Ridotto a puro schema, il poema (3) che forma i “Canterbury Tales” è molto semplice.

Una trentina di pellegrini, «gente d’ogni ceto», s’aduna, in una sera d’aprile, alla locanda del ‘Tabarro’ sulle rive del Tamigi, per poi recarsi alla famosa tomba di San Tommaso Becket a Canterbury. L’Oste propone che ciascuno, per ingannare il tedio del viaggio, racconti due novelle durante l’andata e due durante il ritorno. I pellegrini accettano la proposta, e l’allegra brigata si mette in cammino.

A tale schema il Chaucer ha saputo infondere un carattere pluridimensionale, fornendolo, oltre che di un senso letterale, anche di un senso morale e anagogico.

Mentre infatti egli adegua il linguaggio alle esigenze e all’indole di personaggi diversissimi, accogliendo con realismo e simpatia tutte le facce e le stranezze della vita, le virtù sublimi e le ipocrisie, d’altra parte non esclude la solenne intensità d’una grande concezione ideale, costituita dall’aperta sequenza del pellegrinaggio: un concreto pellegrinaggio a Canterbury, alla tomba del patrono nazionale; ma anche un itinerario morale, il viaggio dell’uomo sulla via della vita.

Se nel suo “pèlerinage de la vie humaine” (4) il Chaucer non raggiunge la visione ultraterrena di Dante, non per questo si ferma al valore letterale d’una descrizione naturalistica. Egli invece raccoglie in una sintesi (di cui il pellegrinaggio alla tomba di Canterbury è condizione e simbolo) la realtà tutta del tempo, nelle sue diverse stratificazioni e nelle sue contraddizioni interne, nell’intreccio delle sue ideologie e dei suoi ideali. E, pur lontano da ogni intenzione spiegatamente allegorica e da ogni senso del meraviglioso, dà ordine, forma e significato alla sua materia, componendola (secondo le convinzioni estetiche sue e dell’epoca) in un disegno preciso, valido anche in senso metafisico.

A differenza delle clausole conchiuse proprie dei poemi delle letterature classiche e romanze, tale disegno presenta un andamento aperto, sequenziale, lungo il quale il mondo interno di ciascun racconto si alterna con quello esterno della cosiddetta

«cornice»: (5) ora ci troviamo immersi nel tempo e nello spazio dell’universo particolare di ciascuna narrazione, ora siamo richiamati ad assistere al progredire del pellegrinaggio. All’interno di ciascun racconto possiamo anche dimenticarci della legge che governa l’insieme, ma all’esterno ci troviamo di fronte a una chiara linearità, tipica d’una struttura gotica.

Si tratta, com’è noto, d’una linearità intermittente: mentre infatti certi racconti sono uniti fra loro in un gruppo compatto, altri possiedono un legamento soltanto conclusivo oppure soltanto iniziale, sicché è impossibile stabilire con precisione a quale gruppo collegarli o da quale farli seguire. I “Canterbury Tales” si presentano così in dieci frammenti separati (6), ai quali, esclusi il primo e l’ultimo, il Chaucer non volle o non fece in tempo a dare un ordine definitivo. Ma per quanto tale ordine possa variare, la linea della struttura generale continua il suo moto: i racconti, con i loro intermezzi, segnano pur sempre le fasi e le stazioni d’un viaggio.

Di tale viaggio rimangono fermi i due punti essenziali: quello di partenza e quello d’arrivo. Da una parte (all’inizio del “Prologo generale”), l’immagine della primavera che, col suo senso di rigenerazione naturale e spirituale, sollecita il pellegrinaggio; dall’altra (alla fine dei lunghissimo “Racconto del Parroco”), quella del beato regno

«dove la gioia non è contrastata da alcun dolore o dispiacere, dove tutti i mali di questa presente vita son passati», seguita subito dal congedo del poeta pellegrino che, ormai idealmente incamminato verso l’eternità, condanna tutti i valori mondani raffigurati nelle proprie opere. Compresa fra questi due termini del più caratteristico “pathos”

medievale, la linearità strutturale dei “Canterbury Tales” viene ad essere investita da una seconda qualità tipicamente gotica: la polare tensione fra spirito e mondo, immanentismo e trascendenza, che informa l’arte e il pensiero del tempo. Tale tensione non si riflette soltanto nel contrasto fra l’atteggiamento laico o decisamente profano dei pellegrini e la motivazione sacra del viaggio, ma si traduce anche stilisticamente nei racconti, col loro crudo naturalismo da una parte, e le loro visioni così idealizzate, così trasfigurate fuori d’ogni tempo e d’ogni memoria dall’altra.

