Ma Sua Maestà era deciso, nei limiti del possibile, a risparmiarti la vita e riuscì ad avere dalla sua parte il ciambellano di corte. Fu a questo punto che l’imperatore volle sentire l’opinione di Reldresal, primo segretario agli interni, che si è sempre dimostrato tuo amico. Le sue parole confermarono l’idea che ti sei fatta di questa persona. Lui riconobbe la gravità delle accuse, ma ricordò nello stesso tempo che si doveva ricorrere pur sempre alla clemenza, la miglior virtù di un principe e della quale Sua Maestà poteva di diritto andare fiero. Disse che era a tutti nota l’amicizia che lo legava a te da tanto tempo e che di conseguenza le sue opinioni potevano sembrare partigiane a quel consesso, tuttavia, in ossequio a quanto gli era stato richiesto, avrebbe espresso in piena libertà le sue idee. Disse allora che Sua Maestà, in riconoscenza dei buoni servigi resi e in ottemperanza alla sua natura misericordiosa, avrebbe dovuto risparmiarti la vita, limitandosi a accecarti entrambi gli occhi. Con questa risoluzione egli umilmente credeva che si potesse in qualche modo fare giustizia, mentre tutto il popolo avrebbe applaudito quell’atto di clemenza imperiale, e con esso la generosità e la giustizia di coloro che hanno l’onore di essere suoi consiglieri. Aggiunse che la perdita della vista non avrebbe in alcun modo ridotta la tua forza, grazie alla quale sei tanto utile a Sua Maestà poiché anzi la cecità aumenta il coraggio, in quanto ci impedisce di vedere i pericoli, se è vero che proprio il timore per i tuoi occhi era stato il maggiore ostacolo nel portar via la flotta nemica e che, infine, sarebbe stato per te sufficiente vedere attraverso gli occhi dei ministri, così come fanno anche i monarchi più potenti. “Questa proposta incontrò la più intransigente disapprovazione del consiglio. L’ammiraglio Bolgolam non poté trattenere la sua ira e, saltando in piedi su tutte le furie, disse che non si capacitava come un segretario agli interni osasse proporre di salvare la vita di un traditore; che i servigi che tu avevi reso erano, proprio per la ragion di stato, la peggiore aggravante ai tuoi delitti; che la tua capacità di spegnere incendi orinandovi sopra, come avevi fatto con l’appartamento della regina (azione che, ricordò con orrore, avrebbe potuto, in un’altra occasione, provocare l’inondazione del Palazzo; che così come, grazie alla tua forza, avevi potuto trascinare fin qui la flotta nemica, altrettanto bene avresti potuto riportarla al nemico al primo dissapore che tu avessi avuto con noi; che infine aveva le sue buone ragioni di crederti, in fondo al cuore, un Puntalarga e poiché il tradimento cova nel cuore prima di manifestarsi, in conseguenza di ciò ti accusava di tradimento, insistendo che tu fossi messo a morte.
“Della stessa opinione si disse il gran tesoriere. Mise in luce in quali misere condizioni si fosse ridotto l’erario, incapace ormai di fare fronte al tuo mantenimento, sostenendo inoltre che la proposta, avanzata dal segretario agli interni, di cavarti gli occhi, non solo non costituiva un rimedio contro il danno, ma avrebbe contribuito ad accrescerlo. Ti sarebbe infatti successo come a certi tipi di uccelli che, una volta accecati, mangiano il doppio ingrassando rapidamente. Concluse dicendo che Sua Maestà e il Consiglio, tuoi giudici naturali, erano fermamente convinti della tua colpevolezza, di per sé ragione sufficiente per condannarti alla pena capitale, anche senza le prove formali richieste dalla lettera della legge. “Ma Sua Maestà Imperiale, nettamente contrario alla pena di morte, si compiacque graziosamente di osservare che, se il Consiglio riteneva la perdita della vista una punizione troppo lieve, si sarebbe potuta aggiungere ad essa qualche altra mutilazione. A questo punto il tuo amico, segretario agli interni, dopo aver chiesto di essere ascoltato, per replicare a quanto aveva sostenuto il tesoriere circa le difficoltà incontrate dall’erario per mantenerti, disse che Sua Eccellenza, che era il solo a disporre delle rendite imperiali, avrebbe potuto ovviare facilmente a questo inconveniente tagliandoti gradualmente i viveri; grazie a questo espediente ti saresti infiacchito rapidamente, avresti perso l’appetito, consumandoti in pochi mesi dopo di che il puzzo della tua carcassa non avrebbe certo costituito un pericolo, ridotta come sarebbe stata della metà. E poi, subito dopo la tua morte, cinque o seimila sudditi avrebbero dovuto spolparti le ossa in fretta e furia e seppellire la carne nelle contrade più remote del regno per prevenire epidemie, mentre il tuo scheletro sarebbe rimasto come un monumento per l’ammirazione dei posteri.
