Dunque non stiamo qui in ozio a far la muffa… Signor Commissario di Giustizia, che Dio vi benedica, narrateci un racconto secondo i patti stabiliti! Siete voi che in questo caso avrete deciso di sottomettervi al mio verdetto. Toglietevi dunque l’obbligo della promessa; così almeno avrete fatto il vostro dovere.»
«Oste,» disse lui «son d’accordo, “par dieu”! non ho alcuna intenzione di mancarvi di parola! Ogni promessa è debito, e la mia promessa son disposto a mantenerla in tutto: meglio di così non so come dire. Chi detta legge agli altri, deve per giustizia sottostarvi egli medesimo: ecco la nostra massima. Certo, però, che ora qui sul momento non saprei narrarvi alcun proficuo racconto che già da tempo non sia stato narrato da Chaucer, (2) che pur conosce poco l’arte del verso e della rima, malgrado quel suo inglese che, come si sa, è quanto di meglio egli sappia fare… Ciò che non ha narrato in un libro, state pur sicuro, fratello caro, che l’avrà narrato in un altro. D’innamorati ne ha minuziosamente parlato più lui, di quanti Ovidio ne abbia appena citati nelle sue antichissime Epistole (3). Perché dovrei raccontarvi quel che lui vi ha già raccontato?…
Ha cominciato presto in gioventù con Ceice e Alcione, (4) e da allora non ha fatto che parlare di donne famose e dei loro amanti. Chi avesse voglia di sfogliare quel suo grosso volume intitolato “La leggenda delle Sante di Cupido”, (5) vi potrebbe trovare, ancora aperte, le profonde ferite di Lucrezia e di Tisbe di Babilonia; Didone trafitta dalla spada per colpa del traditore Enea; Fillide cambiata in albero per il suo Demofonte; il lamento di Deianira e di Ermione, d’Arianna e d’Isifile; l’isola deserta che sorge in mezzo al mare, da cui Leandro s’annegò per la sua Ero; le lacrime di Elena, il dolore di Briseide, e il tuo, Laodamia, e la tua crudeltà, regina Medea, che appendesti per il collo i tuoi figli, per vendicarti di Giasone che ti tradì in amore! O Ipermestra, Penelope e Alcesti, la vostra virtù egli loda fra le migliori!… Lui però non fa certo parola di quell’esempio scellerato di Canace, la quale s’accese di peccaminoso amore per il fratello (che disgusto fanno certe storie!), o di quell’episodio d’Apollonio di Tiro, orribile a leggersi, che narra come l’empio re Antioco togliesse la verginità a sua figlia, dopo averla schiaffata sul pavimento. (6) Ora, se neppure lui nelle sue prediche ha mai voluto descrivere simili aberrazioni contro natura, non mi metterò, se permettete, a raccontarle proprio io… Ma come farò adesso col mio racconto? Certo, mi dispiacerebbe far la fine di quelle muse, dette altrimenti Pieridi… sanno le
“Metamorfosi” che cosa voglio dire! (7) Però, insomma, non m’importa una fava d’andargli dietro con prugnole secche! lo parlo in prosa, e lascio a lui far rime.»
Ciò detto, tutto contegnoso, iniziò il suo racconto come ora sentirete.
Prologo
AL RACCONTO DEL COMMISSARIO DI GIUSTIZIA (8).
