DESCRIZIONE DEGLI ABITANTI.
La natura e il destino mi hanno sempre costretto ad una vita attiva e senza riposo, tanto che a due mesi dal mio riorno in patria mi imbarcai nell’Inghilterra meridionale, il 20 giugno 1702, sull’”Avventura”, comandata dal capitano Giovanni Nicholas, della Cornovaglia, diretta a Surat. Navigammo con il vento in poppa fino al Capo di Buona Speranza, dove scendemmo per rifornirci d’acqua. Scoperta una falla, scaricammo la merce per passare l’inverno in quei posti, e poiché nel frattempo il capitano si era preso le febbri, non fu possibile riprendere il mare fino alla fine di marzo. Spiegate le vele, facemmo buon viaggio fino oltre lo stretto del Madagascar. Quando fummo a nord di quell’isola, a circa cinque gradi di latitudine sud, sebbene i venti soffino di solito in quei paraggi fra nord e ovest dall’inizio di dicembre ai primi di maggio, il 19 aprile si alzò un vento molto più impetuoso del solito che si mise a soffiare incessantemente da occidente per venti giorni, dirottandoci ad est delle isole Molucche e a circa tre gradi a nord della linea dell’equatore, come rilevò il capitano il 2 di maggio. Quel giorno il vento cadde e lasciò il posto a una calma assoluta di cui mi rallegrai non poco. Ma lui, che aveva sulle spalle la lunga esperienza di quei mari, ci ordinò di prepararci ad affrontare una tempesta che, infatti, non si fece aspettare: il giorno dopo cominciò a soffiare il vento da sud, chiamato il monsone di mezzogiorno.
Prevedendo che si sarebbe presto scatenata una burrasca, raccogliemmo la vela di tarchia, pronti ad ammainare quella di trinchetto e poiché volgeva al peggio, ci assicurammo che i cannoni fossero fissati saldamente e ammainammo l’albero di mezzana. La nave si trovava al largo e così pensammo che sarebbe stato meglio affrontare i marosi, piuttosto che starcene lì a farci sballottare senza governo. Facemmo quindi terzaruolo della vela di trinchetto accodando le scotte, mentre il timone stava con la barra tutta a vento. La nave rispondeva a meraviglia. Legammo quindi la drizza, ma la vela era squarciata da cima a fondo, così dovemmo ammainare il pennone, tirando giù la vela sul ponte e togliendo di mezzo qualsiasi cosa per farle posto. Era proprio un violentissimo fortunale e i marosi s’infrangevano con pericoloso e insolito vigore. Alammo la gomena dell’asta della ghia, cercando di dare una mano al timoniere. Non volevamo infatti ammainare la gabbia di maestra, perché con la sua spinta affrontavamo assai bene le onde e sapevamo che la gabbia di maestra dava alla nave stabilità, spingendola più sicura verso il mare, che non ci mancava di certo. Quando si placò la tempesta, spiegammo le vele di trinchetto e di maestra, facendo riprendere fiato alla nave. Venne poi la volta delle vele di mezzana, della gabbia di maestra e di trinchetto. Veleggiavamo a est-nord-est, sospinti dal vento di sud-ovest. Tirammo a bordo le murate di destra, mettemmo fuori i bracci di sopravvento e le mantiglie; ponemmo in opera i bracci di sottovento, procedendo con le boline ben strette; infine alammo l’attrezzatura di mezzana verso il vento, perché si gonfiasse il più possibile. Durante la tempesta, seguita da un forte vento di sud-sud-ovest, la nave era stata trascinata, secondo i calcoli, per circa cinquecento leghe ad oriente, tanto che anche il più vecchio dei marinai non sapeva capacitarsi in che parte del mondo fossimo andati a finire. Non ci mancavano certo le provviste, il vascello era solido, l’equipaggio in buona salute, ma l’acqua era agli sgoccioli. La cosa migliore era quella di tenere la stessa rotta, piuttosto che dirigerci più a nord, col pericolo di andare a finire nelle province settentrionali della gran Tartaria o nei mari glaciali.
