Dal che il lettore può farsi un’idea dell’ingegnosità di quel popolo,  come dell’economia saggia  ed  accorta  di  quel  grande monarca.

 

4-  DESCRIZIONE  DI  MILDENDO,  CAPITALE Dl LILLIPUT,  E DEL PALAZZO

DELL’IMPERATORE.  L’AUTORE SI  INTRATTIENE  CON  IL  PRIMO  SEGRETARIO PARLANDO DEL GOVERNO DELLO STATO.  L’AUTORE OFFRE AIUTO ALL’IMPERATORE IN CASO DI GUERRA.

Ottenuta la libertà,  la prima richiesta che feci fu quella  di  poter vedere  la  capitale  di Mildendo.  L’imperatore me lo accordò subito, chiedendomi espressamente di non danneggiare né abitanti né  case.  Fu emesso  un  proclama  col  quale  si  avvertiva  il  popolo  della mia intenzione di visitare la città.  Questa è circondata da una  muraglia alta circa ottanta centimetri e larga una trentina, così che ci si può scarrozzare sopra benissimo con cocchio e cavalli,  ed è fiancheggiata da potenti torrioni ogni tre metri.

Scavalcai la grande porta  occidentale  e  cominciai  a  camminare  di sghembo  e  con  accortezza  per  le  strade  principali,  con il solo giubbetto addosso,  per paura di danneggiare i  tetti  e  le  grondaie delle   case   con  le  falde  della  giacca.   Camminai  con  estrema circospezione,  attento a non calpestare  chi  si  fosse  trovato  per strada,  malgrado  la  perentorietà  dell’ordinanza,  che  imponeva  a chiunque di non uscire,  se non  a  proprio  rischio  e  pericolo.  Le finestre  più  alte  e i tetti erano talmente affollati di spettatori, che non credo di aver mai visto un luogo altrettanto gremito. La città è un quadrato perfetto con il lato di centocinquanta metri  ed  oltre.  Le due strade maestre,  che incrociandosi formano i quattro quartieri, sono larghe un metro e mezzo,  mentre i vicoli e le strade minori  che vidi  passando,  senza  poterci  entrare,  sono  larghi  dai trenta ai quaranta centimetri. La città può contenere cinquecentomila anime.  Le case sono da tre a cinque piani, ben forniti negozi e mercati.  Il  palazzo imperiale è al centro della città,  all’incrocio delle vie maestre.  E’ circondato da un muro alto  sessanta  centimetri  che  si sviluppa a un sei metri di distanza. Da Sua Maestà ebbi il permesso di scavalcare  il  muro di cinta e poiché c’era spazio abbastanza,  mi fu possibile osservarlo da ogni lato. Il cortile esterno è un quadrato di dodici metri ed incorpora altri due cortili;  in quello più interno ci sono  gli appartamenti reali,  che desideravo proprio vedere,  sebbene fosse assai difficile,  perché i portali che immettevano da una piazza all’altra erano alti quaranta centimetri e larghi una ventina. Inoltre gli  edifici  della corte esterna erano alti almeno un metro e mezzo e non li potevo scavalcare senza  recare  danni  ingenti  al  complesso, sebbene le mura fossero di solide pietre squadrate e dello spessore di dodici centimetri. Eppure l’imperatore voleva ardentemente che potessi ammirare  il  suo magnifico palazzo,  ma questo non mi fu possibile se non in capo a tre giorni,  durante i quali tagliai alla base,  col mio coltello,  alcuni  degli  alberi  più  maestosi del parco reale che si trovava a un cento metri dalla città.  Con questi alberi costruii  due sgabelli  dell’altezza  di  un metro e abbastanza solidi da reggere il mio peso.  Avvertita una seconda volta  la  popolazione,  percorsi  di nuovo la città fino al palazzo con in mano gli sgabelli. Quando fui di fianco  alla  corte  esterna,  salii  su  uno  dei banchetti e tenendo l’altro in mano,  lo passai sopra il tetto deponendolo quindi,  con la massima  attenzione,  nello  spazio fra il primo e il secondo cortile, che ha una superficie di meno di mezzo metro.  Scavalcati  agevolmente gli  edifici  e  tirato    il banchetto per mezzo di una fune con un uncino, mi trovai nella corte interna, e allora,  distesomi di fianco, avvicinai  il viso alle finestre dei piani intermedi,  lasciate aperte appositamente,  e potei scorgere gli appartamenti più stupendi che  si possano  immaginare.  L’imperatrice  e  i  principini erano nelle loro stanze,   attorniati  dalle  personalità  del  seguito.   Sua   Maestà l’imperatrice  si  compiacque di sorridermi graziosamente,  tendendomi fuori della finestra la mano da baciare.