“Fu così che si giunse ad un compromesso per l’amicizia del segretario. Si stabilì dunque di tenere segreto il progetto di farti morire d’inedia, mentre venne verbalizzata la decisione di infliggerti l’accecamento. A questo nessuno si oppose ad eccezione dell’ammiraglio Bolgolam il quale, istigato dalla regina, di cui era un favorito, continuò ad insistere sulla pena di morte. La regina, infatti, non aveva mai smesso di odiarti dopo che tu spegnesti l’incendio nell’infamante ed illegale maniera che sai. “Entro tre giorni il tuo amico segretario verrà a leggerti i capi d’accusa e a dimostrarti la grande clemenza e la simpatia di Sua Maestà, grazie alla quale ti si condanna solamente alla perdita degli occhi; pena, questa, alla quale Sua Maestà è sicuro che ti sottoporrai con animo grato, mentre venti chirurghi reali avranno cura che l’operazione, la quale consiste nello scagliarti acuminatissime frecce nei globi oculari, mentre te ne starai disteso sul pavimento, venga eseguita secondo le regole.
“Lascio a te prendere le misure più opportune, mentre io, per non destare sospetti, devo svignarmela in gran segreto, come sono venuto.” Uscita sua Signoria, rimasi solo con mille dubbi e incertezze sul da farsi. Secondo un’abitudine introdotta dall’attuale regnante e dal suo ministero (che non trovava riscontro, come mi fu detto, nelle procedure seguite nei tempi antichi), dopo che la Corte aveva decretato un’esecuzione crudele, vuoi per appagare l’ira regale, o la malvagità di qualche favorito, l’imperatore in persona teneva un discorso al consiglio riunito in seduta plenaria, nel quale esprimeva la sua grande clemenza e la sua generosità, come doti conosciute e risapute in tutto il mondo. Questo discorso venne promulgato e diffuso in tutto il reame e nulla diffuse il terrore nella popolazione quanto i riferimenti encomiastici alla clemenza reale; perché si sapeva ormai molto bene che, quanto più si insisteva e si propagandavano tali encomi, tanto più disumana sarebbe stata la pena, e tanto più innocente l’accusato destinato a subirla. Quanto a me, devo confessare che, non essendo mai stato destinato alla vita di corte, né per nascita, né per educazione, ed essendo quindi un pessimo giudice in materia, non riuscivo a capire dove fosse tutta quella clemenza e quella simpatia alla quale la sentenza faceva riferimento; anzi, e forse mi sbaglio, mi sembrava più rigorosa che mite. Più di una volta fui sul punto di accettare il processo, sperando di poter attenuare i fatti menzionati nei vari capi d’accusa, visto che non li potevo negare; ma troppe volte in vita mia ho assistito a processi di stato che immancabilmente finivano secondo le direttive dei giudici, per affidarmi, nella condizione in cui mi trovavo e con tali nemici, ad un verdetto tanto pericoloso. Per un momento pensai di opporre resistenza perché, finché fossi rimasto libero, difficilmente tutte le forze riunite dell’impero avrebbero potuto soggiogarmi, mentre avrei potuto con estrema facilità ridurre in macerie la capitale a furia di sassate. Eppure respinsi con orrore questa idea, ricordandomi del giuramento che avevo fatto a Sua Maestà, dei favori che avevo ricevuto da lui, e del titolo di “nardac” che si era degnato di conferirmi. Né ero entrato a tal punto nel ruolo di cortigiano, da persuadermi che la severità oggi dimostratami dall’imperatore avrebbe potuto cancellare tutti gli obblighi contratti nel passato. Alla fine presi una decisione che potrà suscitare qualche perplessità e non a sproposito; infatti ammetto che devo i miei occhi, e di conseguenza la libertà, all’avventatezza e alla mancanza d’esperienza, perché, se avessi conosciuto allora la vera natura di prìncipi e ministri, quale poi mi è capitato di osservare in molte altre corti, e i loro modi di trattare prigionieri sotto accusa meno colpevoli di me, mi sarei sottoposto subito e di buon grado ad una condanna tanto lieve. Ma con l’impulsività propria dei giovani, avendo il permesso imperiale di far visita all’imperatore di Blefuscu, presi al volo l’occasione prima dello scadere dei tre giorni, comunicando per lettera al mio amico segretario che sarei partito il giorno stesso per Blefuscu; senza attendere una risposta, mi diressi verso la costa dell’isola dove si trovava all’ancora la nostra flotta. Afferrai una grossa nave e, salpate le ancore, legai una corda alla prua poi, dopo essermi spogliato, ci misi gli abiti e la coperta, che tenevo sotto il braccio, e cominciai a trascinarmela dietro, un poi’ guadando e un po’ nuotando, finché arrivai al porto reale di Blefuscu, dove la gente mi aspettava da tempo.
