Fortunatamente non mi ero liberato nemmeno di una goccia e poi,  sia per il calore delle fiamme,  sia  per  il  gran daffare nel domarle,  avevo addosso un tale stimolo di urinare, che lo feci con tanta abbondanza e con getti così precisi,  da estinguere  il fuoco in tre minuti.  Il resto di quel nobile palazzo, la cui erezione era costata tanti anni di lavoro, rimase così indenne.  Era  ormai  l’alba  e  me  ne  tornai  a  casa,  senza  attendere  per congratularmi  con  l’imperatore,  perché,  sebbene avessi compiuto un servigio importantissimo,  non ero sicuro di come  Sua  Maestà  se  la sarebbe  presa  per  il  modo  in  cui l’avevo eseguito.  Fra le leggi statutarie del regno si fa infatti assoluto divieto ad  ogni  persona, di qualsiasi ceto,  di far acqua entro i recinti del palazzo. Mi dette un certo sollievo un messaggio di Sua Maestà nel quale  mi  assicurava che  avrebbe  ordinato  all’alta  corte  di giustizia di concedermi un condono formale; ma in realtà non riuscii mai ad ottenerlo; anzi mi fu detto in segreto che l’imperatrice,  inorridita per il mio  gesto,  si era  ritirata dall’altro lato della corte,  decisa a lasciar andare in rovina  quei  quartieri,  e  che  in  presenza  dei  suoi  intimi  non nascondeva propositi di vendetta.

6 -CULTURA,  LEGGI E COSTUMI DEGLI ABITANTI Dl LILLIPUT. L’EDUCAZIONE DEI FIGLI.  LE ABITUDINI DELL’AUTORE IN QUELLA TERRA.  COME RIABILITO’ UNA GRANDE DAMA.

Sebbene  voglia  stendere  un  trattato  a parte per descrivere questo impero, tuttavia mi fa piacere nel frattempo darne un’idea generale al lettore.  Tutti gli animali,  le piante e gli alberi di  questa  terra sono  in  proporzione  con l’altezza degli uomini che è,  come abbiamo visto,  meno di quindici centimetri;  così per esempio i cavalli  e  i buoi  più  alti  vanno da dieci a quindici centimetri,  le pecore sono alte quattro centimetri,  o giù di lì,  le oche son come passeri e via di  seguito nella scala discendente,  fino ad arrivare agli esseri più piccoli che erano quasi invisibili ai miei occhi.  La natura aveva del pari  dotato  la  vista dei lillipuziani in conformità del loro mondo; questa era infatti acutissima ma incapace di vedere lontano. Tanto per dare un’idea della loro vista a  distanza  ravvicinata,  ricorderò  di essermi beato a vedere un cuoco farcire un’allodola più piccola di una mosca  e  una  ragazzina cucire con un ago invisibile e un altrettanto invisibile filo. Gli alberi più alti,  che si trovano nel grande parco reale,  raggiungono  i  due  metri e riuscivo a malapena a toccarne la cima. Vengono poi, in proporzione,  tutte le altre piante,  che lascio all’immaginazione del lettore.

Non  ho  granché da dire per il momento della loro cultura,  che aveva conosciuto per anni una grande fioritura in tutti  i  settori.  Ma  la loro  scrittura  è certamente singolare poiché non corre da sinistra a destra come per gli europei,  né da destra a  sinistra  come  per  gli arabi,    dall’alto  al basso come per i cinesi,  né dal basso verso l’alto come per i cascagi,  bensì di traverso,  da un angolo all’altro del foglio, come fanno le signore inglesi.  Seppelliscono  i  loro morti a testa all’ingiù perché credono che dopo dodicimila lune risorgeranno e durante quel periodo la terra, che loro ritengono piatta,  si sarà rovesciata completamente,  così che quelli, al momento della resurrezione dei corpi, saranno belli e pronti su due piedi.  I  saggi  ammettono l’assurdità di questa dottrina,  eppure si continua a praticarla per compiacere alle credenze  del  volgo.  Certe leggi  e certi costumi di questo impero sono davvero singolari,  tanto che sarei tentato di giustificarle,  se  non  facessero  a  pugni  con quelle  del mio paese.  C’è solo da sperare che vengano rispettate con la stessa solerzia.  La prima,  alla quale mi riferisco,  riguarda  le spie:  ogni delitto contro lo stato viene punito con estrema severità; tuttavia, se l’accusato dimostra durante il processo la sua innocenza, l’accusatore viene immediatamente condannato ad una  morte  infamante, mentre le sue terre e i suoi beni costituiranno una ricompensa quattro volte maggiore per la perdita di tempo,  per il pericolo corso, per il rigore della prigione, per le spese di difesa sostenute dall’accusato.  Se i beni del delatore sono insufficienti, supplirà la Corona.  L’imperatore in persona gli conferirà in pubblico un segno  della  sua stima  e  la  sua  innocenza  verrà proclamata dai banditori nei rioni della città.