Ma non voglio anticipare al lettore descrizioni di questo  genere  che ho  riservato  per  un’opera  più  grande,  quasi  pronta ormai per la stampa,  contenente una descrizione generale di  questo  impero,  fino dalla  sua  fondazione,  attraverso una lunga stirpe di principi e con particolare riferimento alle sue guerre, alle istituzioni, alle leggi, alla cultura, alla religione, alle piante e agli animali, ai costumi e a tutti i modi di vivere che caratterizzano questa  terra,  senza  per questo tralasciare anche altre notizie curiose ed istruttive.  Per ora è mia intenzione riferire fatti e avvenimenti accaduti a quel popolo o a me stesso durante la permanenza di circa nove mesi in quell’impero.  Un  mattino,  quindici  giorni  dopo  la  mia  liberazione,  il  primo segretario  agli  affari  privati  (come è chiamato) Reldresal venne a trovarmi accompagnato da un solo servitore.  Lasciata la  carrozza  ad una  certa  distanza,  mi  chiese di riservargli un’udienza di un’ora.  Acconsentii subito,  sia per riguardo alla sua  posizione  e  ai  suoi meriti  personali,  sia  ricordando  i buoni servigi che mi aveva reso quando avevo rivolto le mie suppliche alla corte.  Dissi che mi  sarei disteso al suolo per ascoltarlo meglio,  ma lui preferì che lo tenessi in mano. Poi cominciò col complimentarsi per la mia liberazione, nella quale disse che qualche merito spettava pure  a  lui,  ma  che  dovevo ringraziare  come  stavano  andando le cose a palazzo,  altrimenti non l’avrei ottenuta tanto alla svelta.  “Perché,”  aggiunse,  “dietro  le condizioni  di prosperità come possono apparire ad occhi estranei,  il nostro paese è  tormentato  da  due  grossi  malanni:  all’interno  la violenza  delle  fazioni  e  all’esterno il pericolo d’invasione di un potente nemico. Per quanto riguarda il primo,  devi sapere che per più di  settanta lune questo impero è stato diviso da due partiti in lotta fra di loro, denominati “Tramecksan” e “Slamecksan”, dai tacchi alti e dai tacchi bassi che portano come loro segno di distinzione.  “Sebbene si sostenga che i tacchi alti siano più conformi allo spirito della nostra antica costituzione, sia come sia,  Sua Maestà ha imposto a  tutti  i funzionari dell’amministrazione governativa e degli uffici dipendenti dalla corona l’uso dei tacchi bassi,  come puoi vedere  coi tuoi stessi occhi.  Quelli di Sua Maestà sono addirittura più bassi di un “drurr” rispetto  a  quelli  degli  altri  cortigiani  (il  “drurr” corrisponde  alla quattordicesima parte di un centimetro).  Il rancore fra questi  due  partiti  si  è  inasprito  così  tanto,  che  i  suoi componenti si rifiutano di bere e di pranzare insieme e addirittura di rivolgersi  la  parola.  Riteniamo  che  i “Tramecksan” o “Tacchialti” siano maggiori di numero,  ma senza dubbio il potere è tutto  in  mano nostra.