Due guide mi portarono alla capitale che ha lo stesso nome. Le portai in mano finché giungemmo a duecento metri dalle porte della città, quindi le mandai ad avvertire un segretario di corte del mio arrivo e a riferirgli che attendevo gli ordini di Sua Maestà. Un’ora più tardi mi fu detto che Sua Maestà con tutta la famiglia reale e gli ufficiali di corte stavano per venire incontro a ricevermi. Mi feci avanti per un centinaio di metri e, mentre Sua Maestà e il seguito scendevano da cavallo e l’imperatrice e le dame dalle carrozze, non mi sembrò che quelle signorie dessero segni di paura o di imbarazzo. Mi stesi per terra per baciare la mano a Sua Altezza e alla consorte imperiale, poi gli dissi che ero venuto per mantenere la promessa fatta, con il permesso del mio padrone, l’imperatore, per avere l’onore di vedere un così potente monarca e offrirgli i miei servigi, compatibilmente ai doveri che mi legavano al mio sovrano. Ma non feci alcun riferimento al fatto che ero caduto in disgrazia, prima di tutto perché non ne avevo avuto la comunicazione ufficiale e dunque avrei potuto essere totalmente all’oscuro dei progetti a mio danno né d’altra parte potevo pensare che l’imperatore di Lilliput avrebbe divulgato la notizia mentre non ero in suo potere; su questo ultimo punto, tuttavia, dovetti accorgermi presto che mi sbagliavo. Non starò qui a infastidire il lettore con il resoconto particolareggiato del mio ricevimento a corte, secondo la generosità di un così gran principe; né ai disagi che dovetti affrontare per mancanza di una casa e di un letto, costretto come fui a dormire per terra avvolto nella mia coperta.
8 -GRAZIE AD UN FORTUNATO IMPREVISTO L’AUTORE TROVA IL MODO DI LASCIARE BLEFUSCU E, DOPO ALCUNE TRAVERSIE, TORNA SANO E SALVO IN PATRIA.
Tre giorni dopo il mio arrivo me ne andavo curiosando verso la costa nord orientale dell’isola, quando vidi a mezzo miglio della riva qualcosa che sembrava una barca rovesciata. Mi levai calze e scarpe e cominciai a inoltrarmi nell’acqua per due o trecento metri, finché vidi che si trattava proprio di una barca, che mi veniva incontro con il flusso della marea e che qualche tempesta aveva probabilmente strappato ad una nave. Tornai subito alla capitale per farmi prestare da Sua Maestà venti dei più alti galeoni che gli erano rimasti dopo la perdita della flotta e tremila marinai, al comando del suo viceammiraglio. Mentre la flotta salpava per costeggiare l’isola, raggiunsi con una scorciatoia il posto dove avevo trovato la barca. La marea l’aveva portata ancora più vicina alla riva. I marinai d’altra parte erano tutti provvisti di cordame che avevo in precedenza attorcigliato insieme per renderlo più resistente. All’arrivo delle navi, mi spogliai e camminai nell’acqua fino a un cento metri dalla barca; qui fui costretto a fare una bella nuotata per raggiungerla. I marinai mi lanciarono un capo della corda che legai stretta all’anello di prua della barca, mentre l’altro capo venne legato a uno dei vascelli. Ma mi sembrò subito una fatica improba, perché non riuscivo a destreggiarmi nell’acqua dove non toccavo. Dovetti quindi nuotare dietro la barca, spingendola con una mano più spesso che potevo, finché, aiutato dalla marea, riuscii a raggiungere il punto dove si toccava. Mi fermai per prendere fiato qualche minuto, poi detti un’altra spinta alla barca con l’acqua che mi arrivava ormai alle ascelle. Il più ormai era fatto e non mi rimase che tirare fuori il cordame stivato in una nave, legando la barca al traino di nove velieri che mi erano accanto. Con il favore del vento, le mie spinte e il traino delle navi, portammo la barca a non più di quaranta metri dalla riva e qui, aspettata la bassa marea, la trascinai in secco. Con l’aiuto di duemila uomini, fornii di corde e paranchi, riuscii a rimetterla con la chiglia sulla sabbia e fu allora che mi accorsi che era leggermente danneggiata.
