Fortunatamente non mi ero liberato nemmeno di una goccia e poi, sia per il calore delle fiamme, sia per il gran daffare nel domarle, avevo addosso un tale stimolo di urinare, che lo feci con tanta abbondanza e con getti così precisi, da estinguere il fuoco in tre minuti. Il resto di quel nobile palazzo, la cui erezione era costata tanti anni di lavoro, rimase così indenne. Era ormai l’alba e me ne tornai a casa, senza attendere per congratularmi con l’imperatore, perché, sebbene avessi compiuto un servigio importantissimo, non ero sicuro di come Sua Maestà se la sarebbe presa per il modo in cui l’avevo eseguito. Fra le leggi statutarie del regno si fa infatti assoluto divieto ad ogni persona, di qualsiasi ceto, di far acqua entro i recinti del palazzo. Mi dette un certo sollievo un messaggio di Sua Maestà nel quale mi assicurava che avrebbe ordinato all’alta corte di giustizia di concedermi un condono formale; ma in realtà non riuscii mai ad ottenerlo; anzi mi fu detto in segreto che l’imperatrice, inorridita per il mio gesto, si era ritirata dall’altro lato della corte, decisa a lasciar andare in rovina quei quartieri, e che in presenza dei suoi intimi non nascondeva propositi di vendetta.
6 -CULTURA, LEGGI E COSTUMI DEGLI ABITANTI Dl LILLIPUT. L’EDUCAZIONE DEI FIGLI. LE ABITUDINI DELL’AUTORE IN QUELLA TERRA. COME RIABILITO’ UNA GRANDE DAMA.
Sebbene voglia stendere un trattato a parte per descrivere questo impero, tuttavia mi fa piacere nel frattempo darne un’idea generale al lettore. Tutti gli animali, le piante e gli alberi di questa terra sono in proporzione con l’altezza degli uomini che è, come abbiamo visto, meno di quindici centimetri; così per esempio i cavalli e i buoi più alti vanno da dieci a quindici centimetri, le pecore sono alte quattro centimetri, o giù di lì, le oche son come passeri e via di seguito nella scala discendente, fino ad arrivare agli esseri più piccoli che erano quasi invisibili ai miei occhi. La natura aveva del pari dotato la vista dei lillipuziani in conformità del loro mondo; questa era infatti acutissima ma incapace di vedere lontano. Tanto per dare un’idea della loro vista a distanza ravvicinata, ricorderò di essermi beato a vedere un cuoco farcire un’allodola più piccola di una mosca e una ragazzina cucire con un ago invisibile e un altrettanto invisibile filo. Gli alberi più alti, che si trovano nel grande parco reale, raggiungono i due metri e riuscivo a malapena a toccarne la cima. Vengono poi, in proporzione, tutte le altre piante, che lascio all’immaginazione del lettore.
Non ho granché da dire per il momento della loro cultura, che aveva conosciuto per anni una grande fioritura in tutti i settori. Ma la loro scrittura è certamente singolare poiché non corre da sinistra a destra come per gli europei, né da destra a sinistra come per gli arabi, né dall’alto al basso come per i cinesi, né dal basso verso l’alto come per i cascagi, bensì di traverso, da un angolo all’altro del foglio, come fanno le signore inglesi. Seppelliscono i loro morti a testa all’ingiù perché credono che dopo dodicimila lune risorgeranno e durante quel periodo la terra, che loro ritengono piatta, si sarà rovesciata completamente, così che quelli, al momento della resurrezione dei corpi, saranno belli e pronti su due piedi. I saggi ammettono l’assurdità di questa dottrina, eppure si continua a praticarla per compiacere alle credenze del volgo. Certe leggi e certi costumi di questo impero sono davvero singolari, tanto che sarei tentato di giustificarle, se non facessero a pugni con quelle del mio paese. C’è solo da sperare che vengano rispettate con la stessa solerzia. La prima, alla quale mi riferisco, riguarda le spie: ogni delitto contro lo stato viene punito con estrema severità; tuttavia, se l’accusato dimostra durante il processo la sua innocenza, l’accusatore viene immediatamente condannato ad una morte infamante, mentre le sue terre e i suoi beni costituiranno una ricompensa quattro volte maggiore per la perdita di tempo, per il pericolo corso, per il rigore della prigione, per le spese di difesa sostenute dall’accusato. Se i beni del delatore sono insufficienti, supplirà la Corona. L’imperatore in persona gli conferirà in pubblico un segno della sua stima e la sua innocenza verrà proclamata dai banditori nei rioni della città.