“Temiamo tuttavia che Sua Maestà Imperiale, l’erede al trono, dimostri qualche simpatia per i tacchi alti; è comunque certo che porta uno dei due  tacchi  più  alto  dell’altro,  il  che  gli conferisce la tipica andatura dello zoppo. Ora, nel colmo di queste lotte intestine,  siamo minacciati  da  un’invasione  da  parte  degli  abitanti dell’isola di Blefuscu, l’altro grande impero dell’universo,  vasto e potente quanto quello  di  Sua  Maestà.   Per  quanto  riguarda,   infatti,   la  tua affermazione,  che ci sarebbero altri regni ed altri stati nel  mondo, abitati da esseri della tua grandezza, i nostri filosofi sono alquanto scettici  e  sono inclini a pensare che tu sia piovuto dalla Luna o da una stella.  E’ comunque certo che un centinaio di esseri del tuo peso basterebbero a distruggere in un batter d’occhio i prodotti agricoli e il  bestiame  dei  territori di Sua Maestà.  Inoltre non c’è il minimo accenno ad altri paesi, che non siano i grandi imperi di Blefuscu e di Lilliput, nelle storie delle seimila lune. Ma questi due potenti stati si sono impegnati in una reciproca ostinatissima guerra per  trentasei lune.  Ora ascolta quale ne fu l’occasione. E’ da tutti ammesso che il modo consueto di bere un uovo è di romperlo dalla punta larga;  ma  il nonno di Sua Maestà,  apprestandosi un giorno,  quando era bambino,  a bere un uovo e avendolo rotto secondo l’uso degli antichi,  si graffiò un  dito.  In  conseguenza  di ciò,  l’imperatore suo padre,  emanò un editto col quale si imponeva ai sudditi, con la minaccia di pene assai rigorose,  di rompere le uova dalla  parte  della  punta  stretta.  Il popolo reagì violentemente a questa legge,  tanto che, come ci narrano le storie,  ci furono sei rivoluzioni durante le quali  un  imperatore perse  la vita e un altro la corona.  A fomentare queste guerre civili furono sempre gli imperatori di Blefuscu,  presso  i  quali  trovavano rifugio gli esiliati,  non appena veniva soffocata una rivoluzione. Si calcola che non meno di undicimila persone abbiano preferito la morte, piuttosto che accettare di rompere le uova  dalla  punta  stretta.  Su questa controversia sono usciti centinaia di grossi volumi, anche se i libri  dei  Puntalarga  sono  stati  proibiti  da  lungo  tempo  e gli appartenenti a quel partito siano stati interdetti a termini di  legge da  ogni impiego.  Durante queste discordie gli imperatori di Blefuscu ci presentarono,  per mano dei loro ambasciatori,  numerose  proteste, accusandoci  di avere aperto un vero scisma religioso,  poiché avremmo offeso uno dei  dogmi  della  dottrina  del  nostro  profeta  Lustrog, espressa  nel  capitolo  cinquantaquattresimo del Brundrecal (che è il loro Corano).  Si ritiene tuttavia  che  questo  sia  stato  un  voler forzare  il  testo,  le  cui  parole  dicono  esattamente  che tutti i credenti dovranno rompere le uova dalla parte giusta. Ora, è mia umile opinione  che  decidere  della  parte  giusta  spetti  alla  coscienza individuale o in ultima istanza al supremo magistrato. Ma i Puntalarga esiliati  hanno ottenuto un così gran credito alla corte di Blefuscu e tanti aiuti materiali e morali dal loro partito  in  patria,  che  per trentasei  lune  si è combattuta una guerra sanguinosa tra i due paesi con alterne vittorie e durante le quali abbiamo perso quaranta galeoni da guerra e un numero assai più grande di vascelli minori,  con i loro equipaggi di marinai esperti e di soldati, per un totale di trentamila persone.  I  danni  arrecati al nemico si pensa che siano maggiori dei nostri. Esso tuttavia ha equipaggiato una flotta numerosa con la quale si prepara ad invaderci, e per questo Sua Maestà, confidando nella tua forza e nel tuo valore,  mi ha ordinato di  esporti  questo  stato  di cose.”