Non starò a seccare il lettore con la difficoltà che ebbi nel trasportare quell’imbarcazione al porto reale di Blefuscu, facendola scorrere su pali, la cui preparazione mi richiese dieci giorni di fatiche; arrivato alla capitale fui accolto da una grande folla estasiata alla vista di un così enorme vascello. Dissi all’imperatore che la mia buona stella mi aveva fatto imbattere su quella barca, capace di trasportarmi in un qualche paese dal quale avrei potuto raggiungere la mia terra natale, per cui gli chiesi di potere usufruire di materiali per rimetterla in sesto e di ottenere il permesso di partire. Lui, dopo gentili espressioni di rincrescimento, me lo concesse.
Per tutto quel tempo rimasi molto sorpreso che il nostro imperatore non si fosse fatto vivo presso la corte di Blefuscu con qualche messaggio che riguardasse la mia persona; in seguito fui segretamente informato che Sua Maestà di Lilliput, ignaro che fossi al corrente del suo progetto, era convinto che mi fossi recato a Blefuscu solo per mantenere la promessa, e col suo assenso, come era noto a tutti, e che sarei ritornato quando fossero finiti i festeggiamenti. Col passare del tempo, tuttavia, cominciò a preoccuparsi del mio ritardo per cui, consigliatosi con il gran tesoriere e gli altri della congrega, decise di inviare un messo fidato con una copia delle accuse a mio carico. Questo emissario avrebbe dovuto presentare all’imperatore di Blefuscu la clemenza del suo padrone, il quale si era limitato a condannarmi alla perdita degli occhi, comunicandogli inoltre che mi ero sottratto alla giustizia per cui, se non avessi fatto ritorno entro due ore, sarei stato privato del titolo di “nardac” e dichiarato traditore. L’emissario aggiunse poi che, nel mutuo rispetto e rafforzamento dell’amicizia dei due paesi, il suo padrone non dubitava che il fratello di Blefuscu avrebbe fatto in modo di rispedirmi a Lilliput, legato mani e piedi, per subire la punizione che spetta ai traditori. L’imperatore di Blefuscu rifletté per tre giorni, poi fece conoscere la sua risposta, piena di cortesia e di scuse, nella quale specificava che, quanto al fatto di rinviarmi indietro tutto legato, suo fratello sapeva bene che era impossibile; che se pure ero stato io a sottrargli la flotta, tuttavia si sentiva in debito per quanto avevo fatto al momento di ratificare la pace. Inoltre entrambi i sovrani si sarebbero liberati ben presto di me, poiché avevo rinvenuto sulla spiaggia un enorme vascello, capace di trasportarmi in mare e aggiunse che lui stesso aveva ordinato di ripararlo sotto la mia direzione. In questo modo sperava che in poche settimane entrambi gli imperi si sarebbero liberati di una presenza tanto ingombrante. Con questa risposta l’emissario fu rinviato a Lilliput, mentre l’imperatore di Blefuscu mi raccontò il tutto a cose fatte, offrendomi allo stesso tempo e in gran segreto la sua benevola protezione, se avessi voluto restare al suo servizio. Ma sebbene lo ritenessi sincero in questa proposta, ero ormai deciso a non riporre più fiducia nei principi e nei ministri, almeno fino a quando l’avessi potuto evitare; per cui gli presentai umili scuse, insieme alla più viva riconoscenza per le sue buone intenzioni. Gli dissi che la buona o cattiva sorte mi aveva fatto imbattere in una barca e che preferivo affidarmi all’oceano, piuttosto che essere il pomo della discordia fra due potenti sovrani. Non mi sembrò tanto dispiaciuto della mia decisione, anzi, da un certo avvenimento, capii che il re e i ministri erano più che felici della mia partenza.
