Ma Sua Maestà era deciso, nei limiti del possibile, a risparmiarti la vita e riuscì ad avere dalla sua parte il ciambellano di corte. Fu a questo punto che l’imperatore volle sentire l’opinione di Reldresal,  primo segretario  agli  interni,  che  si  è sempre dimostrato tuo amico.  Le sue parole confermarono l’idea che ti sei fatta di questa persona. Lui riconobbe la gravità delle accuse, ma ricordò nello stesso tempo che si doveva  ricorrere  pur  sempre  alla clemenza,  la  miglior  virtù  di un principe e della quale Sua Maestà poteva di diritto andare fiero.  Disse che era a tutti nota l’amicizia che lo legava a te da tanto tempo e che di conseguenza le sue opinioni potevano sembrare partigiane a quel consesso,  tuttavia, in ossequio a quanto gli era stato richiesto,  avrebbe espresso in piena libertà  le sue  idee.  Disse  allora  che  Sua Maestà,  in riconoscenza dei buoni servigi resi e in ottemperanza alla sua natura misericordiosa, avrebbe dovuto risparmiarti la vita,  limitandosi  a  accecarti  entrambi  gli occhi. Con questa risoluzione egli umilmente credeva che si potesse in qualche modo fare giustizia, mentre tutto il popolo avrebbe applaudito quell’atto  di  clemenza  imperiale,  e  con  esso  la generosità e la giustizia di coloro che hanno  l’onore  di  essere  suoi  consiglieri.  Aggiunse  che la perdita della vista non avrebbe in alcun modo ridotta la tua forza,  grazie alla quale sei tanto utile a Sua  Maestà  poiché anzi la cecità aumenta il coraggio, in quanto ci impedisce di vedere i pericoli,  se  è vero che proprio il timore per i tuoi occhi era stato il maggiore ostacolo nel portar via la flotta nemica  e  che,  infine, sarebbe  stato  per  te  sufficiente  vedere  attraverso gli occhi dei ministri, così come fanno anche i monarchi più potenti.  “Questa proposta incontrò la  più  intransigente  disapprovazione  del consiglio.  L’ammiraglio  Bolgolam  non  poté trattenere la sua ira e, saltando in piedi su tutte le furie,  disse che non si capacitava come un  segretario  agli  interni osasse proporre di salvare la vita di un traditore;  che i servigi che tu avevi  reso  erano,  proprio  per  la ragion  di stato,  la peggiore aggravante ai tuoi delitti;  che la tua capacità di spegnere incendi orinandovi sopra,  come avevi  fatto  con l’appartamento della regina (azione che,  ricordò con orrore,  avrebbe potuto,  in un’altra occasione,  provocare l’inondazione del  Palazzo; che così come,  grazie alla tua forza, avevi potuto trascinare fin qui la flotta nemica, altrettanto bene avresti potuto riportarla al nemico al primo dissapore che tu avessi avuto con noi;  che infine  aveva  le sue  buone  ragioni  di crederti,  in fondo al cuore,  un Puntalarga e poiché  il  tradimento  cova  nel  cuore  prima  di  manifestarsi,  in conseguenza di ciò ti accusava di tradimento,  insistendo che tu fossi messo a morte.