Considerano la frode un delitto più grave del furto e succede raramente che non venga punita con la morte; infatti loro ritengono che, se la cura e la vigilanza esercitate da un comune cervello possono preservare i beni personali dalle unghie dei ladri, non ci sono chiavistelli con i quali l’uomo comune riuscirà a difendersi da un’astuzia diabolica. Inoltre, poiché è necessario un rapporto continuo di compravendita a credito, là dove si permettesse o si indulgesse all’esercizio della frode, o non ci fossero leggi per punirla, l’onesto ci rimetterebbe sempre le penne a tutto vantaggio del manigoldo. Mi ricordo che, quando tentai di intercedere presso il re in favore di uno sciagurato che si era appropriato di una somma di denaro destinata al suo padrone, involandosi con essa, avendogli fatto osservare, allo scopo di attenuare la colpa, che in fondo si trattava solo di abuso di fiducia, sembrò orrendo a Sua Maestà che portassi a difesa di quell’uomo la peggiore delle aggravanti; a me rimase ben poco da replicare, oltre il luogo comune che dice “paese che vai, usanze che trovi”, rosso di vergogna come ero. Ricompense e punizioni costituiscono l’asse intorno al quale gira la ruota dello stato, eppure non mi è capitato mai di vedere questa massima messa in pratica come a Lilliput. Chiunque è in grado di esibire prove sufficienti di settantatre lune filate di rispetto alle leggi statali, ha diritto a privilegi, variabili a seconda della condizione sociale, insieme ad una certa somma di denaro da prelevare da un fondo destinato a questo fine; contemporaneamente gli viene conferito il titolo di “Snilpall” o “Legale” da aggiungere al suo nome, senza che tuttavia possa essere trasmesso ai figli. Sembrò loro un limite gravissimo della nostra legislazione, il fatto che da noi le leggi infliggono soltanto pene. Per questo l’immagine della giustizia che viene raffigurata nei loro tribunali ha sei occhi, due davanti, due di dietro ed uno per lato, a significare la sua estrema circospezione, ed inoltre una borsa di monete d’oro, aperta, nella mano destra e una spada nel fodero nella sinistra, per dimostrare che essa è più incline alla ricompensa che alla punizione. Quando scelgono il personale per ogni tipo di impiego, considerano la moralità dell’individuo molto di più della sua abilità; e poiché il governo è necessario all’umanità, sono convinti che un comune cervello sia idoneo ad un compito come ad un altro, e che la Provvidenza non si è sognata mai di fare del governo un’attività misteriosa, comprensibile ad un ristretto numero di intelligenze superiori, di cui non ne nascono più di due o tre in un secolo. Essi invece pensano che tutti sono dotati di sincerità, giustizia, temperanza e simili; virtù, queste, la cui osservanza, unita all’esperienza e alle buone intenzioni, saranno sufficienti a rendere idoneo un individuo al servizio del suo paese, eccetto quei casi nei quali sia richiesto uno specifico corso di studi. Ma non c’è dote intellettuale straordinaria che possa rimpiazzare la mancanza di virtù etiche, e gli impieghi non possono essere affidati alle mani di simili individui. In ogni caso gli errori commessi per ignoranza, in assenza di cattiva intenzione, non saranno mai tanto funesti per il bene pubblico come quelli commessi da uno, disposto per natura alla corruzione, che in più sappia manovrare abilmente per difendere e moltiplicare i suoi raggiri.
