossavano, e coppe piene di vino, latte e sangue, che bruciavano come fossero legno; né come i Greci, in vasto corteo, tre volte cavalcassero attorno al fuoco partendo da sinistra con gran clamore, tre volte facendo risuonar le lance, o come tre volte le donne si mettessero a gridare; né come Emilia fosse condotta a casa; né come Arcita fosse ridotto a un po’ di cenere fredda; né come la veglia funebre continuasse tutta la notte.
Non starò a descrivervi come i Greci celebrassero i funebri ludi: chi nudo e unto d’olio meglio lottasse o meglio si comportasse in altre gare; né mi dilungherò su come, terminati i ludi, tutti se ne tornassero ad Atene… Ma è veramente ora ch’io venga al punto e metta fine a questo mio lungo racconto!
Col tempo e col passar degli anni cessarono dunque il lutto e le lacrime dei Greci. Fu allora mi pare, che si tenne ad Atene un parlamento per trattare di certe faccende e questioni, fra le quali l’alleanza con certi paesi e la completa sottomissione dei tebani. E
perciò il nobile Teseo mandò a chiamare il gentile Palemone, senza tuttavia avvertirlo di che si trattasse, ed egli, ancora in lutto e vestito di nero, accorse pronto al suo comando. Teseo intanto aveva fatto venire anche Emilia.
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