“Della stessa opinione si disse il gran tesoriere.  Mise  in  luce  in quali  misere condizioni si fosse ridotto l’erario,  incapace ormai di fare fronte al tuo mantenimento,  sostenendo inoltre che la  proposta, avanzata dal segretario agli interni,  di cavarti gli occhi,  non solo non costituiva un rimedio contro il danno,  ma avrebbe contribuito  ad accrescerlo.  Ti sarebbe infatti successo come a certi tipi di uccelli che,  una volta accecati,  mangiano il doppio ingrassando rapidamente.  Concluse dicendo che Sua Maestà e il Consiglio, tuoi giudici naturali, erano  fermamente  convinti della tua colpevolezza,  di per sé ragione sufficiente per condannarti alla pena capitale,  anche senza le  prove formali richieste dalla lettera della legge.  “Ma Sua Maestà Imperiale,  nettamente contrario alla pena di morte, si compiacque graziosamente di osservare che, se il Consiglio riteneva la perdita della vista una punizione  troppo  lieve,  si  sarebbe  potuta aggiungere  ad  essa qualche altra mutilazione.  A questo punto il tuo amico, segretario agli interni, dopo aver chiesto di essere ascoltato, per  replicare  a  quanto  aveva  sostenuto  il  tesoriere  circa   le difficoltà  incontrate  dall’erario  per  mantenerti,  disse  che  Sua Eccellenza,  che era il  solo  a  disporre  delle  rendite  imperiali, avrebbe  potuto  ovviare facilmente a questo inconveniente tagliandoti gradualmente  i  viveri;   grazie  a  questo  espediente  ti   saresti infiacchito  rapidamente,  avresti  perso l’appetito,  consumandoti in pochi mesi dopo di che il puzzo della tua carcassa non  avrebbe  certo costituito un pericolo,  ridotta come sarebbe stata della metà. E poi, subito dopo la tua morte,  cinque o seimila sudditi  avrebbero  dovuto spolparti  le  ossa  in  fretta  e  furia  e seppellire la carne nelle contrade più remote del regno per prevenire epidemie,  mentre  il  tuo scheletro  sarebbe  rimasto  come  un  monumento per l’ammirazione dei posteri.

“Fu  così  che  si  giunse  ad  un  compromesso  per  l’amicizia   del segretario.  Si  stabilì dunque di tenere segreto il progetto di farti morire d’inedia, mentre venne verbalizzata la decisione di infliggerti l’accecamento. A questo nessuno si oppose ad eccezione dell’ammiraglio Bolgolam il quale,  istigato dalla regina,  di cui  era  un  favorito, continuò  ad insistere sulla pena di morte.  La regina,  infatti,  non aveva  mai  smesso  di  odiarti  dopo  che  tu  spegnesti   l’incendio nell’infamante ed illegale maniera che sai.  “Entro  tre  giorni  il  tuo  amico segretario verrà a leggerti i capi d’accusa e a dimostrarti la grande  clemenza  e  la  simpatia  di  Sua Maestà,  grazie alla quale ti si condanna solamente alla perdita degli occhi; pena, questa, alla quale Sua Maestà è sicuro che ti sottoporrai con animo  grato,  mentre  venti  chirurghi  reali  avranno  cura  che l’operazione, la quale consiste nello scagliarti acuminatissime frecce nei  globi oculari,  mentre te ne starai disteso sul pavimento,  venga eseguita secondo le regole.