Considerano la  frode  un  delitto  più  grave  del  furto  e  succede raramente  che  non venga punita con la morte;  infatti loro ritengono che,  se la cura e la  vigilanza  esercitate  da  un  comune  cervello possono  preservare  i  beni personali dalle unghie dei ladri,  non ci sono chiavistelli con i quali l’uomo comune riuscirà a  difendersi  da un’astuzia  diabolica.   Inoltre,  poiché  è  necessario  un  rapporto continuo di compravendita a credito,    dove  si  permettesse  o  si indulgesse  all’esercizio  della  frode,  o  non  ci fossero leggi per punirla,  l’onesto ci rimetterebbe sempre le penne a  tutto  vantaggio del manigoldo.  Mi ricordo che, quando tentai di intercedere presso il re in favore di uno sciagurato che si era appropriato di una somma  di denaro destinata al suo padrone, involandosi con essa, avendogli fatto osservare,  allo scopo di attenuare la colpa, che in fondo si trattava solo di abuso di fiducia,  sembrò orrendo a Sua Maestà che portassi  a difesa  di  quell’uomo  la peggiore delle aggravanti;  a me rimase ben poco da replicare,  oltre il luogo comune che  dice  “paese  che  vai, usanze che trovi”, rosso di vergogna come ero.  Ricompense  e  punizioni costituiscono l’asse intorno al quale gira la ruota dello stato,  eppure non mi è  capitato  mai  di  vedere  questa massima  messa  in  pratica  come  a Lilliput.  Chiunque è in grado di esibire prove sufficienti di settantatre lune filate di rispetto  alle leggi  statali,  ha  diritto  a  privilegi,  variabili a seconda della condizione sociale,  insieme ad una certa somma di denaro da prelevare da  un  fondo  destinato  a questo fine;  contemporaneamente gli viene conferito il titolo di “Snilpall” o  “Legale”  da  aggiungere  al  suo nome,  senza che tuttavia possa essere trasmesso ai figli. Sembrò loro un limite gravissimo della nostra legislazione, il fatto che da noi le leggi infliggono soltanto pene.  Per questo l’immagine della giustizia che  viene  raffigurata nei loro tribunali ha sei occhi,  due davanti, due  di  dietro  ed  uno  per  lato,  a  significare  la  sua  estrema circospezione,  ed  inoltre una borsa di monete d’oro,  aperta,  nella mano destra e una spada nel fodero nella sinistra,  per dimostrare che essa è più incline alla ricompensa che alla punizione.  Quando scelgono il personale per ogni tipo di impiego,  considerano la moralità dell’individuo molto di più della sua abilità;  e  poiché  il governo è necessario all’umanità, sono convinti che un comune cervello sia idoneo ad un compito come ad un altro, e che la Provvidenza non si è   sognata   mai   di   fare   del  governo  un’attività  misteriosa, comprensibile ad un ristretto numero di intelligenze superiori, di cui non ne nascono più di due o tre in un secolo.  Essi invece pensano che tutti sono dotati di sincerità, giustizia, temperanza e simili; virtù, queste,   la  cui  osservanza,   unita  all’esperienza  e  alle  buone intenzioni,  saranno sufficienti a  rendere  idoneo  un  individuo  al servizio del suo paese,  eccetto quei casi nei quali sia richiesto uno specifico corso di studi.  Ma non c’è dote intellettuale straordinaria che possa rimpiazzare la mancanza di virtù etiche,  e gli impieghi non possono essere affidati alle mani di simili individui.  In  ogni  caso gli  errori commessi per ignoranza,  in assenza di cattiva intenzione, non saranno mai  tanto  funesti  per  il  bene  pubblico  come  quelli commessi  da  uno,  disposto  per  natura alla corruzione,  che in più sappia  manovrare  abilmente  per  difendere  e  moltiplicare  i  suoi raggiri.