Pregai  il  segretario  di  farsi  latore a Sua Maestà dei miei devoti omaggi e di informarlo che non intendevo, come straniero, immischiarmi nelle loro faccende private,  ma che ero pronto a dare la mia vita per difendere la sua vita e il suo regno contro l’invasore.

 

5-  CON UNO STRATAGEMMA STRAORDINARIO L’AUTORE PREVIENE L’INVASIONE.

GLI VIENE CONFERITA UN’ALTA ONORIFICENZA. GLI AMBASCIATORI DI BLEFUSCU SOLLECITANO  LA  PACE.  PER  UNA  SVISTA  SCOPPIA  UN  INCENDIO  NEGLI APPARTAMENTI DELL’IMPERATRICE.  MEZZI USATI DALL’AUTORE PER SALVARE IL PALAZZO.

L’impero di Blefuscu è un’isola posta a nord-nord-est di Lilliput,  da cui  è  separata  da un canale largo ottocento metri.  Non l’avevo mai visto per cui, quando seppi di questo tentativo d’invasione, evitai di andare sulla costa, per timore che qualche vascello nemico mi vedesse, tanto più che non sapevano niente della mia esistenza.  Ogni  contatto fra  i  due  imperi  era  stato  severamente proibito,  pena la morte, durante la guerra,  inoltre il nostro imperatore aveva posto l’embargo su tutte le navi. Feci sapere a Sua Maestà di un mio piano, tramite il quale  mi  sarei  impadronito dell’intera flotta nemica che si trovava alla fonda del porto, pronta a salpare col primo vento favorevole.  Mi informai presso i più esperti marinai per conoscere  la  profondità del canale che avevano spesso scandagliato e seppi che nel mezzo, dove l’acqua  è  più  alta,  ha  una  profondità  di  settanta “glumgluff”, corrispondente a circa un paio di metri e che il resto non supera  mai la  cinquantina  di  glumgluff.  Mi  diressi  quindi  verso  la  costa nordorientale,   proprio  di  fronte  all’isola  di  Blefuscu  e  qui, accovacciatomi  dietro una collina,  presi il cannocchiale tascabile e potei inquadrare la flotta nemica in rada, composta di circa cinquanta navi da guerra e un gran numero di mercantili. Tornai a casa e mi feci preparare, forte di una precisa autorizzazione reale, quante più corde e barre di ferro fosse possibile trovare,  fra le più lunghe e le  più robuste.  Le  corde  erano  grosse  come spaghi e le barre lunghe come ferri da calza: così intrecciai tre corde per farne una più resistente e lo stesso feci con i ferri che attorcigliai tre alla volta, piegando la cima ad uncino.  Legati  cinquanta  uncini  ad  altrettante  corde, tornai  alla  costa  dove,  toltami  la giubba,  le calze e le scarpe, camminai in acqua per mezz’ora, col solo giubbetto di pelle,  prima di trovarmi  in  alto mare.  Guadai più in fretta che potevo e quando fui nel mezzo nuotai per una trentina di metri, finché toccai di nuovo. In meno di mezz’ora ero arrivato alla flotta.  I nemici furono così spaventati nel vedermi,  che si  gettarono  tutti quanti  fuori delle navi nuotando verso la riva,  dove si era radunata una folla di non meno di trentamila anime.  Allora tirai fuori i  miei arnesi e,  infilato un uncino al buco di prua di ogni vascello,  legai le corde tutte insieme all’estremità.  Mentre ero impegnato in  questa faccenda,  il  nemico  mi  scagliò addosso qualche migliaio di frecce, molte delle quali mi colpirono il volto e le mani, dandomi un fastidio dannato con il loro bruciore intollerabile e rallentando l’operazione.  Ma ero preoccupato soprattutto per i miei occhi di  cui  rischiavo  la perdita,  se non mi fosse venuta improvvisamente un’idea. Tra le altre cosucce  di  necessità  quotidiana,  portavo  in  una  tasca  segreta, sfuggita agli ispettori imperiali, come ho già detto sopra, un paio di occhiali.   Li  tirai  fuori;   poi,  inforcatili  il  più  saldamente possibile, potei continuare arditamente il mio lavoro a dispetto delle frecce nemiche, molte delle quali colpivano le lenti senza altro danno che farle saltellare sul naso.  Avevo ormai finito di  agganciare  gli uncini,  per  cui,  afferrato in mano il groppo di corde,  cominciai a tirare.  Non una  nave  si  muoveva,  perché  erano  tutte  saldamente ancorate,  e  così  la  parte  più temeraria dell’impresa era tutta da fare.  Fui costretto a lasciare la corda con gli  ami  innescati  alle prue  delle  navi  e mi misi a tagliare con risolutezza le corde delle ancore per mezzo di un temperino,  buscandomi più di  duecento  frecce sul  volto  e  sulle  mani.  Riafferrai la parte annodata con tutte le corde e mi tirai dietro agevolmente una cinquantina delle  più  grandi navi da guerra nemiche.

