L’unità dell’Europa medievale, garantita dalle consuetudini feudali, dalla cavalleria e dalla cristianità romana, si stava dunque spezzando, e l’Inghilterra era fra i primi paesi europei che andavano rapidamente acquistando coscienza della propria autonomia nazionale. L’antica lingua anglosassone, che dopo la conquista normanna (1066) aveva finito per diventare il gergo dei servi e dei villani, semplificata nella sua struttura e arricchita di parole latine e francesi, si stava ormai affermando come lingua comune di tutte le classi sociali. Edoardo Terzo e i suoi nobili, discendenti dei conquistatori normanni, parlavano ancora abitualmente francese, ma con la guerra dei cento anni anche nell’ambiente di corte il francese andò cadendo in disuso. Mentre il Wycliffe traduceva nel nuovo inglese la Bibbia, l’antica poesia allitterativa rinasceva nel “Piers Plowman” di William Langland e in raffinate composizioni quali “Pearl” e “Sir Gawayne”, che tuttavia rimanevano legate a una tradizione ormai isolata e senza avvenire. Il grande merito dei Chaucer fu quello di saper fondere in una nuova sintesi la cultura anglosassone con quella latino-normanna, dando all’Inghilterra il suo primo poema nazionale. La sua carriera poetica fu un costante atto di fede nell’unica lingua ch’egli considerasse veramente viva: la lingua di Londra, il suo dialetto natale. Ma non rimase chiuso entro i confini di tale dialetto. Tentò invece di arricchirlo, infondendovi la grazia e il vigore che, al di sopra del nascente nazionalismo, egli continuò ad avvertire nella poesia e nella cultura d’Europa.
Curioso e aperto non solo al passato rivelato dai libri, ma anche ai problemi del suo tempo, il Chaucer ebbe la fortuna di poter conoscere paesi stranieri e, nell’ambito della sua patria, tutte le classi sociali. Figlio di mercanti educato a corte, fu più volte ambasciatore in Francia, nelle Fiandre, in Italia, giudice di pace e deputato a Westminster, nonché funzionario delle gabelle nel porto di Londra, sopraintendente delle costruzioni reali e viceintendente forestale. Era dunque straordinariamente preparato a dipingere un quadro vivo e completo della sua epoca. La sua esperienza culturale era vasta quanto la sua esperienza umana: conosceva Virgilio, Ovidio e Stazio, Boezio e San Gerolamo, le versioni medievali dei miti classici e il complesso dottrinale della Chiesa, il “Roman de la Rose” e le cronache del Froissart, i trattati dei retori francesi e le opere dei grandi trecentisti italiani. Né i suoi interessi si limitavano alla letteratura, alla filosofia, alla storia, ma spaziavano nei campi dell’astronomia, della medicina, dell’alchimia (1).
Gli scrittori suoi contemporanei colsero tutti qualche aspetto della realtà del loro tempo: l’ignoto autore del “Sir Gawayne”, i riti del mondo cavalleresco; il Langland, lo sdegno della classe contadina di fronte agli abusi dei governanti e alla corruzione del clero; il Wycliffe, l’ardore religioso che avrebbe aperto la via al protestantesimo. Ma ognuno di essi aveva un obiettivo particolare, una passione polemica dominante, che toglieva alla loro visione chiarezza e lungimiranza. Lo sguardo del Chaucer, invece, era limpido, imparziale e aperto; sensibile al sarcasmo ma anche alla simpatia, alla grazia e all’umorismo. Unico fra i suoi contemporanei, egli pose la sua arte al di sopra di ogni polemica e di ogni particolarismo. Riuscì in tal modo a trasferire la realtà umana e sociale del suo tempo in una visione veramente «totale» nella sua essenzialità.
La società che i “Canterbury Tales” ci presentano è ancora suddivisa nelle categorie feudali del “bellatores” (coloro che combattono), degli “oratores” (coloro che pregano) e dei “laboratores” (coloro che lavorano), corrispondenti alle tre classi della cavalleria, del clero e del popolo comune. Ma queste tre classi sono riunite in un unico gruppo di pellegrini in viaggio verso Canterbury: la nazione inglese appare per la prima volta nella sua unità di razza e di cultura. Nobili e borghesi, chierici e agricoltori parlano insieme fraternamente e con i loro contatti modellano a un tempo la lingua e l’anima del giovane paese.
Fra questi pellegrini, gli echi della guerra, delle pestilenze e delle rivolte sembrano lontani: uomini e donne indossano abiti di solide stoffe, spesso adorni di pelliccia; le insegne degli artigiani sono di puro argento. Ma lo sguardo del poeta va oltre le loro apparenze di prodigalità e di sfarzo: e sotto il mondo dorato dei cavalieri vede la violenza, vede la grettezza e la volgarità sotto la nuova potenza del denaro, e sotto la religiosità degli ecclesiastici il dilagante materialismo. Eppure la sua non è la visione d’un misantropo: è invece la visione del primo grande umorista inglese, in cui lucidità e irriverenza, ma anche pietà, si fondono in un flusso costante d’ironia.
L’epopea del Chaucer non ha intonazioni eroiche o celebrative: ci presenta la verità senza convenzioni, la verità che il poeta ha visto per tanti anni nelle strade, nelle chiese e nei tuguri di Londra. E’ veramente la poesia d’un mondo nuovo; non è più il canto del menestrello, che traeva i suoi motivi da un bel mattino di maggio, da estenuate visioni di bionde dame e cortesi cavalieri: è la rappresentazione realistica degli uomini nella loro esistenza quotidiana.
Il Chaucer non inventa, non altera nulla; descrive gli uomini così come sono, come li ha visti, come generalmente si mostrano: deboli, volubili, libidinosi, qualche volta anche infelici, irresoluti e sentimentali, soprattutto incapaci di «sopportare troppa realtà», come dice T.S. Eliot (2). Stanno viaggiando verso la tomba-santuario di Canterbury, e cercano in tutti i modi di distrarsi e di dimenticarsene. In tutta la storia della letteratura, sono pochi gli scrittori che abbiano saputo cogliere il vero aspetto della condizione umana in modo così fedele e rappresentarlo in forma così sapiente.
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