“Lascio a te prendere le misure più  opportune,  mentre  io,  per  non destare sospetti, devo svignarmela in gran segreto, come sono venuto.” Uscita  sua Signoria,  rimasi solo con mille dubbi e incertezze sul da farsi. Secondo un’abitudine introdotta dall’attuale regnante e dal suo ministero  (che  non  trovava  riscontro,  come  mi  fu  detto,  nelle procedure  seguite  nei  tempi  antichi),  dopo  che  la  Corte  aveva decretato un’esecuzione crudele, vuoi per appagare l’ira regale,  o la malvagità  di  qualche  favorito,  l’imperatore  in  persona teneva un discorso al consiglio riunito in seduta plenaria,  nel quale esprimeva la  sua  grande  clemenza e la sua generosità,  come doti conosciute e risapute in tutto il mondo. Questo discorso venne promulgato e diffuso in tutto il reame e nulla diffuse il terrore nella popolazione  quanto i riferimenti encomiastici alla clemenza reale; perché si sapeva ormai molto  bene  che,  quanto  più  si  insisteva e si propagandavano tali encomi,  tanto più  disumana  sarebbe  stata  la  pena,  e  tanto  più innocente l’accusato destinato a subirla. Quanto a me, devo confessare che,  non  essendo  mai  stato  destinato  alla vita di corte,  né per nascita,  né per educazione,  ed essendo quindi un pessimo giudice  in materia,  non  riuscivo  a  capire  dove fosse tutta quella clemenza e quella simpatia alla quale la sentenza  faceva  riferimento;  anzi,  e forse mi sbaglio,  mi sembrava più rigorosa che mite. Più di una volta fui sul punto di accettare il processo,  sperando di poter attenuare i fatti  menzionati  nei  vari  capi  d’accusa,  visto che non li potevo negare;  ma troppe volte in vita mia ho assistito a processi di  stato che  immancabilmente  finivano  secondo le direttive dei giudici,  per affidarmi, nella condizione in cui mi trovavo e con tali nemici, ad un verdetto tanto pericoloso. Per un momento pensai di opporre resistenza perché,  finché fossi rimasto libero,  difficilmente  tutte  le  forze riunite dell’impero avrebbero potuto soggiogarmi,  mentre avrei potuto con estrema facilità  ridurre  in  macerie  la  capitale  a  furia  di sassate.  Eppure  respinsi  con  orrore questa idea,  ricordandomi del giuramento che avevo fatto a Sua Maestà, dei favori che avevo ricevuto da lui, e del titolo di “nardac” che si era degnato di conferirmi.  Né ero entrato a tal punto nel ruolo di cortigiano, da persuadermi che la severità  oggi  dimostratami dall’imperatore avrebbe potuto cancellare tutti gli obblighi contratti nel passato.  Alla fine presi una decisione che potrà suscitare qualche  perplessità e  non  a  sproposito;  infatti  ammetto  che devo i miei occhi,  e di conseguenza la libertà, all’avventatezza e alla mancanza d’esperienza, perché,  se avessi conosciuto allora la  vera  natura  di  prìncipi  e ministri, quale poi mi è capitato di osservare in molte altre corti, e i loro modi di trattare prigionieri sotto accusa meno colpevoli di me, mi  sarei  sottoposto  subito  e  di  buon grado ad una condanna tanto lieve.  Ma con l’impulsività propria dei giovani,  avendo il  permesso imperiale  di  far  visita  all’imperatore di Blefuscu,  presi al volo l’occasione prima  dello  scadere  dei  tre  giorni,  comunicando  per lettera al mio amico segretario che sarei partito il giorno stesso per Blefuscu;  senza  attendere  una  risposta,  mi diressi verso la costa dell’isola dove si trovava all’ancora la nostra flotta.  Afferrai  una grossa nave e,  salpate le ancore, legai una corda alla prua poi, dopo essermi spogliato, ci misi gli abiti e la coperta, che tenevo sotto il braccio, e cominciai a trascinarmela dietro, un poi’ guadando e un po’ nuotando, finché arrivai al porto reale di Blefuscu,  dove la gente mi aspettava da tempo.

Due guide mi portarono alla capitale che ha lo stesso nome.  Le portai in mano finché giungemmo a duecento metri  dalle  porte  della  città, quindi  le mandai ad avvertire un segretario di corte del mio arrivo e a riferirgli che attendevo gli ordini di Sua Maestà.  Un’ora più tardi mi fu detto che Sua Maestà con tutta la famiglia reale e gli ufficiali di  corte stavano per venire incontro a ricevermi.  Mi feci avanti per un centinaio di metri e,  mentre Sua Maestà e il seguito scendevano da cavallo  e  l’imperatrice e le dame dalle carrozze,  non mi sembrò che quelle signorie dessero segni di paura o di imbarazzo.  Mi  stesi  per terra per baciare la mano a Sua Altezza e alla consorte imperiale, poi gli  dissi  che  ero  venuto  per mantenere la promessa fatta,  con il permesso del mio padrone, l’imperatore, per avere l’onore di vedere un così potente monarca e offrirgli i miei  servigi,  compatibilmente  ai doveri  che mi legavano al mio sovrano.  Ma non feci alcun riferimento al fatto che ero caduto in disgrazia,  prima di tutto  perché  non  ne avevo  avuto  la  comunicazione ufficiale e dunque avrei potuto essere totalmente all’oscuro dei progetti a mio danno né d’altra parte potevo pensare che l’imperatore di  Lilliput  avrebbe  divulgato  la  notizia mentre  non  ero  in  suo  potere;  su questo ultimo punto,  tuttavia, dovetti accorgermi presto che mi sbagliavo.  Non  starò  qui  a   infastidire   il   lettore   con   il   resoconto particolareggiato  del mio ricevimento a corte,  secondo la generosità di un così gran principe;  né ai disagi  che  dovetti  affrontare  per mancanza  di una casa e di un letto,  costretto come fui a dormire per terra avvolto nella mia coperta.