Il 16 giugno 1703 un mozzo annunciò terra dall’albero maestro. Il 17 potemmo vedere distintamente una grande isola o un continente, non sapevamo infatti di quale dei due si trattasse, da cui si spingeva verso sud una lingua di terra e un’insenatura dall’acqua troppo bassa perché ci si potesse avventurare una nave di cento tonnellate. Gettammo l’ancora a un miglio dall’insenatura e il capitano mandò una dozzina dei suoi uomini armati, in una barca provvista di recipienti, per vedere se c’era dell’acqua dolce. Chiesi il permesso di andare con loro per potere visitare quella terra e fare possibilmente qualche scoperta. Arrivati a terra non vedemmo né fiumi né sorgenti, né nessun segno di abitanti. Gli uomini si misero quindi a esplorare la spiaggia per scoprire qualche sorgente d’acqua dolce vicino al mare, mentre io, da solo, mi inoltrai per un miglio dalla parte opposta in quella terra desolata e rocciosa. Mi sentivo ormai stanco, e poiché non c’era nulla che mi avesse interessato, me ne tornai indietro pian piano verso l’insenaturaa. Quando fui in vista del mare vidi che gli uomini erano già risaliti sulla scialuppa e remavano alla disperata verso la nave. Stavo per chiamarli, ma sarebbe stato vano, quando vidi un essere enorme che arrancava in mare dietro di loro più forte che poteva. L’acqua non gli arrivava oltre i ginocchi e faceva passi enormi, ma loro avevano per fortuna un vantaggio di un mezzo miglio, e poiché il mare intorno era costellato di scogli acuminati, il mostro non riuscì a raggiungere la barca. Questo mi fu detto dopo, perché al momento non osai seguire le cose fino in fondo, ma corsi a perdifiato nella direzione dalla quale ero venuto. Salii quindi per una ripida collina che mi aprì una certa visuale sulla campagna circostante. Questa era coltivata in ogni sua parte, ma quello che mi stupì fu l’altezza dell’erba, forse fieno, capace di superare i sette metri. Capitai in una strada maestra, tale infatti mi sembrava quello che per gli abitanti del luogo non era che un viottolo attraverso un campo d’orzo, e mi inoltrai per un tratto, senza riuscire a vedere nulla o quasi da entrambi i lati, poiché si era ormai all’epoca del raccolto e il grano arrivava almeno a tredici metri. Mi ci volle un’ora per giungere alla fine del campo, recintato da una siepe alta più di trenta metri e con alberi così maestosi che non mi fu possibile calcolarne l’altezza. Per passare da un campo all’altro c’era un cavalcasiepi a quattro gradini, tenuto fermo da un pietrone poggiato sulla sommità. Non mi sognai nemmeno di dargli la scalata, perché i gradini erano alti un due metri e la pietra più di sei. Stavo appunto cercando un varco nella siepe, quando vidi all’improvviso un abitante di quel paese nel campo vicino, grande come quello che si era messo ad inseguire la barca. Era alto come un campanile e ad ogni passo percorreva, ad occhio e croce, una decina di metri. Pieno di di un terrore indicibile corsi a nascondermi fra il grano, da dove lo potei osservare mentre, in cima al cavalcasiepi, guardava indietro verso il campo percorso e lo udii gridare con una voce molto più alta di uno squillo di tromba; anzi era tale il frastuono che scuoteva l’aria che, in un primo momento, pensai che si trattasse di un tuono. Al che vennero altri sette mostri alti come lui armati di falcetti, ognuno dei quali era largo come sei delle nostre falci messe insieme. Vestiti molto più dimessamente del primo, sembravano i suoi servi o i suoi contadini e infatti, al suo comando, cominciarono a mietere il campo dove mi trovavo. Cercai di tenermi il più possibile lontano da loro, ma i miei movimenti erano impediti dagli steli del grano che lasciavano varchi di non più di trenta centimetri e attraverso i quali cercavo di insinuarmi. Mi detti comunque un gran daffare per raggiungere una parte del campo dove il grano era stato abbattuto dalla pioggia e dal vento; ma qui mi fu impossibile proseguire, perché gli steli formavano un groviglio così stretto, che non mi permetteva il passaggio; e poi le reste delle spighe abbattute erano così robuste e acuminate che mi bucarono tutto lacerandomi le vesti. Sentii in quel momento la voce dei