O povertà, esecrabile sventura, angariata dalla sete, dal freddo e dalla fame! Nel tuo cuore ti vergogni di chiedere aiuto, eppure, se non lo chiedi, il bisogno tanto ti esulcera, che alla fine ti costringe a mostrare anche le tue piaghe più nascoste! Tuo malgrado, devi per indigenza rubare o mendicare o comprare a prestito! Biasimi Cristo e, piena d’acredine, dici che non distribuisce equamente i beni di questo mondo. Accusi con malizia il tuo prossimo, sostenendo che tu non hai nulla, mentre lui ha tutto: «In fede mia» dici «giorno verrà che gli brucerà la coda fra i tizzoni, e allora dovrà render conto di non aver aiutato chi è nel bisogno!». Ascolta qual è la sentenza dei savi: «Meglio morire piuttosto che essere nell’indigenza!». Se sei povero, anche il tuo vicino ti disprezza e allora, addio rispetto! Impara quello che il savio ti dice: «I giorni dei poveri son tutti maledetti». Attento, perciò, a non trovarti nella loro condizione! Se sei povero, perfino tuo fratello ti odia e tutti i tuoi amici, ahimè, si dileguano!… Ma beati voi, mercanti facoltosi, voi sì che siete gente stimata e accorta! A riempire le vostre borse non è mai un misero doppio asso, ma il cinque e il sei, appena a dadi giocate con la sorte! Voi sì che a Natale potete ballare allegramente! Voi guadagnando esplorate terra e mare, e conoscete da esperti le condizioni di qualsiasi paese: siete voi i padri dei racconti d’avventure, sia di pace che di guerra!… Ora, infatti, di racconti sarei sprovvisto, se un mercante, partito ormai da anni, non me ne avesse appunto raccontato uno, ascoltate.
RACCONTO DEL COMMISSARIO DI GIUSTIZIA (*).
Qui comincia il Racconto del Commissario di Giustizia.
Viveva una volta in Siria una compagnia di ricchi negozianti, gente seria e onesta, che spediva ovunque spezierie, stoffe dorate e seta dalle splendide tinte. Tale era la bontà e la novità della loro merce, che tutti avevano piacere a trattare e a far scambi con loro.
Un bel giorno quei maestri mercanti decisero d’andare a Roma, non so se soltanto per affari o anche un po’ per loro svago. Il fatto è che quella volta, senza mandarvi altri, si recarono a Roma proprio loro di persona. E, dopo aver preso alloggio dove ritennero che fosse più conveniente per il loro scopo, s’intrattennero a piacer loro in quella città per un certo tempo.
E così accadde che a questi mercanti siriani giungesse, arricchita di giorno in giorno d’ogni particolare, l’eccellente fama della figlia dell’imperatore, (9) madonna Costanza.
La gente infatti non faceva che dire: «Il nostro romano imperatore (Dio lo protegga!) ha una figlia che, da che mondo è mondo, quanto a bontà e bellezza è senza pari! Dio la mantenga in gloria, e voglia un giorno che diventi regina dell’Europa intera! In lei è una bellezza eccelsa, senza orgoglio; una giovinezza senza immaturità o follie; in ogni sua azione, virtù è la sua guida, ed umiltà ha vinto in lei ogni superbia. Ella è lo specchio d’ogni cortesia; il suo cuore è il tempio stesso della pietà; la sua mano, generosa ministra di beneficenze».
E tutto ciò era vero, com’è vero Iddio. Ma torniamo all’argomento. Per farla breve, dunque, questi mercanti, dopo aver veduto anche loro quella beata fanciulla, ricaricarono le loro navi e se ne tornarono tranquillamente in Siria, dedicandosi come prima ai loro negozi e passandosela bene.
Si dava ora il caso che questi mercanti fossero in grazia di colui ch’era il sultano della Siria: ogni qualvolta tornavano da qualche paese straniero, egli, pieno d’affabile cortesia, dava loro un grande ricevimento, chiedendo e domandando con fervore notizie dei vari stati e di tutte le meraviglie che potevano aver visto o udito. Questa volta, fra le altre cose, essi gli parlarono di Costanza, ma con tale nobiltà di toni e così minuziosamente, che alla fine il sultano, provando già un immenso piacere semplicemente a figurarsela nella sua mente, non ebbe altro desiderio e aspirazione che di poterla amare per tutta la vita.
Purtroppo, però, in quel gran libro che gli uomini chiamano firmamento, dal momento della sua nascita era stato scritto che l’amore, ahimè, sarebbe stato la sua morte! Dio sa infatti che fra le stelle, per chi vi sappia leggere, sta scritta senza equivoci, più chiara che in uno specchio, la fine a cui ciascuno è destinato.
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