8 -GRAZIE AD UN  FORTUNATO  IMPREVISTO  L’AUTORE  TROVA  IL  MODO  DI LASCIARE  BLEFUSCU  E,  DOPO  ALCUNE TRAVERSIE,  TORNA SANO E SALVO IN PATRIA.

Tre giorni dopo il mio arrivo me ne andavo curiosando verso  la  costa nord  orientale  dell’isola,  quando  vidi  a  mezzo miglio della riva qualcosa che sembrava una barca rovesciata.  Mi levai calze e scarpe e cominciai  a  inoltrarmi  nell’acqua per due o trecento metri,  finché vidi che si trattava proprio di una barca,  che mi veniva incontro con il  flusso  della  marea  e  che  qualche tempesta aveva probabilmente strappato ad una nave.  Tornai subito alla capitale per farmi prestare da Sua Maestà venti dei più alti galeoni che gli erano rimasti dopo la perdita   della   flotta  e  tremila  marinai,   al  comando  del  suo viceammiraglio.  Mentre la flotta  salpava  per  costeggiare  l’isola, raggiunsi con una scorciatoia il posto dove avevo trovato la barca. La marea  l’aveva portata ancora più vicina alla riva.  I marinai d’altra parte erano  tutti  provvisti  di  cordame  che  avevo  in  precedenza attorcigliato  insieme  per renderlo più resistente.  All’arrivo delle navi,  mi spogliai e camminai nell’acqua fino a un cento  metri  dalla barca;  qui fui costretto a fare una bella nuotata per raggiungerla. I marinai mi lanciarono un capo della corda che legai stretta all’anello di prua della barca,  mentre l’altro  capo  venne  legato  a  uno  dei vascelli.  Ma mi sembrò subito una fatica improba, perché non riuscivo a destreggiarmi nell’acqua dove non toccavo.  Dovetti  quindi  nuotare dietro  la  barca,  spingendola  con  una  mano più spesso che potevo, finché,  aiutato dalla marea,  riuscii a raggiungere il punto dove  si toccava.  Mi  fermai  per  prendere  fiato  qualche minuto,  poi detti un’altra spinta alla barca con l’acqua  che  mi  arrivava  ormai  alle ascelle.  Il  più  ormai era fatto e non mi rimase che tirare fuori il cordame stivato in una nave,  legando  la  barca  al  traino  di  nove velieri che mi erano accanto. Con il favore del vento, le mie spinte e il  traino  delle navi,  portammo la barca a non più di quaranta metri dalla riva e qui, aspettata la bassa marea, la trascinai in secco. Con l’aiuto di duemila uomini,  fornii di  corde  e  paranchi,  riuscii  a rimetterla  con la chiglia sulla sabbia e fu allora che mi accorsi che era leggermente danneggiata.

Non starò a  seccare  il  lettore  con  la  difficoltà  che  ebbi  nel trasportare  quell’imbarcazione al porto reale di Blefuscu,  facendola scorrere su pali,  la cui preparazione mi  richiese  dieci  giorni  di fatiche;  arrivato  alla  capitale  fui  accolto  da  una grande folla estasiata alla vista di un così enorme vascello.  Dissi all’imperatore che  la  mia  buona  stella  mi aveva fatto imbattere su quella barca, capace di trasportarmi in un qualche  paese  dal  quale  avrei  potuto raggiungere  la  mia  terra  natale,  per  cui  gli  chiesi  di potere usufruire di materiali per  rimetterla  in  sesto  e  di  ottenere  il permesso di partire.  Lui, dopo gentili espressioni di rincrescimento, me lo concesse.