Tutto questo contribuì ad affrettare i preparativi di un commiato molto più imminente di quanto avessi creduto, e non mi mancarono certo gli aiuti della corte, impaziente di vedermi andare via. Furono messi a mia disposizione cinquecento sarti per fare le vele della barca, ottenute sovrapponendo tredici strati del tessuto più robusto che avevano, mentre io stesso faticai non poco a confezionare cordame e sartie attorcigliando dieci, venti e anche trenta delle loro corde più grosse e robuste. Per àncora presi un pietrone nel quale mi ero imbattuto lungo la spiaggia dopo lunghe ricerche; per ingrassare la barca mi dettero il sego di trecento buoi. Il difficile fu tagliare le piante più grosse per farne i remi e l’alberatura, ma per fortuna ebbi la collaborazione dei maestri d’ascia reali che levigarono i tronchi dopo che li avevo sgrossati.
Dopo un mese fu tutto pronto e mi recai da Sua Maestà per prendere commiato. Quando l’imperatore uscì dal palazzo con la famiglia reale, mi distesi per baciargli la mano che lui benevolmente mi tendeva e così feci con l’imperatrice e i prìncipi. Sua Maestà mi regalò cinquanta borse di duecento “sprugs” ognuna e il suo ritratto a grandezza naturale che sistemai subito in uno dei miei guanti perché non si danneggiasse. Ma tante e tante furono le cerimonie della partenza che non voglio star qui a importunare il lettore con la loro descrizione.
Stivai la barca con la carne di un centinaio di buoi, trecento pecore, pane e bevande in proporzione adeguata e tanti cibi precotti quanti ne poterono confezionare quattrocento cuochi. Feci portare sulla barca anche sei mucche, due tori e altrettante pecore e montoni per moltiplicarne la razza nel mio paese; per dar loro da mangiare durante il viaggio mi portai anche un fascio di fieno e un sacchetto di grano. Mi sarebbe piaciuto imbarcare anche una dozzina di indigeni, ma l’imperatore non me lo avrebbe consentito in nessun modo ed anzi, dopo un’accurata ispezione nelle mie tasche, mi fece giurare sull’onore che non avrei portato via nessuno dei suoi sudditi, sia pure con il loro consenso.
Sistemata ogni cosa meglio che potevo, salpai il ventiquattro settembre 1701 alle sei del mattino e, dopo avere percorso quattro leghe in direzione nord, sospinto dal vento che spirava da sud-est, alle sei della sera vidi un’isoletta a mezza lega in direzione nordoccidentale. Mi avvicinai e gettai l’àncora dalla parte contro vento di quell’isola che sembrava disabitata; allora mi ristorai un po’ e mi misi a dormire. Riposai della grossa e per sei ore filate perché, un paio d’ore dopo che mi ero svegliato, spuntò il giorno; feci colazione prima del sorgere del sole quindi, levata l’àncora e con il favore del vento, ripresi il cammino nella direzione del giorno precedente con la guida della bussola tascabile. Volevo raggiungere possibilmente una di quelle isole che si trovano a nord-est della terra di Van Diemen. Per tutta la giornata non vidi nulla, ma il giorno dopo, verso le tre del pomeriggio, quando dai calcoli fatti avevo percorso ventiquattro leghe da Blefuscu, vidi una vela che seguiva una rotta simile alla mia verso sud-est. Lanciai dei richiami, ma non ebbi risposta anche se, col calare del vento, stavo sempre più avvicinandomi. Cercai di prendere vento più che potevo finché, dopo mezzora, si accorsero di me, alzarono la bandiera e spararono un colpo dl cannone. Mi è difficile trovare le parole per esprimere la gioia ddavanti a quell’inaspettata occasione di rivedere la mia amata terra e gli amati cari che vi avevo lasciati. La nave ammainò le vele ed accostai ad essa alle sei della sera del 26 settembre. Il cuore mi balzò in gola al vedere i colori dell’Inghilterra. Mi infilai pecore e mucche nelle tasche della giacca