mietitori a non più di cento metri alle mie spalle. Allo stremo delle forze, e sopraffatto dalla disperazione, mi distesi fra due solchi sperando di finire in quel luogo i miei giorni. Compiansi mia moglie, vedova inconsolabile e i miei figli orfani, deplorando la follia e l’ostinazione che, contro gli avvertimenti degli amici e dei parenti, mi avevano portato ad intraprendere un secondo viaggio. Stravolto com’ero, mi venne in mente Lilliput, i cui abitanti mi guardavano come il prodigio più grande che si potesse concepire, dove potevo tirare con una mano sola l’intera flotta imperiale e dove feci quelle imprese che nelle cronache dell’Impero resteranno a memoria perenne, testimonianza di milioni di uomini per i posteri increduli. Ed ora riflettevo sull’umiliazione che avrei dovuto provare nell’essere un’inezia in quel paese, quale potrebbe essere un lillipuziano fra noi. Ma questa era in fondo l’ultima delle mie disgrazie perché, se è vero che le creature umane sono più selvagge e crudeli in proporzione alla loro mole, cosa altro potevo aspettarmi, se non di diventare un boccone per il primo di questi barbari che avesse avuto la fortuna di acchiapparmi? Hanno proprio ragione i filosofi, quando dicono che grande o piccolo è solo questione di paragoni; e potrebbe darsi il caso che i lillipuziani scoprano una qualche terra dove gli abitanti sono rispetto a loro tanto minuscoli, quanto loro lo erano nei miei riguardi. E chi può dire che questa stessa prodigiosa razza di mortali possa essere a sua volta superata di gran lunga in qualche remota parte del mondo, di cui nulla sappiamo?
Atterrito e confuso com’ero, mi perdevo in queste riflessioni, quando uno dei mietitori giunse a meno di dieci metri da me. Sapevo ormai che alla prossima mossa sarei stato schiacciato dal suo piede o tranciato dal suo falcetto per cui, quando quello stava per muoversi, gridai con quanta forza avevo in corpo. Al che quella creatura colossale si fermò di colpo, ossevò tutt’intorno per un po’, finché mi vide acquattato per terra. Mi osservò con la cautela di chi cerca di acchiappare un qualche animaletto pericoloso evitandogli di mordere o di graffiare, come mi è capitato di fare con le donnole in Inghilterra. Alla fine si azzardò a prendermi dal di dietro, stringendomi la vita fra il pollice e l’indice, portandomi all’altezza dei suoi occhi e a una distanza di tre metri da essi, per potermi vedere meglio. Capii al volo la sua intenzione e per fortuna ebbi la presenza di spirito di non dibattermi mentre mi sollevava in aria, quantunque mi stringesse forte ai fianchi per paura che gli scivolassi fra le dita. Osai solo alzare gli occhi al cielo, giungendo le mani in atto supplichevole, pronunciando poche parole in tono umile e implorante, adatto alla condizione in cui mi trovavo, perché sentivo che in ogni momento mi avrebbe potuto sbattere per terra, come in genere si fa con certi animaletti rabbiosi che si vuole ammazzare. Per fortuna, lui sembrò attratto dalla mia voce e dai gesti e cominciò a guardarmi più con curiosità che con sospetto, meravigliato di sentirmi articolare la voce in parole che pure non poteva comprendere. Nel frattempo non potei trattenere i gemiti e le lacrime, girando la testa verso i fianchi, come per fargli capire il dolore che mi procurava la stretta delle sue dita. Lui sembrò capirmi, perché alzò la falda della giacca deponendomici sopra con delicatezza, mettendosi a correre verso il suo padrone, un facoltoso agricoltore, il primo che avevo visto nel campo. Dopo che il contadino ebbe raccontato al suo padrone di avermi trovato, come capii dal loro discorso, quest’ultimo, presa una pagliuzza grossa come un bastone da passeggio, mi alzò le falde della giacca, perché forse credeva che fossero delle protezioni naturali; poi mi soffiò sui capelli per guardarmi meglio il volto. Allora chiamò i vari garzoni e chiese loro se per caso avessero mai visto nei campi creature come me e quindi mi posò pian piano per terra sulle quattro gambe, ma io mi alzai subito in piedi e cominciai a passeggiare avanti e indietro assai lentamente, come per fare capire a quella gente che non avevo nessuna intenzione di fuggire. Loro