Per tutto quel tempo rimasi molto sorpreso che  il  nostro  imperatore non  si  fosse  fatto  vivo  presso  la  corte di Blefuscu con qualche messaggio che riguardasse la mia persona;  in seguito fui segretamente informato che Sua Maestà di Lilliput, ignaro che fossi al corrente del suo  progetto,  era  convinto  che mi fossi recato a Blefuscu solo per mantenere la promessa, e col suo assenso, come era noto a tutti, e che sarei ritornato quando fossero finiti i  festeggiamenti.  Col  passare del tempo,  tuttavia, cominciò a preoccuparsi del mio ritardo per cui, consigliatosi con il gran tesoriere e gli altri della congrega, decise di inviare un messo fidato con una copia delle accuse  a  mio  carico.  Questo  emissario avrebbe dovuto presentare all’imperatore di Blefuscu la clemenza del suo padrone,  il quale si era limitato  a  condannarmi alla perdita degli occhi,  comunicandogli inoltre che mi ero sottratto alla giustizia per cui,  se non avessi fatto ritorno  entro  due  ore, sarei  stato  privato  del  titolo di “nardac” e dichiarato traditore.  L’emissario aggiunse poi  che,  nel  mutuo  rispetto  e  rafforzamento dell’amicizia  dei  due  paesi,  il  suo  padrone  non dubitava che il fratello di Blefuscu avrebbe fatto in modo di rispedirmi  a  Lilliput, legato mani e piedi,  per subire la punizione che spetta ai traditori.  L’imperatore di Blefuscu rifletté per tre giorni,  poi fece  conoscere la sua risposta, piena di cortesia e di scuse, nella quale specificava che,  quanto al fatto di rinviarmi indietro tutto legato, suo fratello sapeva bene che era impossibile; che se pure ero stato io a sottrargli la flotta,  tuttavia si sentiva in debito per quanto  avevo  fatto  al momento di ratificare la pace. Inoltre entrambi i sovrani si sarebbero liberati  ben  presto di me,  poiché avevo rinvenuto sulla spiaggia un enorme vascello,  capace di trasportarmi in mare e  aggiunse  che  lui stesso  aveva ordinato di ripararlo sotto la mia direzione.  In questo modo sperava che in poche settimane entrambi gli imperi  si  sarebbero liberati di una presenza tanto ingombrante.  Con  questa  risposta  l’emissario  fu  rinviato  a  Lilliput,  mentre l’imperatore di Blefuscu mi raccontò il tutto a cose fatte, offrendomi allo stesso tempo e in gran segreto la  sua  benevola  protezione,  se avessi voluto restare al suo servizio. Ma sebbene lo ritenessi sincero in  questa  proposta,  ero  ormai deciso a non riporre più fiducia nei principi e nei ministri, almeno fino a quando l’avessi potuto evitare; per cui gli presentai umili scuse,  insieme alla più viva riconoscenza per le sue buone intenzioni. Gli dissi che la buona o cattiva sorte mi aveva   fatto  imbattere  in  una  barca  e  che  preferivo  affidarmi all’oceano,  piuttosto che essere il  pomo  della  discordia  fra  due potenti sovrani.  Non mi sembrò tanto dispiaciuto della mia decisione, anzi, da un certo avvenimento,  capii che il re e i ministri erano più che felici della mia partenza.

Tutto  questo  contribuì  ad  affrettare  i preparativi di un commiato molto più imminente di quanto avessi creduto, e non mi mancarono certo gli aiuti della corte, impaziente di vedermi andare via.  Furono messi a  mia  disposizione  cinquecento  sarti per fare le vele della barca, ottenute sovrapponendo tredici strati  del  tessuto  più  robusto  che avevano,  mentre  io  stesso faticai non poco a confezionare cordame e sartie attorcigliando dieci, venti e anche trenta delle loro corde più grosse e robuste.  Per àncora presi  un  pietrone  nel  quale  mi  ero imbattuto  lungo  la spiaggia dopo lunghe ricerche;  per ingrassare la barca mi dettero il sego di trecento buoi. Il difficile fu tagliare le piante più grosse per farne i remi e l’alberatura, ma per fortuna ebbi la collaborazione dei maestri d’ascia reali che levigarono  i  tronchi dopo che li avevo sgrossati.