Linearità e tensione vengono preannunciate nel “Prologo generale” dall’ordine in cui si raggruppano e si susseguono i pellegrini, riassumendo tutte le classi della società inglese del Trecento. Subito dopo il gruppo della nobiltà (comprendente il Cavaliere, il giovane Scudiero suo figlio e il loro Arciere) vengono i rappresentanti del clero (la Priora con la Suora cappellana e tre preti, il Monaco e il Frate), poi quelli della borghesia (il Mercante, lo Studente di Oxford, il Commissario di Giustizia, l’Allodiere, i cinque cittadini appartenenti al gruppo livellatore d’una stessa confraternita col loro Cuoco, il Marinaio, il Medico e la Comare di Bath), seguiti da due personaggi umili e virtuosi (il Parroco di campagna e il Contadino suo fratello) e infine da un gruppo, nel quale il poeta include ironicamente anche se stesso, composto di plebei e di furfanti (il Mugnaio, l’Economo, il Fattore, il Cursore e l’Indulgenziere).

La linea che collega individuo a individuo e ciascun gruppo all’altro, in apparenza nitidissima, sottintende un complesso dinamismo interno. Seguendo una duplice scala di valori sociali e morali, essa ha un andamento decrescente, ma non rigidamente classificatorio: parte (col personaggio grave e idealizzato del Cavaliere) dal grado più alto nella scala sociale, elevato anche in quella morale; e termina (con l’ambigua figura dell’Indulgenziere) sul fondo della scala morale, e alquanto in basso anche in quella sociale.

In rapporto inverso con questo decrescere di valori è un tono satirico che, dapprima appena percettibile, va sempre più aumentando. Il gruppo della nobiltà ne rimane appena sfiorato (nella raffigurazione dello Scudiero, il tipico amatore della tradizione cortese), ma già i rappresentanti del clero ne sono chiaramente contrassegnati: una satira indulgente e sottile per l’impenetrabile ambiguità della Priora, scherzosa e fine per il Monaco disadatto alla vita conventuale, aspra e pungente per il Frate che commercia col peccato. Fra i rappresentanti del complesso gruppo della borghesia, nessuno sfugge ad almeno un tocco satirico o umoristico, anzi con la figura della Comare di Bath, la cui vasta esperienza mondana e sessuale stride apertamente con la motivazione religiosa del pellegrinaggio, l’umorismo raggiunge il suo apice. La satira tace completamente nella presentazione del Parroco e del Contadino, per poi colpire violenta e amara di sarcasmo i pellegrini del gruppo finale, uniti dal denominatore comune della frode e significativamente disposti secondo un ordine crescente di deformità fisica.

Lungi dall’essere meccanicamente manovrati dai fili di un abile artista, i personaggi che il “Prologo generale” ci presenta sono colti nella loro interezza: anima e corpo, natura e spirito; essi vivono autonomi nella china del loro temperamento, delle inflessioni del loro carattere; le loro qualità e i loro vizi non si irrigidiscono nella fissità del tipo, ma obbediscono alla confusione delle loro cause e al disordine delle loro contraddizioni.

Ciascuno diventa un ritratto tipo solo nella misura in cui l’uomo, considerato come individualità e come persona, possiede una sua verità morale e una sua dignità sociale.

La loro presentazione supera il doppio scoglio della personificazione allegorica e del trattato fisiognomico, e non si limita soltanto a illustrare uno spiraglio di vita, come faranno poi i naturalisti. La descrizione si addentra nei minimi particolari, ma in modo assai semplice e tranquillo; non pone accenti, non fa commenti: raggiunge il suo effetto attraverso un ordine organizzativo e compositivo interno, che inquadra in senso ideale la realtà intensamente osservata.