In  modo  simile si negano cariche pubbliche a quanti non credono alla Divina Provvidenza;  ed infatti,  visto che  i  sovrani  si  ritengono inviati della Provvidenza, non c’è cosa più assurda per i lillipuziani di  un  principe  che  affida  incarichi  a  persone  che disconoscono quell’autorità in nome della quale egli agisce.  Nel dare un sunto di queste e di altre leggi  che  seguiranno,  sappia bene  il  lettore  che mi riferisco alle istituzioni primitive di quel popolo e non allo scandalosissimo stato in cui si è  ridotto,  per  la natura  degenerata  dell’uomo.   Per  quanto  concerne  le  vergognose abitudini di acquistare cariche  danzando  sulla  corda,  o  posti  di prestigio  saltando  sopra  i  bastoni  o strisciandovi sotto,  faccio osservare al lettore che furono introdotte  per  la  prima  volta  dal nonno  dell’attuale  sovrano e che si sono sviluppate fino all’attuale rigoglio grazie al progressivo aumento delle lotte faziose.  L’ingratitudine è per loro un delitto capitale, così come si legge che sia stato anche in altri paesi. Loro infatti ragionano in questo modo: se uno rende il male a chi gli ha fatto del bene,  come potrà il resto del  genere umano,  che non ha fatto nulla,  considerarlo un fratello?  Per questo un simile uomo non è degno di vivere.  Le loro idee  riguardi  ai  doveri  dei  genitori  e  dei  figli  sono l’opposto  delle  nostre.  Dato  che l’unione dei sessi si fonda sulla grande legge della natura per propagare  e  continuare  la  specie,  i lillipuziani  uomini e donne vanno insieme né più né meno che come gli altri animali, seguendo l’istinto della concupiscenza; l’affetto per i figli deriva quindi dallo stesso principio naturale.  Per  questo  non sfiora  loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso il padre per averlo generato o verso la  madre  per  averlo  messo  al mondo;  la qual cosa, considerate le miserie della vita, non è, in sé, né un beneficio né un atto di  volontà  dei  genitori,  in  tutt’altre faccende  affaccendati  durante i loro incontri amorosi.  Per questi e simili ragionamenti,  è loro opinione che i genitori siano gli  ultimi fra tutti a meritare la fiducia di una buona educazione dei figli. In ogni città hanno nidi d’infanzia pubblici,  dove tutti i genitori,  ad eccezione dei contadini,  devono inviare i figli di entrambi  i  sessi all’età  di  venti  lune,  quando  si  pensa che abbiano acquisito una qualche propensione all’obbedienza, per essere allevati ed educati. Ci sono scuole di vario genere,  adatte alle diverse condizioni  dei  due sessi, con insegnanti che addestrano i ragazzi a quel tipo di vita che si confà ai loro genitori, sviluppando nel contempo le loro capacità e inclinazioni.  Darò  prima  qualche  notizia  degli asili per maschi e quindi di quelli per femmine.