Dopo  un  mese  fu  tutto pronto e mi recai da Sua Maestà per prendere commiato.  Quando l’imperatore uscì dal palazzo con la famiglia reale, mi  distesi  per  baciargli  la mano che lui benevolmente mi tendeva e così feci con  l’imperatrice  e  i  prìncipi.  Sua  Maestà  mi  regalò cinquanta  borse  di  duecento  “sprugs”  ognuna  e  il suo ritratto a grandezza naturale che sistemai subito in uno dei miei  guanti  perché non  si  danneggiasse.  Ma  tante  e  tante  furono le cerimonie della partenza che non voglio star qui a importunare il lettore con la  loro descrizione.

Stivai la barca con la carne di un centinaio di buoi, trecento pecore, pane e bevande in proporzione adeguata e tanti cibi precotti quanti ne poterono  confezionare  quattrocento cuochi.  Feci portare sulla barca anche sei  mucche,  due  tori  e  altrettante  pecore  e  montoni  per moltiplicarne la razza nel mio paese; per dar loro da mangiare durante il viaggio mi portai anche un fascio di fieno e un sacchetto di grano.  Mi  sarebbe  piaciuto  imbarcare  anche  una  dozzina di indigeni,  ma l’imperatore non me lo avrebbe consentito in nessun modo ed anzi, dopo un’accurata ispezione nelle mie tasche, mi fece giurare sull’onore che non avrei portato via nessuno dei suoi sudditi,  sia pure con il  loro consenso.

Sistemata  ogni  cosa  meglio  che  potevo,   salpai  il  ventiquattro settembre 1701 alle sei del mattino e,  dopo  avere  percorso  quattro leghe  in  direzione nord,  sospinto dal vento che spirava da sud-est, alle sei della  sera  vidi  un’isoletta  a  mezza  lega  in  direzione nordoccidentale.  Mi  avvicinai  e  gettai l’àncora dalla parte contro vento di quell’isola che sembrava disabitata;  allora mi  ristorai  un po’  e  mi  misi a dormire.  Riposai della grossa e per sei ore filate perché,  un paio d’ore dopo che mi ero svegliato,  spuntò  il  giorno; feci  colazione  prima del sorgere del sole quindi,  levata l’àncora e con il favore del vento, ripresi il cammino nella direzione del giorno precedente con la guida della bussola  tascabile.  Volevo  raggiungere possibilmente  una  di  quelle  isole  che si trovano a nord-est della terra di Van Diemen.  Per tutta la giornata  non  vidi  nulla,  ma  il giorno  dopo,  verso  le tre del pomeriggio,  quando dai calcoli fatti avevo percorso ventiquattro leghe  da  Blefuscu,  vidi  una  vela  che seguiva una rotta simile alla mia verso sud-est. Lanciai dei richiami, ma non ebbi risposta anche se, col calare del vento, stavo sempre più avvicinandomi.  Cercai  di prendere vento più che potevo finché,  dopo mezzora, si accorsero di me, alzarono la bandiera e spararono un colpo dl cannone.  Mi è difficile trovare le parole per esprimere  la  gioia ddavanti  a quell’inaspettata occasione di rivedere la mia amata terra e gli amati cari che vi avevo lasciati.  La nave ammainò  le  vele  ed accostai  ad  essa  alle sei della sera del 26 settembre.  Il cuore mi balzò in gola al vedere i colori dell’Inghilterra. Mi infilai pecore e mucche nelle tasche della giacca e  salii  a  bordo  col  mio  piccolo carico  di  provviste.  Si trattava di una nave inglese da carico che, attraverso i mari del  nord  e  del  sud,  tornava  dal  Giappone;  il capitano,  persona civilissima ed ottimo marinaio,  era il signor John Biddel di Deptford. Ci trovavamo a trenta gradi di latitudine sud. Fra l’equipaggio di  una  cinquantina  di  persone  incontrai  un  vecchio compagno,  certo Pietro Williams che mi parlò assai bene del capitano.  Questi mi trattò infatti con cortesia e  volle  sapere  il  posto  che avevo  lasciato  per  ultimo  e  dove fossi diretto;  risposi in poche parole, ma quello pensò che vaneggiassi e che i pericoli affrontati mi avessero dato di volta al cervello. Al che tirai fuori pecore e mucche dalle tasche e lui, con grande meraviglia, dovette ricredersi.  Allora gli mostrai l’oro che mi aveva donato l’imperatore di Blefuscu, con il ritratto  di  Sua  Maestà  a grandezza naturale e altre rarità di quel paese. Gli detti due borse di duecento “sprugs” ciascuna e gli promisi che,  quando saremmo arrivati in Inghilterra,  gli avrei regalato  una mucca e una pecora pregne.