Quelli di Blefuscu,  che non avevano la più pallida idea di quello che avrei fatto, per un po’ rimasero sbalorditi. Mi avevano visto tagliare gli ormeggi pensando che volessi soltanto mandare le navi alla deriva, o farle sbattere una contro l’altra,  ma quando videro  l’intera  loro flotta sfilare in perfetto ordine dietro di me,  emisero un ululato di disperazione impossibile da descrivere  o  da  concepire.  Quando  fui fuori  tiro,  mi fermai un po’ per estrarre le frecce che mi pendevano ancora dal volto e dalle mani e per strofinarmi con quell’unguento che mi avevano dato il giorno del mio arrivo,  come  già  sapete.  Poi  mi tolsi gli occhiali e,  aspettato per un’ora circa l’arrivo della bassa marea,  guadai il canale col mio traino,  arrivando sano  e  salvo  al porto reale di Lilliput.

L’imperatore,  in  compagnia  della  corte,  aspettava  in piedi sulla spiaggia la soluzione di questa grande impresa.  Vide venire avanti le navi  in  ampio  schieramento come una mezzaluna,  ma non me,  che ero immerso nell’acqua fino al  petto.  Quando  fui  in  mezzo  al  canale l’angoscia  della  corte  si  fece ancora più cupa,  perché l’acqua mi arrivava al collo e all’imperatore non rimaneva che credermi in  fondo al mare e vedere nella sovrastante flotta intenzioni ostili. Ma presto si ripresero tutti quanti dalla paura,  perché il fondale gradualmente saliva e in breve tempo fui a portata di voce. Allora, alzando in alto il groppo di corde a cui  erano  legate  le  navi  che  mi  portavo  a rimorchio,  gridai  a  gran  voce:  “Evviva  il  potente imperatore di Lilliput!”.  Questo grande monarca mi accolse sulla riva con tutti gli elogi possibili e immaginabili e mi nominò “nardac” all’istante, che è la maggior onorificenza che si conferisce in quel paese.  Sua  Maestà avrebbe voluto che trovassi il modo di trasportare nel suo porto tutto quanto restava della  flotta  nemica.  E’  così  smisurata l’ambizione  dei  regnanti,  che  lui  pensava  addirittura di ridurre l’intero impero di Blefuscu a provincia e di affidarne il  governo  ad un  viceré,  di  sterminare gli esuli Puntalarga e di costringere quel popolo a rompere le uova dalla punta stretta: allora sarebbe diventato l’unico monarca del mondo intero.  