In modo simile si negano cariche pubbliche a quanti non credono alla Divina Provvidenza; ed infatti, visto che i sovrani si ritengono inviati della Provvidenza, non c’è cosa più assurda per i lillipuziani di un principe che affida incarichi a persone che disconoscono quell’autorità in nome della quale egli agisce. Nel dare un sunto di queste e di altre leggi che seguiranno, sappia bene il lettore che mi riferisco alle istituzioni primitive di quel popolo e non allo scandalosissimo stato in cui si è ridotto, per la natura degenerata dell’uomo. Per quanto concerne le vergognose abitudini di acquistare cariche danzando sulla corda, o posti di prestigio saltando sopra i bastoni o strisciandovi sotto, faccio osservare al lettore che furono introdotte per la prima volta dal nonno dell’attuale sovrano e che si sono sviluppate fino all’attuale rigoglio grazie al progressivo aumento delle lotte faziose. L’ingratitudine è per loro un delitto capitale, così come si legge che sia stato anche in altri paesi. Loro infatti ragionano in questo modo: se uno rende il male a chi gli ha fatto del bene, come potrà il resto del genere umano, che non ha fatto nulla, considerarlo un fratello? Per questo un simile uomo non è degno di vivere. Le loro idee riguardi ai doveri dei genitori e dei figli sono l’opposto delle nostre. Dato che l’unione dei sessi si fonda sulla grande legge della natura per propagare e continuare la specie, i lillipuziani uomini e donne vanno insieme né più né meno che come gli altri animali, seguendo l’istinto della concupiscenza; l’affetto per i figli deriva quindi dallo stesso principio naturale. Per questo non sfiora loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso il padre per averlo generato o verso la madre per averlo messo al mondo; la qual cosa, considerate le miserie della vita, non è, in sé, né un beneficio né un atto di volontà dei genitori, in tutt’altre faccende affaccendati durante i loro incontri amorosi. Per questi e simili ragionamenti, è loro opinione che i genitori siano gli ultimi fra tutti a meritare la fiducia di una buona educazione dei figli. In ogni città hanno nidi d’infanzia pubblici, dove tutti i genitori, ad eccezione dei contadini, devono inviare i figli di entrambi i sessi all’età di venti lune, quando si pensa che abbiano acquisito una qualche propensione all’obbedienza, per essere allevati ed educati. Ci sono scuole di vario genere, adatte alle diverse condizioni dei due sessi, con insegnanti che addestrano i ragazzi a quel tipo di vita che si confà ai loro genitori, sviluppando nel contempo le loro capacità e inclinazioni. Darò prima qualche notizia degli asili per maschi e quindi di quelli per femmine.
Quelli per maschi di famiglie nobili o elevate sono dotati di maestri saggi e severi affiancati da uno stuolo di assistenti. Cibo e vestiario sono semplici e privi di ricercatezza. Gli allievi vengono allevati nel rispetto dei principi dell’onore, della giustizia, del coraggio, della modestia, della clemenza, della religione e dell’amore per la propria terra; inoltre si affida loro qualche cosa da fare in ogni ora del giorno, ad eccezione di quando mangiano e dormono. Questi sono d’altra parte intervalli assai brevi, ai quali andranno aggiunte due ore di svago, impiegate nel compiere esercizi fisici. Fino all’età di quattro anni ci sono degli uomini a vestirli, dopo di che, malgrado la loro elevata condizione sociale, devono farlo da soli; le donne che svolgono il loro servizio nelle scuole, tutte sui cinquanta anni, compiono soltanto i servizi più umili. Ai bambini non è concesso di conversare con la servitù e si divertono in gruppi più o meno numerosi, sempre sotto gli occhi di un maestro o del suo assistente. In questo modo si impedisce che ricevano le deleterie influenze del vizio e della follia, alle quali sono sottoposti i nostri bambini. I genitori possono far visita ai figli solo due volte all’anno e per non più di un’ora; è loro concesso di baciarli solo all’arrivo e alla partenza, mentre il maestro, presente a questi incontri, impedirà loro di parlare sottovoce al bambino, di usare vezzeggiativi nei suoi confronti, di portargli regali, giocattoli, dolciumi e roba simile. La retta per il mantenimento e l’educazione dei figli è a carico dei genitori e, se non viene pagata, se ne delega la riscossione agli esattori imperiali.