Quelli per maschi di famiglie nobili o elevate sono dotati di  maestri saggi  e  severi  affiancati  da  uno  stuolo  di  assistenti.  Cibo e vestiario sono semplici e privi di ricercatezza.  Gli allievi  vengono allevati  nel rispetto dei principi dell’onore,  della giustizia,  del coraggio, della modestia, della clemenza, della religione e dell’amore per la propria terra;  inoltre si affida loro qualche cosa da fare  in ogni ora del giorno, ad eccezione di quando mangiano e dormono. Questi sono d’altra parte intervalli assai brevi,  ai quali andranno aggiunte due ore di svago, impiegate nel compiere esercizi fisici. Fino all’età di quattro anni ci sono degli uomini a vestirli, dopo di che, malgrado la loro elevata condizione sociale, devono farlo da soli; le donne che svolgono il loro servizio nelle  scuole,  tutte  sui  cinquanta  anni, compiono  soltanto  i servizi più umili.  Ai bambini non è concesso di conversare con la  servitù  e  si  divertono  in  gruppi  più  o  meno numerosi,  sempre  sotto gli occhi di un maestro o del suo assistente.  In questo modo si impedisce che ricevano le  deleterie  influenze  del vizio e della follia,  alle quali sono sottoposti i nostri bambini.  I genitori possono far visita ai figli solo due volte all’anno e per non più di un’ora;  è loro concesso di baciarli  solo  all’arrivo  e  alla partenza, mentre il maestro, presente a questi incontri, impedirà loro di  parlare  sottovoce  al  bambino,  di  usare vezzeggiativi nei suoi confronti, di portargli regali, giocattoli, dolciumi e roba simile.  La retta per il mantenimento e l’educazione dei figli è a  carico  dei genitori  e,  se  non  viene pagata,  se ne delega la riscossione agli esattori imperiali.

Gli asili per i figli della classe media, di mercanti,  commercianti e artigiani sono organizzati,  in proporzione, secondo lo stesso schema; i ragazzi avviati a qualche mestiere,  vanno a  fare  gli  apprendisti all’età  di  sette  anni,  mentre  i  figli  dei notabili continuano a studiare fino a quindici anni,  età che corrisponde a ventuno da  noi, ma la vita di collegio si fa meno rigida durante gli ultimi tre anni.  Negli  asili  femminili  le bambine di nobile famiglia vengono educate come  i  maschi,  con  la  sola  differenza  che  vengono  vestite  da inservienti  del loro sesso,  sempre al cospetto del maestro e del suo assistente,  finché non siano in grado di farlo  da  sole  all’età  di cinque anni. Se qualcuna di queste inservienti cede alla tentazione di raccontare  alle  bambine  storie  paurose  o fiabesche,  oppure certi pettegolezzi che le cameriere comunemente divulgano,  vengono frustate in  pubblico per tre volte,  imprigionate per un anno e confinate vita natural durante nelle più squallide contrade del paese. In questo modo si insegna alle fanciulle, come ai maschi, a disprezzare la codardia e la frivolezza e a non curarsi degli ornamenti della  persona  che  non rientrino  nella  normale  decenza  e  pulizia.  Non ho notato nessuna differenza  nella  educazione  dei  due  sessi,  ad  esclusione  degli esercizi  fisici  che,  per le ragazze,  sono meno pesanti e di alcune nozioni di economia domestica impartite loro;  riducendo sensibilmente la  cultura  generale,  la  loro  massima è infatti che,  fra gente di rango,  una moglie deve essere sempre una saggia e piacevole compagna, dal  momento  che  la  sua  giovinezza  non  dura  in  eterno.  Quando raggiungono i dodici anni,  che  è  l’età  del  matrimonio  per  loro, tornano a casa,  mentre ai vivissimi ringraziamenti dei genitori e dei tutori,  nei confronti degli insegnanti,  si unisce il pianto  dirotto delle ragazze che danno l’addio alle compagne.  Negli  asili  per bambine di più umile rango si avviano le convittrici ai lavori che appropriati al loro sesso e alla loro condizione. Quelle che fanno le apprendiste, escono a sette anni, le altre restano fino a undici.

Le famiglie modeste che tengono i figli in questi istituti, oltre alla retta  annuale  che  per  loro  è  assai  bassa,   devono  fornire  al dispensiere   una   piccola  parte  dei  loro  guadagni  mensili  come sovvenzione al mantenimento della loro prole;  per questo le spese dei genitori  sono limitate dalla legge.  Infatti i lillipuziani ritengono che non ci sia niente di più egoistico degli atti di quella gente che, per soddisfare il proprio piacere, mette al mondo dei figli, lasciando agli altri l’onere di mantenerli.  Le persone di condizione elevata si impegnano  a  destinare una certa somma ad ogni figlio,  a seconda del rango,  e queste somme vengono sempre amministrate con grande senso di economia e giudizio.