Feci ogni sforzo per dissuaderlo da questo   disegno,   portando  ragioni  squisitamente  politiche  e  di giustizia,  dichiarando infine energicamente  che  non  mi  sarei  mai prestato a ridurre in schiavitù un popolo libero e coraggioso; tanto è vero che,  quando la faccenda venne discussa in consiglio,  i ministri più saggi si schierarono dalla mia parte.  Questa  mia   esplicita,   coraggiosa   dichiarazione   era   talmente contrastante con i disegni politici di Sua Maestà che non me l’avrebbe mai  perdonata;  ne  parlò  infatti,  in  maniera  assai  subdola,  in consiglio, durante il quale mi hanno riferito che alcuni dei più saggi si  dimostrarono,   con  il  loro  silenzio,   solidali  con  la   mia affermazione; mentre altri, che mi erano rimasti sempre ostili, non si astennero  certo  dal  pronunciare giudizi che,  in maniera indiretta, alludevano a me.  Da quel momento nacque  un’intesa  segreta  fra  Sua Maestà  e un gruppo di ministri contro di me,  intesa che si rivelò di lì a due mesi  e  fu  sul  punto  di  causare  la  mia  rovina.  Tanto insignificanti  sono  ritenuti  i  servigi  resi  ai regnanti,  quando vengono contrapposti al rifiuto di compiacere alle loro passioni!  Tre settimane dopo la mia impresa clamorosa,  arrivò da  Blefuscu  una solenne  missione  diplomatica col compito di presentare umili offerte di pace;  questa infatti venne ratificata in breve tempo a  condizioni vantaggiosissime   per  il  nostro  imperatore.   Non  starò  certo  a importunare il lettore con il resoconto di questa ambasceria;  basterà dire  che  era  composta  di  sei ambasciatori con un seguito di circa cinquecento persone e che fecero un  ingresso  maestoso,  degno  della grandezza del loro monarca e dell’importanza della missione. Quando si furono  concluse le trattative di pace,  per le quali mi ero adoperato favorevolmente con tutto il peso che avevo,  o che pensavo  ancora  di avere  a  corte,  i  plenipotenziari  di Blefuscu,  ai quali era stato riferito in segreto quanto li avevo aiutati,  chiesero formalmente  di farmi visita. Cominciarono con il complimentarsi per il mio lavoro e per  la  mia generosità,  poi mi invitarono nel loro paese in nome del loro imperatore e infine mi chiesero di dare loro qualche saggio della mia forza sovrumana, di cui avevano sentito dire cose incredibili.  Li accontentai  subito,  ma  non  voglio annoiare il lettore entrando nei particolari.