Non  starò ad annoiare il lettore con il resoconto del viaggio che per la  maggior  parte  fu  veramente   propizio.   Arrivammo   ai   Downs nell’Inghilterra  meridionale  il  13 aprile 1702 e devo lamentarmi di una sola disgrazia.  I topi di bordo mi avevano portato via una pecora e  ne  ritrovai le ossa spolpate in un buco.  Portai a terra tutti gli altri animali del mio gregge,  che feci pascolare in un campo da gioco a Greenwich;  trovarono un’erba tenera che mise loro un buon appetito, sebbene avessi temuto il contrario.    mi  sarebbe  stato  possibile tenerli in vita in un così lungo viaggio, se il capitano non mi avesse dato i suoi biscotti più buoni che,  ridotti in polvere e mescolati ad acqua, avevano costituito il loro cibo quotidiano.  Durante  il  breve  periodo  che  rimasi  in  Inghilterra,   guadagnai parecchio  mostrando  le  mie  bestie  a persone di rango e,  prima di riprendere il mare  per  il  mio  secondo  viaggio,  le  vendetti  per seicento  sterline.  Quando sono ritornato l’ultima volta,  ho trovato che l’allevamento è assai aumentato,  specie quello delle pecore;  per cui spero che sarà di grande incremento per le manifatture della lana, considerata la finissima qualità del vello.  Con  mia  moglie  e  la  famiglia  non rimasi che due mesi,  perché il vivissimo desiderio di scoprire terre  straniere  non  mi  permise  di restare più a lungo. A mia moglie lasciai mille e cinquecento sterline e un buon alloggio a Redriff;  il resto dei miei beni, parte in monete e parte in merci, lo portai con me nella speranza di migliorare le mie sostanze.  Il vecchio zio Giovanni mi aveva lasciato in eredità  della terra  vicino a Epping che rendeva una trentina di sterline l’anno,  e poi avevo affittato il mio terreno,  detto del  Toro  Nero,  a  Fetter Lane, che mi procurava un’analoga somma. Non c’era dunque pericolo che la  mia famiglia rischiasse di dover vivere della carità parrocchiale.  Mio figlio Gianni, così chiamato dal nome dello zio,  era un ragazzo a modo e frequentava la scuola,  mia figlia Bettina (oggi sposa e madre) aveva allora l’età in cui si impara l’uncinetto. Presi commiato da mia moglie e dai miei figli,  non senza lacrime da parte  mia  e  loro,  e m’imbarcai   sull’”Avventura”,   una   nave   da  carico  di  trecento tonnellate,  comandata dal capitano  Giovanni  Nicholas  di  Liverpool diretta  a  Surat.  Il  resoconto di questo viaggio sarà materia della seconda parte del libro.

PARTE SECONDA.

VIAGGIO A BROBDINGNAG.

1 -UNA TEMPESTA TERRIBILE.  IN CERCA D’ACOUA  CON  UNA  LANCIA  SULLA QUALE  SALE  L’AUTORE  PER  ESPLORARE  IL  PAESE.   ABBANDONATO  SULLA SPIAGGIA, VIENE CATTURATO DA UN ABITANTE DEL LUOGO E PORTATO A CASA DI UN AGRICOLTORE.