I  contadini  si tengono i figli a casa e siccome il loro compito è di coltivare la terra,  la loro educazione ha poca importanza per il bene pubblico;  i  vecchi e i malati sono mantenuti in ospizio,  ed infatti l’accattonaggio è un’attività sconosciuta in questo paese.  A questo punto non dispiacerà forse, al curioso lettore, avere qualche notizia riguardo le faccende domestiche e le abitudini da  me  seguite durante  il  mio  soggiorno  di  nove  mesi e tredici giorni in questa contrada. Spinto dalla necessità e dal bernoccolo per la meccanica, mi costruii un tavolo ed una sedia abbastanza comodi con gli  alberi  più grandi   del   parco  reale.   Duecento  sarte  vennero  chiamate  per confezionarmi camicie,  lenzuola e tovaglie,  tutte del tipo di stoffa più  robusto e ruvido che fu possibile trovare.  Malgrado ciò,  furono costrette a sovrapporne più strati, perché il tipo più pesante è molto più sottile della nostra tela batista.  La loro tela è  alta  sette  o otto  centimetri e una pezza ha la lunghezza di un metro.  Le sarte mi presero le misure mentre stavo sdraiato per  terra,  l’una  montandomi sul collo e l’altra a mezza gamba,  tirando i capi di una grossa fune, mentre una terza ne  misurava  la  lunghezza  con  un  regolo  di  due centimetri e mezzo. Poi fu loro sufficiente misurarmi la circonferenza del  pollice  destro  perché,  in base ai loro calcoli matematici,  il doppio di questa corrisponde a quella del polso,  e via di seguito per quelle  del  collo  e del torace.  Poi,  seguendo il modello della mia vecchia camicia che distesi per terra,  spianandola da ogni  lato,  mi servirono a pennello.  Furono impiegati anche trecento sarti per farmi gli abiti,  ma essi avevano un altro modo di prendere  le  misure.  Mi fecero mettere in ginocchio ed uno di loro, salito su di una scala che mi arrivava al collo,  lasciò cadere un filo a piombo dall’altezza del colletto fino al suolo,  calcolando in questo modo l’esatta  lunghezza della  giacca;  petto  e  braccia  li  misurai da solo.  Quando furono pronti,  i miei abiti,  la cui confezione venne eseguita in casa  mia, perché   anche  la  più  spaziosa  delle  loro  dimore  sarebbe  stata insufficiente a contenerli,  sembravano uno di quei lavori di rattoppo che  fanno le nostre donne in Inghilterra,  con l’unica differenza che nel mio caso, le toppe erano tutte dello stesso colore.  Per prepararmi il pranzo c’erano trecento cuochi, alloggiati in comode casette erette tutto intorno alla mia dimora,  dove  vivevano  con  le loro  famiglie,  con  il  compito  di  prepararmi  ognuno  due piatti.  Prendevo in mano venti servitori e  li  posavo  sulla  tavola,  mentre altri  cento aspettavano al suolo,  alcuni con vassoi di carne,  altri con barilotti di vino e di liquori sulle spalle. I venti di sopra,  ad un  mio cenno,  issavano quella roba con un sistema di carrucole assai ingegnoso, come noi solleviamo le brocche d’acqua dai pozzi. Un piatto di carne costituiva per me un boccone e un barilotto di vino una buona sorsata.  Il loro montone non è buono il nostro,  ma la carne di bue è eccellente.  Una volta mi diedero una lombata così grande, che dovetti farla in tre pezzi, ma è un caso molto raro.  I camerieri rimanevano a bocca aperta vedendomi mangiare tutta quella roba, ossa comprese, come da  noi si fa con le allodole.  In un boccone facevo fuori un’oca o un tacchino e vi assicuro che i loro sono molto migliori dei nostri.  Dei volatili  più  piccoli  ne infilavo venti o trenta sulla punta del mio coltello.