si sedettero in circolo intorno a me per osservare meglio le mie mosse: mi tolsi il cappello e feci una gran riverenza verso l’agricoltore, poi m’inginocchiai alzando le mani e gli occhi al cielo, parlando più forte che potevo. Tirai fuori di tasca una borsa di monete d’oro e gliela porsi con deferenza; lui la tenne sul palmo della mano, se la portò vicinissima agli occhi per vedere di che cosa si trattava, poi, con la punta di uno spillo che sfilò da una manica, la rigirò più volte, senza tuttavia intuire cosa fosse. Gli feci capire di distendere la mano al suolo ed allora, aperta la borsa, riversai tutto l’oro sulla palma. Conteneva sei scudi spagnoli di quattro pistole l’uno ed altre venti o trenta monete spicciole; vidi che si bagnava con la saliva la punta del mignolo per prendere una o due monete d’oro, senza tuttavia rendersi conto di che cosa si trattava. Mi fece capire a segni di rimettere le monete nella scarsella e la scarsella in tasca, cosa che pensai opportuno di fare, dopo avergliela offerta più volte. L’agricoltore era ormai certo di trovarsi dinanzi ad una creatura dotata di ragione. Fu così che tentò più volte di parlarmi con quella sua voce che mi rintronava negli orecchi con il frastuono di un mulino a vento, sebbene le sue parole fossero variamente articolate. Gli risposi con tutto il fiato che avevo in corpo, in diverse lingue, mentre lui avvicinava l’orecchio ad un paio di metri; ma invano, perché era come se stessimo parlando fra sordi. Allora mandò i servi di nuovo al lavoro e tirò fuori di tasca il fazzoletto, spianandolo e piegandolo in due sulla mano distesa a terra con la palma rivolta verso l’alto, facendo segno di saltarci sopra. Non mi fu difficile obbedirgli, perché avevo davanti uno spessore di non più di trenta centimetri e, per paura di cadere, mi distesi tutto lungo, mentre lui mi rimboccò fino alla testa con il rimanente del fazzoletto. E in questo modo mi portò a casa sua.
Appena arrivato, chiamò sua moglie aprendo il fazzoletto: quella fece uno strillo e un salto indietro, come fanno le donne alla vista di un ragno o di un rospo. Ma quando pian pianino ebbe preso un po’ di confidenza con me ed ebbe visto come obbedivo a puntino ai segni che suo marito mi faceva, si riebbe ed anzi finì per affezionarmisi. Si era ormai a mezzogiorno e una fantesca portò in tavola il pranzo che consisteva in un’unica portata di carne, come si fa in casa dei contadini, in un piatto dal diametro di sette metri. Quella famiglia era composta dall’agricoltore e da sua moglie, tre figli e una nonna, una vecchia più di là che di qua. Quando si furono seduti, l’agricoltore mi posò a poca distanza da lui sulla tavola, alla vertiginosa altezza di quasi dieci metri da terra. Per paura di cadere cercavo di tenermi il più possibile lontano dagli orli. La moglie tagliò uno spilluzzico di carne, poi sminuzzò del pane sul piatto di legno e me lo mise davanti. Mi sentii in dovere di farle una bella riverenza e quindi, estratti il mio coltello e la mia forchetta, mi misi a mangiare con un gusto beato. La padrona mandò la fantesca a prendere un bicchierino da liquore della capacità di due galloni e lo riempì di vino; presi il vaso con tutte e due le mani e alzando a gran fatica bevvi alla salute della signora, urlando i migliori ossequi nella mia lingua, il che li fece scoppiare dal ridere, tanto che rimasi mezzo intontito dal fracasso. Quel vinello sapeva di sidro e non era poi male. Allora l’agricoltore mi fece segno di andare vicino al suo piatto, ma mentre camminavo sulla tavola tutto eccitato, come vorrà comprendere il lettore benevolo, inciampai su una crosta cadendo bocconi sulla tovaglia, senza tuttavia farmi male. Mi rialzai di scatto e vedendo che quella buona gente era rimasta spaventata, presi il cappello, che tenevo sotto il braccio secondo la buona creanza, e mulinandolo sopra il capo detti tre evviva per dimostrare che non mi ero fatto niente. Mentre mi avvicinavo a quello che d’ora in poi chiamerò il mio padrone, il più piccolo dei suoi figli, che gli sedeva accanto, un moccioso screanzato di una decina d’anni, mi sollevò per le gambe tenendomi sospeso tanto in alto, che tremavo