Quando tutti si furono seduti e intorno si fece silenzio, prima che dal suo saggio petto uscisse qualche parola, Teseo attese un poco volgendo intorno a sé lo sguardo, e mesto in volto sospirò silenziosamente, ed esprimendo finalmente il suo volere disse così:

«Quando il Motore Primo lassù in cielo creò all’inizio la bella catena d’amore, raggiunse nel suo nobile intento un grande risultato; ben sapeva quel che faceva e a qual fine operava: con quella bella catena d’amore egli univa insieme fuoco, aria, acqua e terra con legami indissolubili che non si sarebbero più potuti infrangere. Ebbene, quello stesso Principe e Motore ha stabilito un certo numero di giorni e una certa durata a tutto ciò che viene generato quaggiù in questo misero mondo: oltre quel limite non si può andare, anzi il numero di tali giorni può benissimo abbreviarsi! Non occorre che vi citi testi autorevoli, perché ciò è provato dall’esperienza. Ma lasciate ch’io spieghi meglio il mio pensiero. Dall’ordinamento di tutte le cose si capisce chiaramente che quel Motore è immutabile ed eterno; e si vede benissimo, a meno che non si sia stolti, che ogni parte proviene dal tutto, perché la natura non può aver avuto origine da una parte o porzione di cosa, ma da qualcosa di perfetto e stabile, degradando poi fino a diventar corruttibile. Egli perciò, nella sua saggia provvidenza, ha disposto che ogni specie e progressione di cosa duri per un certo tempo e non in eterno: che ciò sia vero si può comprendere e veder coi propri occhi. Guardate la quercia: dal momento in cui spunta è così lenta a crescere ed ha così lunga vita, ma alla fine anche quest’albero soccombe. Pensate alla dura pietra sotto i nostri piedi, sulla quale calchiamo i passi e camminiamo: anch’essa si consuma sul selciato; così il vasto fiume talvolta si dissecca improvvisamente, e si vedono città intere declinare e scomparire: tutto, come vedete, ha una fine. Lo stesso accade all’uomo e alla donna: prima o poi, in gioventù o in vecchiaia, tutti devono morire, re o schiavi che siano; chi nel suo letto, chi in fondo al mare, chi in aperta campagna. Non c’è scampo, tutto va in quella direzione, ed ogni cosa deve per forza perire. E chi determina tutto ciò se non Giove sovrano, principio e causa di tutte le cose, che tutto trasforma secondo il suo volere da cui tutto in effetti deriva? Non c’è creatura al mondo che possa opporsi a questo. Allora tanto vale far di necessità virtù, e accettare volentieri ciò che comunque non si può evitare e che prima o poi spetta a tutti. Pazzo è chi si lamenta o crede di potersi ribellare all’inevitabile! Per un uomo è più onorevole morire nel fiore della propria integrità, quand’è sicuro di poter lasciare un buon nome e di non aver recato ignominia a sé o all’amico; e l’amico dovrebbe rallegrarsi della sua morte, molto più ora che onorato esala l’ultimo respiro, che non più tardi quando il suo nome sarà reso sbiadito dal tempo e il suo valore dimenticato. Meglio dunque è morire quando migliore è la fama. Opporsi a ciò è pura ostinatezza. Perché dunque ci lamentiamo e siamo afflitti se il buon Arcita, quel fiore di cavaliere, seguendo virtù e onore se n’è andato da quest’orrida prigione che è la vita?

Perché suo cugino e la sua sposa si lamentano se colui che li amava sta meglio di loro?

Dovrebbe ancora di ciò ringraziarli? No, perdio, no di certo, perché essi offendono la sua anima e se stessi se ancora non riescono a modificare i loro sentimenti… Che posso dunque concludere da questo lungo discorso? Soltanto questo: che dopo tanto dolore dobbiamo ormai cercare d’esser contenti, ringraziando Giove per tutti i suoi doni. E

prima che di qui ce n’andiamo, propongo che di due dolori facciamo una sola gioia completa e duratura. Incominciamo dunque da dove il dolore è maggiore…» E rivoltosi a Emilia disse: «Sorella, a voi andrebbero tutto il mio plauso e l’approvazione unanime di questa mia corte, se il nobile Palemone, vostro cavaliere rimasto a voi devoto col cuore e con tutte le sue forze dal primo giorno che lo conosceste, ottenesse finalmente la grazia della pietà vostra e voi lo prendeste per vostro sposo e signore. Via, porgetemi la mano, vi prego, e mostrateci la vostra pietà di donna… E’ figlio d’un fratello di re, perdio! Ma se anche fosse soltanto un povero baccelliere, v’è rimasto devoto per tanti anni ed ha sofferto per voi tante avversità, che un po’ di considerazione dovrebbe meritarla, mi pare; e la pietà vera dovrebbe saper andare oltre le convenienze…». E al cavaliere Palemone disse: «Credo che per voi non occorrano sermoni per farvi acconsentire. Avvicinatevi, dunque, e prendete per mano la vostra donna».

Fra loro fu dunque stretto quel patto che si chiama sposalizio o matrimonio, davanti alla corte e a tutta la nobiltà. E così finalmente, fra allegria e canti, Palemone ottenne in moglie Emilia, e Dio creatore di quest’immenso mondo gli concedette quell’amore che davvero s’era guadagnato. E tutto andò a finir bene per Palemone, che visse in letizia, prosperità e salute: Emilia prese ad amarlo così teneramente e lui verso di lei fu così devoto, che fra loro non vi fu mai una parola di gelosia o altro cruccio. Così termina la storia di Palemone ed Emilia, e Dio salvi tutta questa bella compagnia! Amen.

Qui termina il Racconto del Cavaliere.

Note del Racconto del Cavaliere.

(*) “Il Racconto del Cavaliere”, liberamente adattato dal “Teseida” del Boccaccio, fu composto prima ancora che l’idea dei “Canterbury Tales” prendesse corpo, probabilmente tra il 1382 e il 1387.

Nota 1. Il Medioevo s’appropria dei grandi personaggi dell’antichità e, privo com’è del senso della prospettiva storica, li trasforma secondo i modi medievali. Così il mitico eroe Teseo diventa «duca».