Gli asili per i figli della classe media, di mercanti, commercianti e artigiani sono organizzati, in proporzione, secondo lo stesso schema; i ragazzi avviati a qualche mestiere, vanno a fare gli apprendisti all’età di sette anni, mentre i figli dei notabili continuano a studiare fino a quindici anni, età che corrisponde a ventuno da noi, ma la vita di collegio si fa meno rigida durante gli ultimi tre anni. Negli asili femminili le bambine di nobile famiglia vengono educate come i maschi, con la sola differenza che vengono vestite da inservienti del loro sesso, sempre al cospetto del maestro e del suo assistente, finché non siano in grado di farlo da sole all’età di cinque anni. Se qualcuna di queste inservienti cede alla tentazione di raccontare alle bambine storie paurose o fiabesche, oppure certi pettegolezzi che le cameriere comunemente divulgano, vengono frustate in pubblico per tre volte, imprigionate per un anno e confinate vita natural durante nelle più squallide contrade del paese. In questo modo si insegna alle fanciulle, come ai maschi, a disprezzare la codardia e la frivolezza e a non curarsi degli ornamenti della persona che non rientrino nella normale decenza e pulizia. Non ho notato nessuna differenza nella educazione dei due sessi, ad esclusione degli esercizi fisici che, per le ragazze, sono meno pesanti e di alcune nozioni di economia domestica impartite loro; riducendo sensibilmente la cultura generale, la loro massima è infatti che, fra gente di rango, una moglie deve essere sempre una saggia e piacevole compagna, dal momento che la sua giovinezza non dura in eterno. Quando raggiungono i dodici anni, che è l’età del matrimonio per loro, tornano a casa, mentre ai vivissimi ringraziamenti dei genitori e dei tutori, nei confronti degli insegnanti, si unisce il pianto dirotto delle ragazze che danno l’addio alle compagne. Negli asili per bambine di più umile rango si avviano le convittrici ai lavori che appropriati al loro sesso e alla loro condizione. Quelle che fanno le apprendiste, escono a sette anni, le altre restano fino a undici.
Le famiglie modeste che tengono i figli in questi istituti, oltre alla retta annuale che per loro è assai bassa, devono fornire al dispensiere una piccola parte dei loro guadagni mensili come sovvenzione al mantenimento della loro prole; per questo le spese dei genitori sono limitate dalla legge. Infatti i lillipuziani ritengono che non ci sia niente di più egoistico degli atti di quella gente che, per soddisfare il proprio piacere, mette al mondo dei figli, lasciando agli altri l’onere di mantenerli. Le persone di condizione elevata si impegnano a destinare una certa somma ad ogni figlio, a seconda del rango, e queste somme vengono sempre amministrate con grande senso di economia e giudizio.
I contadini si tengono i figli a casa e siccome il loro compito è di coltivare la terra, la loro educazione ha poca importanza per il bene pubblico; i vecchi e i malati sono mantenuti in ospizio, ed infatti l’accattonaggio è un’attività sconosciuta in questo paese. A questo punto non dispiacerà forse, al curioso lettore, avere qualche notizia riguardo le faccende domestiche e le abitudini da me seguite durante il mio soggiorno di nove mesi e tredici giorni in questa contrada. Spinto dalla necessità e dal bernoccolo per la meccanica, mi costruii un tavolo ed una sedia abbastanza comodi con gli alberi più grandi del parco reale. Duecento sarte vennero chiamate per confezionarmi camicie, lenzuola e tovaglie, tutte del tipo di stoffa più robusto e ruvido che fu possibile trovare. Malgrado ciò, furono costrette a sovrapporne più strati, perché il tipo più pesante è molto più sottile della nostra tela batista. La loro tela è alta sette o otto centimetri e una pezza ha la lunghezza di un metro. Le sarte mi presero le misure mentre stavo sdraiato per terra, l’una montandomi sul collo e l’altra a mezza gamba, tirando i capi di una grossa fune, mentre una terza ne misurava la lunghezza con un regolo di due centimetri e mezzo. Poi fu loro sufficiente misurarmi la circonferenza del pollice destro perché, in base ai loro calcoli matematici, il doppio di questa corrisponde a quella del polso, e via di seguito per quelle del collo e del torace. Poi, seguendo il modello della mia vecchia camicia che distesi per terra, spianandola da ogni lato, mi servirono a pennello. Furono impiegati anche trecento sarti per farmi gli abiti, ma essi avevano un altro modo di prendere le misure. Mi fecero mettere in ginocchio ed uno di loro, salito su di una scala che mi arrivava al collo, lasciò cadere un filo a piombo dall’altezza del colletto fino al suolo, calcolando in questo modo l’esatta lunghezza della giacca; petto e braccia li misurai da solo. Quando furono pronti, i miei abiti, la cui confezione venne eseguita in casa mia, perché anche la più spaziosa delle loro dimore sarebbe stata insufficiente