Dai ritratti del “Prologo generale” il Chaucer passa ai racconti non senza transizione, la quale è costituita da un abbozzo di commedia che si svolge lungo tutta la sequenza del pellegrinaggio. In essa i personaggi, dapprima presentati staticamente, si animano e parlano e agiscono, rivelando ulteriormente i loro interessi, le loro attitudini, spesso il loro antagonismo. Basta una parola, un’allusione vera o supposta, per agitarne gli animi: certi si adontano violentemente, altri ignorano qualsiasi provocazione o si chiudono nel più impenetrabile silenzio. In genere si appassionano per quello che ascoltano come per quello che vogliono narrare: ora si propongono di edificare con l’eloquenza di un apologo, ora di far ridere con una burla; a tratti si mostrano insofferenti e troncano la narrazione dei loro compagni.

Il ruolo principale dell’azione scenica è affidato all’Oste, la cui figura, nel “Prologo”

appena tratteggiata, domina con ridevole prosopopea quasi tutti gli episodi lungo la strada. Guida della compagnia e arbitro dei racconti, egli fa da intermediario fra il mondo concreto dei pellegrini e quello astratto delle loro idee e della loro fantasia. La sua è la voce varia e tuttavia sempre uguale del senso comune, che s’inserisce come elemento di continuità narrativa fra i contrasti e le stridule discordanze del pellegrinaggio, facendo da «coro» alle vicende dell’umanità in cammino senza vera coscienza del viaggio.

E’ il caso (e il senso di congruenza del poeta) a stabilire che il primo a narrare sia il Cavaliere, ma ben presto le voci sguaiate del Mugnaio, del Fattore e del Cuoco hanno il sopravvento, e la decorosità del procedimento iniziale viene irrimediabilmente spezzata. I buoni son messi a tacere. Si dilatano invece con presuntuosa insolenza i monologhi dei filistei: quello carico di torpida sensualità della Comare di Bath, quello denso d’untuosa abiezione dell’Indulgenziere.

Lungo la strada fangosa, mentre i mariti si lamentano delle mogli, e i padri dei figli, gli ecclesiastici s’insultano a vicenda o vengono messi in ludibrio. Perfino la solennità contegnosa delle due monache, risolta nella retorica fredda delle loro pie invocazioni, acquista un tono di contrappunto burlesco: quella della Priora, a contrasto con la volgarità dei Marinaio; quella della Seconda Monaca, col cieco materialismo del mondo alchimistico rappresentato dal Garzone del Canonico.

Anche il poeta partecipa, come pellegrino, alla commedia di questi esseri mediocri, sperduti in un mondo più completo di quello che essi conoscono: fra tutti è colui che peggio sappia narrare, e la stucchevole ballata su Ser Topazio viene bruscamente interrotta dall’Oste; si vendica allora con il lungo, pesantissimo dialogo di Melibeo e madonna Prudenza, sovraccarico di citazioni, ma finalmente i suoi compagni lo ascoltano senza protestare.

La mèta del pellegrinaggio non è che un simulacro lontano di cui tutti si dimenticano e al quale in effetti nessuno arriva mai. Alla fine, quando l’Oste cede il suo posto al povero Parroco di campagna, la città di Canterbury s’identifica con la Gerusalemme celeste e il traguardo del viaggio si sposta all’infinito. E’ l’ultimo atto della commedia chauceriana: ad esso seguirà un epilogo abnorme, in cui, mediante un’analisi insistente, aggressiva, freddamente schematica, ogni peccato del pellegrinaggio e del mondo verrà scomposto e annientato, ma cesserà con ciò anche ogni accadimento.

