Sentiamo un po’

voi, messer Monaco, se siete capace di contraccambiare il racconto del Cavaliere…».

Ma il Mugnaio, tutto pallido per il gran bere, a mala pena reggendosi a cavallo, senza togliersi né il cappuccio né il cappello e senza star dietro per deferenza a nessuno, si mise con voce da Pilato (1) a strepitare e a bestemmiare: «Per le braccia, il sangue e le ossa (2)… lo so io un nobile racconto adatto all’occasione, col quale contraccambiare ora quello del Cavaliere!».

Il nostro Oste, vedendo che aveva bevuto troppa birra, gli disse: «Aspetta, mio caro fratello Robin, prima ce ne racconterà uno, una persona più importante. Aspetta, facciamo le cose con ordine».

«No, per l’anima di Dio!» fece quello. «Adesso parlo io, altrimenti me ne vado per la mia strada!»

«E allora al diavolo, parla!» rispose il nostro Oste. «Sei proprio pazzo, hai perduto la testa …»

«Ecco, state tutti quanti a sentire!» disse il Mugnaio. «Ma prima voglio farvi una dichiarazione: io sono sbronzo, lo sento dalla voce; perciò, se parlo o m’esprimo male, prendetevela con la birra di Southwark, vi prego… Vi racconterò dunque la vita e la pia storia, d’un falegname e di sua moglie, e come uno studente facesse becco quell’artigiano.»

Lo rintuzzò il Fattore (3) dicendo: «Piantala con i tuoi discorsi! Lascia stare le tue sconcezze da ignorante ubriacone! Peccato e gran follia è ingiuriare o diffamare un uomo, trascinando nella stessa infamia donne sposate. Faresti meglio a parlare d’altro».

Il Mugnaio ubriaco ribatté subito e disse: «Mio caro fratello Osvaldo, solo chi non ha moglie è sicuro di non essere cornuto! Con ciò non dico che tu lo sia… d’ottime mogli ce ne son tante: contro una cattiva, mille ce ne sono sempre buone; e tu dovresti saperlo, se non sei matto. Perché allora te la prendi tanto col mio racconto? Anch’io, perdio, ho una moglie, come ce l’hai tu: eppure, per i buoi del mio aratro, non voglio mica prendermela più del necessario, fino al punto di credermi… uno di loro! Non voglio neppure pensarci. Un marito non deve ficcare il naso nei segreti di Dio, e neppure in quelli di sua moglie: purché trovi il suo ben di Dio, non c’è bisogno che stia a fare tante inchieste».

Che dire di più? Il Mugnaio non volle per nessun motivo moderare le parole, ma narrò il suo racconto da villano pari suo. Ed io credo che sia mio dovere ripeterlo qui tale e quale. Non vorrei però, per amor di Dio, che qualche gentil persona mi ritenesse in mala fede, perché i racconti devo proprio riferirli tutti belli o brutti che siano, altrimenti in parte falserei il mio scopo. Chi perciò non vuol sentire questo, volti pagina e ne scelga un altro: potrà trovarne ancora certi, lunghi o brevi a piacimento, che invece trattano di nobiltà, mora

le e religione. Non prendetevela dunque con me se scegliete male! Il Mugnaio era un villano, questo lo sapete, e così fra gli altri pure il Fattore, e tutt’e due raccontarono ribalderie. Siete avvisati, non date a me la colpa, e poi, via, non bisogna prendere uno scherzo sul serio!

RACCONTO DEL MUGNAIO (*).

Qui comincia il Racconto del Mugnaio.

Viveva una volta a Oxford un ricco gaglioffo che teneva ospiti a pensione e di mestiere faceva il falegname. Abitava appunto presso di lui un povero studente, il quale aveva fatto studi da letterato, ma aveva una gran passione per l’astrologia e sapeva con certi suoi calcoli dar risposta a qualsiasi quesito: gli si chiedesse in quali ore il tempo sarebbe stato asciutto e in quali bagnato, o gli si domandasse quel che sarebbe accaduto di tante cose che non sto ora a elencarvi.

Questo studente veniva chiamato Nicola il cortese. Conosceva infatti tutti i segreti dell’amore e del piacere, ma era così cauto e riservato, che a vederlo pareva timido come una verginella. Aveva in quella casa una camera tutta per sé, senza bisogno di spartirla con altri, pulitissima e adorna d’erbe odorose; egli stesso era profumato come un tubero di liquirizia o zenzero! Ben sistemati su alcune scansìe alla testa del letto aveva il suo “Almagesto” (4), con altri libri piccoli e grandi, il suo astrolabio, (5) a lui utilissimo, e le sue tavole numeriche. La cassapanca era ricoperta d’una stoffa rossa, e sopra c’era posato un bel salterio col quale alla sera egli cantava così dolcemente, che tutta la stanza ne risuonava: cantava l‘“Angelus ad virginem”, (6) e poi cantava l’inno del re… insomma, aveva mille benedizioni il suo allegro gargarozzo! E così si passava beatamente il tempo, quello studente, vivendo della sua retta e dell’aiuto di amici.

Il falegname aveva da poco sposato una donna che amava più della propria vita e che aveva diciott’anni. Gelosissimo, la teneva chiusa stretta in gabbia, perché lei era una giovane scavezzacollo, mentre lui era vecchio e temeva di restar cornuto. Balordo di mente com’era, non conosceva di sicuro Catone, il quale dice che bisogna sposarsi fra pari e che sposandosi bisogna tener conto delle proprie condizioni, giacché spesso gioventù e vecchiaia non si combinano. Ma ormai c’era cascato, e doveva perciò sopportare i propri guai, come fanno tutti.

Bella era la mogliettina, con il corpo snello e agile come un furetto.