a contenerli, sembravano uno di quei lavori di rattoppo che fanno le nostre donne in Inghilterra, con l’unica differenza che nel mio caso, le toppe erano tutte dello stesso colore. Per prepararmi il pranzo c’erano trecento cuochi, alloggiati in comode casette erette tutto intorno alla mia dimora, dove vivevano con le loro famiglie, con il compito di prepararmi ognuno due piatti. Prendevo in mano venti servitori e li posavo sulla tavola, mentre altri cento aspettavano al suolo, alcuni con vassoi di carne, altri con barilotti di vino e di liquori sulle spalle. I venti di sopra, ad un mio cenno, issavano quella roba con un sistema di carrucole assai ingegnoso, come noi solleviamo le brocche d’acqua dai pozzi. Un piatto di carne costituiva per me un boccone e un barilotto di vino una buona sorsata. Il loro montone non è buono il nostro, ma la carne di bue è eccellente. Una volta mi diedero una lombata così grande, che dovetti farla in tre pezzi, ma è un caso molto raro. I camerieri rimanevano a bocca aperta vedendomi mangiare tutta quella roba, ossa comprese, come da noi si fa con le allodole. In un boccone facevo fuori un’oca o un tacchino e vi assicuro che i loro sono molto migliori dei nostri. Dei volatili più piccoli ne infilavo venti o trenta sulla punta del mio coltello.
Un giorno Sua Maestà, informato delle mie abitudini, volle avere il piacere, come ebbe la compiacenza di chiamarlo, di pranzare con me, insieme alla regale consorte e i principi reali d’ambo i sessi. Quando vennero, li sistemai con i loro seggi regali sul tavolo, proprio di fronte a me con le guardie al loro fianco. Era presente anche il gran tesoriere Flimnap con la bacchetta bianca, ed ebbi modo di notare che mi guardava con un che di astioso; ma lì per lì non gli diedi gran peso, tutto preso a divorare il doppio di quello che ero solito fare, per rendere onore alla mia amata patria e per riempire d’ammirazione la corte. Ho ragione di credere che questa visita privata di Sua Maestà desse a Flimnap l’occasione di mettermi in cattiva luce agli occhi del suo signore. Quel ministro, in segreto, mi era stato sempre ostile, sebbene apparentemente ostentasse nei miei confronti maniere assai più cordiali di quanto il suo carattere scontroso gli permettesse abitualmente di fare. Egli illustrò dunque a Sua Maestà le condizioni grame in cui versavano le finanze e gli disse che si trovava costretto ad emettere prestiti ad interesse altissimo, che le cedole dello Stato non circolavano al di sotto del nove per cento, che ero costato a Sua Maestà più di un milione e mezzo di “sprugs” (che sono le loro monete auree più grosse, simili a pagliuzze) e che insomma sarebbe stato consigliabile che Sua Maestà mi congedasse alla prima occasione.
Sento il dovere a questo punto di salvare l’onore di una nobile dama che, senza colpa alcuna, soffrì per causa mia. Il ministro del tesoro si era messo in testa che sua moglie lo tradiva, istigato da qualche mala lingua, secondo la quale lei si sarebbe pazzamente innamorata di me. Anzi, per un certo tempo corse voce a corte che lei sarebbe venuta in segreto a trovarmi. Ora tengo a dichiarare apertamente che questa è un’infamia vergognosa, priva di ogni fondamento, tanto più che Sua Grazia si degnò sempre di trattarmi con i segni innocenti della liberalità e dell’amicizia. Ella venne certo a casa mia, ma sempre pubblicamente e in compagnia di non meno di tre persone, fra le quali sua sorella, la figlia e qualche amica, come del resto facevano altre dame di corte. I miei stessi servitori possono inoltre testimoniare se hanno mai visto una carrozza alla mia porta senza sapere chi ci fosse dentro. In questi casi, dopo essere stato avvertito da un servitore, era mia abitudine andare immediatamente alla porta; quindi, presentati i miei omaggi, prendevo in mano la carrozza con due cavalli (se si trattava un tiro a sei era cura del postiglione staccarne quattro) e la sistemavo con attenzione sulla tavola, attorno alla quale avevo sistemato una barriera mobile, alta quindici centimetri per prevenire incidenti. Mi è capitato spesso di avere sulla tavola quattro carrozze contemporaneamente, tutte piene di gente, verso le quali mi chinavo dopo essermi seduto sulla mia sedia. Mentre mi intrattenevo con gli occupanti di una carrozza, i cocchieri facevano girare le altre intorno al tavolo. Ho passato così molti pomeriggi in piacevoli conversazioni. Ma sfido il gran tesoriere e le sue due spie (di cui dirò i nomi, accada quel che accada), Clustril e Drunlo, a dimostrare che qualcuno sia venuto da me in incognito, eccezion fatta per il segretario Reldresal il quale, come ho detto sopra, veniva in nome del re. Non mi sarei tanto a lungo soffermato su questi particolari, se non vi fosse coinvolta la reputazione di una nobile signora, per non dire nulla della mia, sebbene allora mi fregiassi del titolo di “nardac”, che il tesoriere non aveva.