e salii a bordo col mio piccolo carico di provviste. Si trattava di una nave inglese da carico che, attraverso i mari del nord e del sud, tornava dal Giappone; il capitano, persona civilissima ed ottimo marinaio, era il signor John Biddel di Deptford. Ci trovavamo a trenta gradi di latitudine sud. Fra l’equipaggio di una cinquantina di persone incontrai un vecchio compagno, certo Pietro Williams che mi parlò assai bene del capitano. Questi mi trattò infatti con cortesia e volle sapere il posto che avevo lasciato per ultimo e dove fossi diretto; risposi in poche parole, ma quello pensò che vaneggiassi e che i pericoli affrontati mi avessero dato di volta al cervello. Al che tirai fuori pecore e mucche dalle tasche e lui, con grande meraviglia, dovette ricredersi. Allora gli mostrai l’oro che mi aveva donato l’imperatore di Blefuscu, con il ritratto di Sua Maestà a grandezza naturale e altre rarità di quel paese. Gli detti due borse di duecento “sprugs” ciascuna e gli promisi che, quando saremmo arrivati in Inghilterra, gli avrei regalato una mucca e una pecora pregne.
Non starò ad annoiare il lettore con il resoconto del viaggio che per la maggior parte fu veramente propizio. Arrivammo ai Downs nell’Inghilterra meridionale il 13 aprile 1702 e devo lamentarmi di una sola disgrazia. I topi di bordo mi avevano portato via una pecora e ne ritrovai le ossa spolpate in un buco. Portai a terra tutti gli altri animali del mio gregge, che feci pascolare in un campo da gioco a Greenwich; trovarono un’erba tenera che mise loro un buon appetito, sebbene avessi temuto il contrario. Né mi sarebbe stato possibile tenerli in vita in un così lungo viaggio, se il capitano non mi avesse dato i suoi biscotti più buoni che, ridotti in polvere e mescolati ad acqua, avevano costituito il loro cibo quotidiano. Durante il breve periodo che rimasi in Inghilterra, guadagnai parecchio mostrando le mie bestie a persone di rango e, prima di riprendere il mare per il mio secondo viaggio, le vendetti per seicento sterline. Quando sono ritornato l’ultima volta, ho trovato che l’allevamento è assai aumentato, specie quello delle pecore; per cui spero che sarà di grande incremento per le manifatture della lana, considerata la finissima qualità del vello. Con mia moglie e la famiglia non rimasi che due mesi, perché il vivissimo desiderio di scoprire terre straniere non mi permise di restare più a lungo. A mia moglie lasciai mille e cinquecento sterline e un buon alloggio a Redriff; il resto dei miei beni, parte in monete e parte in merci, lo portai con me nella speranza di migliorare le mie sostanze. Il vecchio zio Giovanni mi aveva lasciato in eredità della terra vicino a Epping che rendeva una trentina di sterline l’anno, e poi avevo affittato il mio terreno, detto del Toro Nero, a Fetter Lane, che mi procurava un’analoga somma. Non c’era dunque pericolo che la mia famiglia rischiasse di dover vivere della carità parrocchiale. Mio figlio Gianni, così chiamato dal nome dello zio, era un ragazzo a modo e frequentava la scuola, mia figlia Bettina (oggi sposa e madre) aveva allora l’età in cui si impara l’uncinetto. Presi commiato da mia moglie e dai miei figli, non senza lacrime da parte mia e loro, e m’imbarcai sull’”Avventura”, una nave da carico di trecento tonnellate, comandata dal capitano Giovanni Nicholas di Liverpool diretta a Surat. Il resoconto di questo viaggio sarà materia della seconda parte del libro.
PARTE SECONDA.
VIAGGIO A BROBDINGNAG.
1 -UNA TEMPESTA TERRIBILE. IN CERCA D’ACOUA CON UNA LANCIA SULLA QUALE SALE L’AUTORE PER ESPLORARE IL PAESE. ABBANDONATO SULLA SPIAGGIA, VIENE CATTURATO DA UN ABITANTE DEL LUOGO E PORTATO A CASA DI UN AGRICOLTORE.
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