Dopo avere intrattenuto per qualche tempo i plenipotenziari,  con loro infinito  piacere  e  con  non  minore meraviglia,  li pregai di voler presentare i miei più umili rispetti all’imperatore, la fama delle cui virtù aveva destato tanta ammirazione in tutto il  mondo  e  alla  cui augusta  persona  avrei reso omaggio prima di ritornare in patria.  Fu così che,  la prima volta che mi capitò di recarmi dal nostro Sovrano, gli  chiesi il permesso di fare visita al monarca di Blefuscu.  Lui me lo concesse,  anche se,  come potei constastare senza ombra di dubbio, con  gelida  cortesia.  Non  riuscii  a  capire  la  ragione  di  tale atteggiamento,  finché una certa persona mi sussurrò all’orecchio  che Flimnap   e   Bolgolam   avevano  presentato  quell’incontro  fra  gli ambasciatori e me come un segno di infedeltà. Eppure mai nel mio cuore c’era stato posto per un simile sentimento e fu questa la prima  volta che cominciai a farmi un’opinione dubbia di corti e di ministri.  Va  sottolineato  il  fatto  che  questi ambasciatori mi parlarono per mezzo  di  un  interprete,  poiché  le  lingue  di  questi  due  stati differiscono  l’una  dall’altra non meno di due lingue europee,  senza contare poi che ognuno dei  due  paesi  va  fiero  delle  sue  origini antiche, della bellezza e della espressività della propria lingua, con ostentato  disprezzo  per  quella  del  vicino.  Il nostro imperatore, comunque,  avvalendosi della supremazia acquisita con la cattura delle navi,   li   costrinse   a  presentare  le  credenziali  adottando  il lillipuziano come lingua diplomatica ufficiale. Devo inoltre osservare che,  sia il continuo traffico commerciale fra i  due  regni,  sia  il flusso  ininterrotto  e  reciproco  di  esiliati dall’uno o dall’altro paese, sia l’abitudine di entrambe le nazioni di mandare i rampolli di buona famiglia nel paese accanto per vedere il mondo e imparare usi  e costumi  degli  uomini,  facevano  sì che quasi tutte le persone di un certo grado, oltre alla totalità dei mercanti e dei marinai, sapessero sostenere una conversazione in entrambe le lingue.  Ebbi l’opportunità di accorgermene quando,  alcune settimane dopo, mi recai a fare visita all’imperatore di Blefuscu,  un atto che,  al  colmo  delle  sciagure, provocate dalla malvagità dei miei nemici, fu per me una gran fortuna, come riferirò a suo tempo.

Il  lettore  si  ricorda  forse che quando firmai quei famosi articoli grazie ai quali potei ottenere la libertà,  ce n’erano alcuni  che  mi dispiacquero parecchio perché li ritenevo troppo umilianti, ma davanti ai   quali  mi  ero  dovuto  sottomettere  a  causa  della  situazione intollerabile.  Diventato ormai un “nardac”,  che è la più alta carica in  quell’impero,  quelle limitazioni sembravano degradanti per la mia dignità;  tanto è vero che lo stesso imperatore,  per amore di verità, non ne aveva fatto più menzione.  Eppure fu di lì a poco che mi capitò l’occasione di rendere a Sua Maestà quello che, almeno allora, ritenni un servigio straordinario.  A mezzanotte fui svegliato di  soprassalto dalle  urla  di  centinaia  di  persone che si accalcavano alla porta; frastornato e preso da un vago senso di terrore,  li sentivo  ripetere di  continuo  la parola “burglum”,  finché alcuni funzionari di corte, apertosi un varco fra la folla, mi scongiurarono di recarmi a palazzo, dove gli appartamenti della regina erano in preda alle fiamme, causate dalla sbadataggine di una damigella addormentatasi mentre  leggeva  un romanzo.

Mi  alzai in un baleno;  poi,  essendo già stato impartito l’ordine di sgomberare la strada,  per altro illuminata dal chiarore di una  notte di luna, riuscii a correre a Palazzo senza calpestare nessuno. Avevano già  appoggiato  le  scale  ai  muri  ed erano tutti muniti di secchi, grossi come ditali,  coi quali  quei  poveretti  si  ingegnavano  come potevano  a  rifornirmi  di acqua che,  oltretutto,  si trovava ad una certa distanza: ma le fiamme erano così impetuose che  i  loro  sforzi servivano  a ben poco.  Avrei potuto soffocarle con la mia giacca,  ma nella fretta l’avevo lasciata a casa ed ero  uscito  con  il  semplice panciotto  di  cuoio.  Sembrava  un  caso  disperato e senza dubbio il palazzo sarebbe stato divorato dalle fiamme fino alle  fondamenta,  se la  presenza di spirito,  che è raramente il mio forte,  non mi avesse suggerito un’idea luminosa.  La sera  prima  avevo  bevuto  una  certa quantità  di quel vino deliziosissimo chiamato “Glimigrim”,  dotato di proprietà diuretiche (e che i blefuscudiani chiamano “Flunec”, sebbene il nostro sia migliore).