Tutti sanno infatti che lui è un “glumglum”, un titolo più basso dell’altro, come in Inghilterra un marchese sta ad un duca, quantunque debba riconoscere che lui aveva la precedenza su di me in virtù della sua carica. Queste calunnie, di cui ebbi notizia qualche tempo dopo, per un caso banale sul quale non occorre soffermarsi, fecero sì che il tesoriere si comportasse assai male con la moglie e ancora peggio con me. Quando alla fine si accorse dell’errore, si riconciliò con la consorte, ma con me i ponti erano ormai rotti e dovetti constatare quanto la stessa simpatia dell’imperatore nei miei confronti diminuisse rapidamente, tanto era influenzato da quel suo favorito.
7 -INFORMATO CHE SI TESSE UNA TRAMA PER ACCUSARLO DI ALTO TRADIMENTO,
L’AUTORE FUGGE A BLEFUSCU. SUE ACCOGLIENZE IN QUELLO STATO.
Prima di raccontare il modo in cui abbandonai questo regno, sarà necessario informare il lettore di un intrigo che per due mesi fu ordito contro di me.
Fino ad allora non avevo avuto nessuna consuetudine con le corti, alle quali mi era stato impossibile accedere a causa delle mie modeste condizioni. Avevo tuttavia letto e sentito parlare abbastanza dell’indole dei prìncipi e dei ministri, ma non mi sarei mai aspettato di scoprirne gli effetti più deleteri in un paese così lontano e per di più governato, come credevo, secondo princìpi opposti a quelli usati in Europa.
Mi stavo preparando ad andare a Blefuscu per rendere visita all’imperatore, quando un dignitario di corte, al quale avevo reso buoni servigi (al momento in cui era caduto in disgrazia presso Sua Maestà), venne a trovarmi di notte in una lettiga chiusa, chiedendomi udienza senza tuttavia mandare a dire il suo nome. Congedati i lacchè, infilai la portantina con dentro il dignitario nel taschino del panciotto; poi, dopo avere detto ad un servo fidato che ero indisposto e che mi sarei coricato, sbarrai la porta di casa e, come sempre, posai la portantina sul tavolo, sedendomi accanto. Dopo i convenevoli, accortomi che sua signoria era molto turbato gliene chiesi la ragione; lui mi pregò di ascoltarlo pazientemente, perché c’era di mezzo la mia reputazione e la mia vita.
Queste che seguono sono le parole che annotai diligentemente subito dopo la sua partenza: “Devi sapere che il Consiglio della Corona è stato convocato più volte a causa tua e sempre in segreto, e che due giorni or sono Sua Maestà ha preso una ferma decisione. Ti sarai accorto che Skyris Bolgolam (“galbet” o alto ammiraglio) è stato, fino dal tuo arrivo, tuo mortale nemico. Non conosco l’origine di questo odio, ma è certo che esso, dopo la strepitosa vittoria su Blefuscu, che ha oscurato la sua fama di ammiraglio, è aumentato enormemente. Sua eminenza l’ammiraglio, in combutta con il tesoriere Flimnap, la cui avversione nei tuoi confronti è nota per la faccenda della moglie, con il generale Limtoc, il ciambellano Lalcon e il giudice supremo Balmuff hanno preparato i capi di accusa contro la tua persona, per tradimento ed altri delitti che comportano la pena capitale.” Questo preambolo mi mise in tale stato di agitazione, cosciente come ero dei miei meriti e della mia innocenza, che fui più volte sul punto di interromperlo, ma lui mi ingiunse di fare silenzio, proseguendo con queste parole: “A rischio della vita e ricordando i favori che mi hai reso, mi sono procurato informazioni sul processo che si vuole istruire a tuo carico, insieme a questa copia dove sono riportati i capi di accusa nei tuoi confronti:
CAPI D’ACCUSA CONTRO QUINBUS FLESTRIN (l’Uomo Montagna).