da capo a piedi; ma suo padre mi strappò dalle sue mani affibbiandogli allo stesso tempo un tale ceffone sull’orecchio, da scaraventare a terra un reggimento di cavalleria, ordinandogli di alzarsi da tavola. Ma per paura che il bambino se la potesse prendere con me, e conoscendo bene la crudeltà dei bambini nei confronti dei passeri, dei conigli, dei cuccioli di gatti e di cani, mi inginocchiai e, indicando il figlio, feci capire al mio padrone che lo perdonasse. Il padre acconsentì e il bambino riprese il suo posto, mentre mi avvicinai alla sua mano per baciargliela; allora il padrone gliela prese costringendolo a farmi una specie di ruvida carezza. Si era a metà del pranzo, quando la gatta prediletta balzò in grembo alla padrona di casa. Sentii un rombo come avessi alle spalle una dozzina di telai al lavoro e, girandomi, mi accorsi che erano le fusa del gatto, un animale grande tre volte un bue, come potei capire dalla testa e da una zampa che sporgevano sulla tavola, mentre la padrona gli dava da mangiare accarezzandolo. L’aspetto feroce di questo animale mi scombussolò tutto, sebbene mi trovassi dall’altro lato del tavolo a più di quindici metri da lui, e la padrona lo tenesse stretto per paura che, con un balzo, mi afferrasse coi suoi artigli. Ma non c’era alcun pericolo, perché la gatta non mi degnò di uno sguardo quando il padrone mi mise a meno di dieci metri da lei. D’altra parte è un luogo comune e un’esperienza vissuta personalmente nei miei viaggi, che fuggire o mostrarsi impaurito dinanzi ad un animale, è il modo migliore per farsi inseguire. Così non detti il minimo segno di spavento, mi misi anzi a passare e ripassare impettito davanti alla testa della gatta, sempre più vicino, finché quella si tirò indietro quasi avesse paura di me. Dei due o tre cani che entrarono nella stanza, e ce ne sono sempre nelle case dei contadini, ebbi ancora meno spavento, sebbene uno di questi fosse un mastino dalle dimensioni di quattro elefanti messi insieme e l’altro un levriero, più alto ma meno imponente.
Alla fine del pranzo, entrò la balia con in braccio un poppante di un anno che, dopo avermi osservato per un po’, cominciò a strillare così forte, come fanno i bambini quando si impuntano per qualche capriccio, che dal Ponte di Londra le sue grida si sarebbero sentite fino a Chelsea. Presa da compassione, la madre mi prese e mi porse al bambino il quale, afferratomi per la vita, si ficcò la mia testa in bocca; mi misi a urlare così forte che il piccino si impaurì e mi lasciò cadere. Mi sarei senza dubbio rotto l’osso del collo, se la madre non avesse teso sotto di me il suo grembiule. Per placare il fanciullo, la balia ricorse a un sonaglio, costituito da una specie di orcio con dentro dei macigni e appeso al collo del poppante con un robusto canapo. Ma fu tutto inutile, tanto che fu costretta a dargli da poppare come ultimo rimedio. Devo confessare di non aver mai visto nulla di ripugnante quanto la sua mostruosa mammella che, per altro, non saprei a che cosa paragonare, per dare al curioso lettore un’idea della mole, della forma e del colore: traboccava per un due metri buoni e ne aveva almeno cinque di circonferenza. Il capezzolo era grosso quanto la metà della mia testa ed era, come tutta la mammella, talmente chiazzato e cosparso di lentiggini e pustole, che non c’era niente di più nauseante; e posso dire di averlo visto molto bene poiché, mentre la balia se ne stava seduta a dar da poppare a tutto suo agio, mi trovavo sopra la tavola. Questo spettacolo mi fece riflettere sulla pelle liscia e soave delle nostre donne che ci appare tanto attraente, perché sono della nostra dimensione, mentre i difetti sarebbero visibili solo attraverso una lente di ingrandimento. L’esperienza infatti ci insegna che anche la pelle più bianca e vellutata appare rugosa, ineguale e piena di chiazze vista a distanza ravvicinata. Mi ricordo che quando ero a Lilliput, la carnagione di quella minuscola gente mi sembrava la più bella di questo mondo ed anzi, fu proprio là che, parlando con un dotto mio amico, mi sentii dire che la mia faccia gli appariva assai più bella e liscia quando mi guardava da terra, di quanto lo