Un giorno Sua Maestà,  informato delle mie abitudini,  volle avere  il piacere,  come  ebbe la compiacenza di chiamarlo,  di pranzare con me, insieme alla regale consorte e i principi reali d’ambo i sessi. Quando vennero,  li sistemai con i loro seggi regali sul tavolo,  proprio  di fronte a me con le guardie al loro fianco.  Era presente anche il gran tesoriere Flimnap con la bacchetta bianca,  ed ebbi modo di notare che mi  guardava  con  un che di astioso;  ma lì per lì non gli diedi gran peso,  tutto preso a divorare il doppio di quello che ero solito fare, per  rendere  onore alla mia amata patria e per riempire d’ammirazione la corte.  Ho ragione di credere che  questa  visita  privata  di  Sua Maestà  desse  a  Flimnap l’occasione di mettermi in cattiva luce agli occhi del suo signore. Quel ministro, in segreto,  mi era stato sempre ostile,  sebbene  apparentemente ostentasse nei miei confronti maniere assai  più  cordiali  di  quanto  il  suo  carattere   scontroso   gli permettesse abitualmente di fare. Egli illustrò dunque a Sua Maestà le condizioni  grame  in  cui  versavano  le  finanze  e gli disse che si trovava costretto ad emettere prestiti ad interesse altissimo,  che le cedole dello Stato non circolavano al di sotto del nove per cento, che ero  costato  a  Sua Maestà più di un milione e mezzo di “sprugs” (che sono le loro monete auree  più  grosse,  simili  a  pagliuzze)  e  che insomma  sarebbe stato consigliabile che Sua Maestà mi congedasse alla prima occasione.

Sento il dovere a questo punto di salvare l’onore di una  nobile  dama che,  senza colpa alcuna, soffrì per causa mia. Il ministro del tesoro si era messo in testa che sua moglie lo tradiva,  istigato da  qualche mala lingua,  secondo la quale lei si sarebbe pazzamente innamorata di me. Anzi, per un certo tempo corse voce a corte che lei sarebbe venuta in segreto a trovarmi. Ora tengo a dichiarare apertamente che questa è un’infamia vergognosa,  priva di ogni fondamento,  tanto più  che  Sua Grazia  si  degnò  sempre  di  trattarmi  con  i segni innocenti della liberalità e dell’amicizia.  Ella venne certo a casa  mia,  ma  sempre pubblicamente e in compagnia di non meno di tre persone,  fra le quali sua sorella, la figlia e qualche amica,  come del resto facevano altre dame di corte. I miei stessi servitori possono inoltre testimoniare se hanno  mai visto una carrozza alla mia porta senza sapere chi ci fosse dentro.  In questi casi,  dopo essere stato avvertito da un servitore, era mia abitudine andare immediatamente alla porta; quindi, presentati i  miei  omaggi,  prendevo  in mano la carrozza con due cavalli (se si trattava un tiro a sei era cura del postiglione staccarne  quattro)  e la  sistemavo  con  attenzione sulla tavola,  attorno alla quale avevo sistemato una barriera mobile,  alta quindici centimetri per prevenire incidenti. Mi è capitato spesso di avere sulla tavola quattro carrozze contemporaneamente,  tutte  piene di gente,  verso le quali mi chinavo dopo essermi seduto sulla mia sedia.  Mentre mi intrattenevo  con  gli occupanti  di  una  carrozza,  i  cocchieri  facevano  girare le altre intorno al tavolo.  Ho  passato  così  molti  pomeriggi  in  piacevoli conversazioni.  Ma  sfido  il gran tesoriere e le sue due spie (di cui dirò i nomi, accada quel che accada), Clustril e Drunlo,  a dimostrare che  qualcuno  sia  venuto  da me in incognito,  eccezion fatta per il segretario Reldresal il quale, come ho detto sopra, veniva in nome del re.  Non mi sarei tanto a lungo soffermato su questi  particolari,  se non  vi fosse coinvolta la reputazione di una nobile signora,  per non dire nulla della mia,  sebbene  allora  mi  fregiassi  del  titolo  di “nardac”, che il tesoriere non aveva.