Articolo 1.
Premesso che, a norma dello statuto di Sua Maestà Imperiale, Calin Deffar Plune, chiunque sia sorpreso a fare acqua entro i recinti del palazzo reale è passibile dell’imputazione di alto tradimento, ciò malgrado il citato Quinbus Flestrin, in flagrante violazione della legge, col pretesto di spegnere le fiamme nell’appartamento della amatissima consorte imperiale di Sua Maestà, ha malevolmente, proditoriamente, diabolicamente soffocato detto incendio scoppiato nel sopracitato appartamento, sito all’interno dei recinti del menzionato Palazzo Reale, per mezzo di getti di urina, violando le norme statutarie previste nel caso, eccetera, eccetera, in violazione del decreto, eccetera, eccetera.
Articolo 2.
Il sopradetto Quinbus Flestrin, dopo che ebbe portato nel porto reale la flotta imperiale di Blefuscu, avendo ricevuto l’ordine da Sua Maestà di catturare tutte le altre navi rimanenti a Blefuscu e di degradare quell’impero al rango di Provincia, per essere governato da un nostro Viceré, nonché di distruggere e mettere a morte non solo i Puntalarga esiliati ma quanti in quell’impero si rifiutassero di abiurare immediatamente alla eresia puntalarghista, egli, il sopracitato Flestrin, comportandosi da infame traditore nei confronti della benefica e serena Maestà Imperiale, presentò istanza di essere esonerato da tale servigio, adducendo il pretesto che gli ripugnava forzare le coscienze o distruggere la libertà e la vita di un popolo innocente.
Articolo 3.
Nel quale si ricorda che, mentre erano arrivati gli ambasciatori della corte di Blefuscu per implorare da Sua Maestà la pace, egli, il sopradetto Flestrin, da vero traditore ribelle, aiutò, appoggiò, offrì ospitalità e ricreazioni ai sopra citati ambasciatori, sebbene fosse a piena conoscenza che costoro erano gli emissari di un principe che, fino a poco tempo prima, era stato nemico dichiarato di Sua Maestà Imperiale e in guerra con Lui.
Articolo 4.
Nel quale si rileva che il detto Quinbus Flestrin, contravvenendo ai doveri di un suddito fedele, è in procinto di recarsi alla Corte dell’Imperatore di Blefuscu, quantunque provvisto unicamente di un assenso verbale da parte della nostra Maestà Imperiale; e in nome di detto permesso, intende intraprendere tale viaggio con animo falso e proditorio, al fine di recare aiuto, sostegno e incitamenti all’imperatore di Blefuscu, fino a poco tempo fa nemico e in guerra aperta con la menzionata Maestà Imperiale.
“Devo dire che ci sono anche altri articoli, ma questi, di cui ti ho letto un estratto, sono i più importanti. Certo, si deve riconoscere che durante i numerosi dibattiti per metterti in stato di accusa, Sua Maestà ha più volte dimostrato la sua volontà di clemenza, ricordando i servigi che gli hai prestato e cercando di attenuare la gravità delle imputazioni. Ma l’ammiraglio e il tesoriere hanno insistito che tu sia condannato ad una morte atroce e infamante, proponendo di appiccare il fuoco alla tua dimora durante la notte, sotto la vigilanza del generale e di ventimila fanti armati di frecce avvelenate e pronti a scagliartele sul volto e sulle mani. Si voleva ordinare in tutta segretezza ai tuoi inservienti di cospargere il letto e la biancheria di succhi velenosi, capaci di decomporre la carne e di farti morire fra atroci sofferenze. Il generale stesso aderì a questa proposta e per un certo tempo si costituì una salda maggioranza a te sfavorevole.
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