Raccontai al bravo Paddock una bella storia, secondo la quale il mio caro amico, un pezzo grosso, era stressato dal troppo lavoro e quindi desiderava godere il più assoluto riposo. Nessuno doveva sapere che era in casa mia, perché diversamente sarebbe stato assalito dalle comunicazioni del Segretario delle Indie e del Primo Ministro, e, allora, addio tranquillità.

Debbo riconoscere che Scudder, durante tutta la colazione, recitò la propria parte meravigliosamente. Egli fissò Paddock attraverso il suo monocolo, come avrebbe fatto un vero ufficiale inglese, l’interrogò sulla guerra contro i Boeri e mi inflisse una quantità di aneddoti su decine di camerati fantastici. Paddock non era mai arrivato a chiamarmi Sir, ma a Scudder diede questo titolo subito e continuamente, quasi che da ciò fosse dipesa la sua salute eterna.

John Buchan

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1993 - I Trentanove Scalini

Più tardi lasciai il mio ospite in compagnia d’un giornale e d’una scatola di sigari, e me ne andai alla City. Quando, all’ora del pranzo, tornai a casa, il ragazzo dell’ascensore mi accolse con un’aria veramente solenne.

— Brutto affare quello di stamane, signore. Il signore del numero 15 si è piantato un proiettile nella testa. L’hanno appena portato alla Morgue. Ora di sopra c’è la polizia.

Salii al numero 15 dove trovai due agenti e un commissario intenti a raccogliere indizi. Feci loro qualche domanda stupita ed essi s’affrettarono a mandarmi via. Mi fermai allora col giovanotto che aveva servito Scudder per rendermi conto di quel che pensasse dell’affare, ma mi convinsi subito che non aveva il più piccolo sospetto. Era un tipo melanconico, con una faccia da sacrestano; mezza corona valse però a consolarlo alquanto.

Il giorno dopo assistei all’inchiesta. Il direttore d’una casa editrice dichiarò che il defunto si era recato da lui per offrigli certa pasta per carta e che egli lo credeva al servizio di una azienda americana. La decisione del giurì fu che si trattava di suicidio dipendente da un eccesso di delirio febbrile; le poche cose del morto furono trasportate al Consolato degli Stati Uniti affinché il console ne disponesse per il meglio. Raccontai dettagliatamente la faccenda a Scudder che si divertì molto. Egli rimpiangeva di non aver potuto assistere all’inchiesta, perché, diceva, la cosa gli sarebbe parsa tanto grottesca quanto leggere la propria partecipazione funebre.

Durante i primi due giorni che trascorse in casa mia, egli fu molto tranquillo. Leggeva, fumava o scribacchiava abbondantemente sopra un suo taccuino. Ogni sera facevamo una partita a scacchi, nella quale io perdevo sistematicamente. Credo ch’egli tentasse di calmare i propri nervi, che erano stati sottoposti a una prova assai dura. Ma il terzo giorno mi accorsi che ricominciava a essere inquieto. Egli stese una lista dei giorni che mancavano per giungere al 15 giugno, e li segnò con la matita rossa l’uno dopo l’altro, aggiungendo a lato qualche nota stenografica. Più volte lo trovai immerso in cupe fantasticherie, con gli occhi perduti nel vuoto.

Questi periodi di meditazioni erano seguiti da un grande abbattimento.

Non tardai ad accorgermi ch’egli era di nuovo sulle spine. Al minimo rumore tendeva l’orecchio e mi chiedeva continuamente se ci si poteva fidare di Paddock.