Tutti  sanno  infatti  che  lui  è un “glumglum”,  un titolo più basso dell’altro, come in Inghilterra un marchese sta ad un duca, quantunque debba riconoscere che lui aveva la precedenza su di me in virtù  della sua carica.  Queste calunnie,  di cui ebbi notizia qualche tempo dopo, per un caso banale sul quale non occorre soffermarsi, fecero sì che il tesoriere si comportasse assai male con la moglie e ancora peggio  con me.  Quando  alla  fine  si accorse dell’errore,  si riconciliò con la consorte,  ma con me i ponti erano ormai rotti  e  dovetti  constatare quanto   la   stessa   simpatia  dell’imperatore  nei  miei  confronti diminuisse rapidamente, tanto era influenzato da quel suo favorito.

 

 

 

 

7 -INFORMATO CHE SI TESSE UNA TRAMA PER ACCUSARLO DI ALTO TRADIMENTO,

L’AUTORE FUGGE A BLEFUSCU. SUE ACCOGLIENZE IN QUELLO STATO.

Prima di raccontare il modo  in  cui  abbandonai  questo  regno,  sarà necessario  informare  il  lettore  di  un intrigo che per due mesi fu ordito contro di me.

Fino ad allora non avevo avuto nessuna consuetudine con le corti, alle quali mi era stato impossibile accedere  a  causa  delle  mie  modeste condizioni.   Avevo   tuttavia  letto  e  sentito  parlare  abbastanza dell’indole dei prìncipi e dei ministri, ma non mi sarei mai aspettato di scoprirne gli effetti più deleteri in un paese così lontano  e  per di  più  governato,  come  credevo,  secondo princìpi opposti a quelli usati in Europa.

Mi  stavo  preparando  ad  andare  a  Blefuscu  per   rendere   visita all’imperatore,  quando  un  dignitario di corte,  al quale avevo reso buoni servigi (al momento in cui era caduto in  disgrazia  presso  Sua Maestà),  venne a trovarmi di notte in una lettiga chiusa, chiedendomi udienza senza tuttavia mandare a dire il suo nome. Congedati i lacchè, infilai la portantina  con  dentro  il  dignitario  nel  taschino  del panciotto; poi, dopo avere detto ad un servo fidato che ero indisposto e  che  mi  sarei coricato,  sbarrai la porta di casa e,  come sempre, posai la portantina sul tavolo, sedendomi accanto. Dopo i convenevoli, accortomi che sua signoria era molto turbato gliene chiesi la ragione; lui mi pregò di ascoltarlo pazientemente, perché c’era di mezzo la mia reputazione e la mia vita.

Queste che seguono sono le parole che  annotai  diligentemente  subito dopo  la  sua  partenza:  “Devi sapere che il Consiglio della Corona è stato convocato più volte a causa tua e sempre in segreto,  e che  due giorni  or  sono  Sua  Maestà  ha preso una ferma decisione.  Ti sarai accorto che Skyris Bolgolam (“galbet” o alto ammiraglio) è stato, fino dal tuo arrivo,  tuo mortale nemico.  Non conosco l’origine di  questo odio,  ma  è certo che esso,  dopo la strepitosa vittoria su Blefuscu, che ha oscurato la sua fama di ammiraglio,  è  aumentato  enormemente.  Sua eminenza l’ammiraglio,  in combutta con il tesoriere  Flimnap,  la cui avversione nei tuoi confronti è nota per la faccenda della moglie, con il generale Limtoc,  il ciambellano Lalcon e  il  giudice  supremo Balmuff  hanno  preparato i capi di accusa contro la tua persona,  per tradimento ed altri delitti che comportano la pena capitale.” Questo preambolo mi mise in tale stato di agitazione,  cosciente  come ero dei miei meriti e della mia innocenza, che fui più volte sul punto di interromperlo, ma lui mi ingiunse di fare silenzio, proseguendo con queste  parole: “A rischio della vita e ricordando i favori che mi hai reso,  mi sono  procurato  informazioni  sul  processo  che  si  vuole istruire  a  tuo carico,  insieme a questa copia dove sono riportati i capi di accusa nei tuoi confronti:

 

CAPI D’ACCUSA CONTRO QUINBUS FLESTRIN (l’Uomo Montagna).