I racconti, che costituiscono per il Chaucer un mezzo per completare il ritratto dei suoi pellegrini, risalgono alle più diverse fonti del Medioevo (7) e sono stilisticamente assai vari. Il poeta si vale appunto della loro «mancanza di originalità» e della loro grande varietà stilistica per dare forza d’argomentazione obiettiva ai ragionamenti, talvolta anche goffi e semipoetici, dei suoi narratori. La sua posizione di poeta e insieme di pellegrino denota, verso i suoi compagni, un atteggiamento critico e comprensivo nello stesso tempo: l’ironia che contrappone i loro errori e i loro sforzi obliqui all’ideale linea retta del pellegrinaggio, è anche alla base dei loro racconti, ne costituisce l’etimo spirituale comune.

Tali racconti non sono dunque fine a se stessi, ma valgono in funzione dei pellegrini che li narrano, come espressione del loro temperamento o dei pregiudizi della loro classe. Il poeta, sostituendo al suo punto di vista il punto di vista dei suoi personaggi (e, in certi casi, di se stesso come personaggio), persegue un ideale di impersonalità drammatica che non aveva precedenti nella storia della narrativa. Egli si limita ad essere un semplice interprete, un cronista, che riferisce fedelmente le storie che ha sentito raccontare, le quali vanno valutate non solo per le loro intrinseche qualità narrative, a volte comiche, a volte penetranti e occasionalmente persino profonde, ma anche per la loro stravaganza e talvolta per la noia che ne deriva. Quando, ad esempio, vuole bollare la vacuità di certi cantari cavallereschi o di certa lugubre letteratura omiletica, non fa altro che farci ascoltare una ballata vacua e presuntuosa o una sequela di «tragedie»

lugubri e monotone.

Al Chaucer non interessa tanto stabilire fra narratore e racconto un rapporto rigorosamente naturalistico, quanto piuttosto un rapporto tonale: assegna agli intellettuali e ai nobili uno stile elevato, modulato secondo le più austere “artes rethoricae”, ricco di termini astratti e immaginosi, di schemi e formule indipendenti dai dati sensibili; ai plebei, un discorso in cui invece prevale l’esattezza materiale, una terminologia concreta, spoglia e minuta, immagini sensibili, intuitive e vissute. Ma non sempre le due tonalità vivono separate, anzi le loro combinazioni sono pressoché indefinite: nessun racconto di predominante ispirazione ideale rifugge da qualche tocco realistico, né d’altra parte v’è racconto d’intonazione realistica che non si componga d’una sua precisa struttura retorica.

Come i pellegrini riassumono la società inglese del Trecento, così i racconti ne riassumono la letteratura. Lo schema primitivo dell’opera era vastissimo, ciascuno dei trenta pellegrini essendosi impegnato a narrare due racconti all’andata e due al ritorno da Canterbury, il che avrebbe fatto un totale di centoventi. Ne rimangono invece ventiquattro, di cui due (quelli del Cuoco e dello Scudiero) sono soltanto frammenti. (8) Tuttavia, disposti dialetticamente lungo la linea sequenziale del pellegrinaggio, i racconti rimasti rappresentano quasi tutte le forme e i generi letterari: dal “fabliau”

umoristico e volgare, variamente elaborato nei racconti del Mugnaio, del Fattore, del Cuoco, del Cursore e del Marinaio, all‘“exemplum” moraleggiante, affidato a due fra i più immorali personaggi della compagnia, il Frate e l’Indulgenziere; dalle «tragedie»

sacre e secolari del Monaco alla storia del “senex amans” narrata dal Mercante, che non si sa bene che cosa sia, se farsa o commedia o “complainte” o elegia, così vario e modulato è il suo tono, così scandaloso e divertente ma anche triste è il compromesso con cui si chiude; dall’autobiografia del Garzone del Canonico alla favola dell’Economo; da sermone del Parroco al dialogo filosofico su Melibeo. Il romanzo cavalleresco vi è poi rappresentato in tutta la sua varietà di toni: da quello austero e quasi sublime del Cavaliere, a quello fantastico e sentimentale dello Scudiero, a quello ormai colorato di moralità borghese dell’Allodiere, a quello calcolatamente perverso della Comare che se ne serve per un’ulteriore conferma e illustrazione del proprio femminismo, a quello infine decisamente parodistico su Ser Topazio.