fosse allorché lo sollevavo più vicino. Mi confessò che in questo caso gli si presentava davanti una vista sconvolgente: grandi crateri mi butteravano la pelle, fra i peli della barba dieci volte più grossi delle setole d’un cinghiale e le macchie che rendevano disuguale e ripugnante la carnagione, sebbene possa asserire a mio favore di non essermi mai abbronzato granché durante i viaggi e di non essere in fondo un campione disonorevole della mia razza. Se invece la discussione cadeva sulle dame della corte imperiale, lui mi diceva che una era lentigginosa, un’altra aveva la bocca a salvadanaro, un’altra ancora il naso a patata, mentre a me sembravano tutte perfette. Riconosco che si tratta di un’ovvia riflessione, ma ho dovuto pur farla perché il lettore non credesse che queste creature fossero deformi; mentre al contrario sono una razza ben fatta e, specie il mio padrone, sebbene fosse un contadino, aveva un portamento eretto e dignitoso, tratti gradevoli e membra proporzionate, quando lo guardavo dalla distanza di diciotto metri. Finito il pranzo, l’agricoltore uscì di casa per raggiungere i braccianti, non senza affidarmi prima alle cure e alla vigilanza della moglie, come capii dalle parole e dai gesti che le rivolse. Ero stanco e avevo un gran sonno, cosa che lei intuì benissimo, tanto e vero che mi depose sul suo letto coprendomi con un fazzoletto, bianco e pulito, ma più ruvido della vela maestra di un galeone. Dormii per un paio d’ore, durante le quali sognai di essere a casa con mia moglie e con i figli e quando mi svegliai nella solitudine di quella stanza enorme, alta fra i sessanta e i novanta metri, larga una cinquantina e sperduto in un letto di venti, sentii più pungente il dolore che avevo nel cuore. La mia padrona mi aveva chiuso in camera, mentre accudiva alle faccende. Un impellente bisogno mi spinse a tentare di scendere dal letto, ma questo era alto otto metri e d’altra parte pensai fosse inutile mettermi a urlare, vista la portata della mia voce e la sterminata distanza che mi divideva dalla cucina dove si trovavano gli altri. Mentre riflettevo sul da farsi, due topi si arrampicarono su per le coperte e cominciarono a trotterellare annusando qua e là per il letto. Uno di loro mi arrivò quasi al viso, al che, in uno scatto di paura, sguainai la sciabola per difendermi. Quegli orrendi animali ebbero il coraggio di attaccarmi da due parti ed uno di loro osò allungarmi una zampa sul colletto, ma ebbi la presenza di spirito di squarciargli la pancia prima che mi potesse fare del male. Mi cadde ai piedi esanime e l’altro, vista la sorte del compagno, sgusciò via non senza essersi beccato una sciabolata sul groppone che gli assestai mentre fuggiva, facendogli perdere una vera scia di sangue. Dopo questa avventura, mi misi a camminare lentamente per il letto per riprendere fiato e recuperare la calma. Questi topi erano grossi come mastini, ma più famelici e aggressivi, tanto che, se mi fossi tolto il cinturone prima di coricarmi, a quest’ora sarei stato senza dubbio ridotto in poltiglia e divorato. Misurata la coda del topo morto, mi accorsi che per un pelo non arrivava ai due metri: mi si rivoltava lo stomaco quando, ancora sanguinante, dovetti trascinare via la carogna dal letto. Oltretutto, non essendo ancora morto dovetti finirlo con un fendente sulla collottola. Quando di lì a poco entrò la padrona e mi vide tutto insanguinato, corse a prendermi per mano. Le indicai il topo morto, facendole capire che non ero ferito; lei non si teneva dalla contentezza e chiamò la fantesca che, preso il topo con un paio di molle, lo gettò dalla finestra. La padrona mi mise su di un tavolino ed io ne approfittai per mostrarle la spada insanguinata che, dopo averla asciugata con una falda della giacca, rinfilai nel fodero. Avevo da sbrigare un paio di quelle cosette che nessun altro poteva fare al mio posto e per questo cercai di far capire alla padrona che mi mettesse per terra. Lei mi accontentò, ed io non potevo far altro che indicarle la porta e inchinarmi parecchie volte, poiché mi vergognavo di farle capire le mie necessità con altri gesti.
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