 

Articolo 1.

Premesso che,  a norma dello statuto di Sua  Maestà  Imperiale,  Calin Deffar  Plune,  chiunque sia sorpreso a fare acqua entro i recinti del palazzo reale è passibile dell’imputazione  di  alto  tradimento,  ciò malgrado  il  citato  Quinbus Flestrin,  in flagrante violazione della legge,  col pretesto di spegnere  le  fiamme  nell’appartamento  della amatissima   consorte  imperiale  di  Sua  Maestà,   ha  malevolmente, proditoriamente, diabolicamente soffocato detto incendio scoppiato nel sopracitato appartamento,  sito all’interno dei recinti del menzionato Palazzo  Reale,  per  mezzo  di  getti  di  urina,  violando  le norme statutarie previste nel caso,  eccetera,  eccetera,  in violazione del decreto, eccetera, eccetera.

Articolo 2.

Il sopradetto Quinbus Flestrin,  dopo che ebbe portato nel porto reale la flotta imperiale di  Blefuscu,  avendo  ricevuto  l’ordine  da  Sua Maestà  di  catturare  tutte  le  altre navi rimanenti a Blefuscu e di degradare quell’impero al rango di Provincia,  per essere governato da un  nostro Viceré,  nonché di distruggere e mettere a morte non solo i Puntalarga esiliati ma  quanti  in  quell’impero  si  rifiutassero  di abiurare   immediatamente   alla  eresia  puntalarghista,   egli,   il sopracitato Flestrin,  comportandosi da infame traditore nei confronti della  benefica e serena Maestà Imperiale,  presentò istanza di essere esonerato da tale servigio,  adducendo il pretesto che  gli  ripugnava forzare  le  coscienze o distruggere la libertà e la vita di un popolo innocente.

Articolo 3.

Nel quale si ricorda che, mentre erano arrivati gli ambasciatori della corte di Blefuscu per implorare  da  Sua  Maestà  la  pace,  egli,  il sopradetto Flestrin, da vero traditore ribelle, aiutò, appoggiò, offrì ospitalità e ricreazioni ai sopra citati ambasciatori, sebbene fosse a piena  conoscenza  che  costoro erano gli emissari di un principe che, fino a poco tempo prima,  era stato nemico dichiarato  di  Sua  Maestà Imperiale e in guerra con Lui.

Articolo 4.

Nel  quale si rileva che il detto Quinbus Flestrin,  contravvenendo ai doveri di un suddito fedele,  è in  procinto  di  recarsi  alla  Corte dell’Imperatore  di  Blefuscu,  quantunque  provvisto unicamente di un assenso verbale da parte della nostra Maestà Imperiale;  e in nome  di detto  permesso,  intende intraprendere tale viaggio con animo falso e proditorio,   al  fine  di  recare  aiuto,   sostegno  e   incitamenti all’imperatore  di  Blefuscu,  fino a poco tempo fa nemico e in guerra aperta con la menzionata Maestà Imperiale.

“Devo dire che ci sono anche altri articoli, ma questi, di cui ti ho  letto  un  estratto,  sono  i  più  importanti.  Certo,   si  deve riconoscere  che durante i numerosi dibattiti per metterti in stato di accusa, Sua Maestà ha più volte dimostrato la sua volontà di clemenza, ricordando i servigi che gli hai prestato e cercando di  attenuare  la gravità  delle  imputazioni.  Ma  l’ammiraglio  e  il  tesoriere hanno insistito che tu sia condannato  ad  una  morte  atroce  e  infamante, proponendo  di  appiccare  il  fuoco alla tua dimora durante la notte, sotto la vigilanza del generale e di ventimila fanti armati di  frecce avvelenate  e pronti a scagliartele sul volto e sulle mani.  Si voleva ordinare in tutta segretezza ai  tuoi  inservienti  di  cospargere  il letto  e  la  biancheria  di succhi velenosi,  capaci di decomporre la carne e di farti morire fra  atroci  sofferenze.  Il  generale  stesso aderì  a  questa  proposta  e per un certo tempo si costituì una salda maggioranza a te sfavorevole.