DESCRIZIONE DEGLI ABITANTI.

 

La natura e il destino mi hanno sempre costretto ad una vita attiva  e senza  riposo,  tanto  che  a  due  mesi  dal  mio riorno in patria mi imbarcai   nell’Inghilterra   meridionale,    il   20   giugno   1702, sull’”Avventura”,  comandata  dal  capitano  Giovanni Nicholas,  della Cornovaglia, diretta a Surat.  Navigammo con il vento in poppa fino al Capo  di  Buona  Speranza,  dove  scendemmo  per  rifornirci  d’acqua.  Scoperta una falla,  scaricammo la merce per passare l’inverno in quei posti,  e poiché nel frattempo il capitano si era preso le febbri, non fu possibile riprendere il mare fino alla fine di marzo.  Spiegate  le vele,  facemmo  buon  viaggio  fino  oltre  lo stretto del Madagascar.  Quando fummo a nord di quell’isola, a circa cinque gradi di latitudine sud,  sebbene i venti soffino di solito in quei  paraggi  fra  nord  e ovest dall’inizio di dicembre ai primi di maggio, il 19 aprile si alzò un  vento  molto  più  impetuoso  del  solito  che  si mise a soffiare incessantemente da occidente per venti  giorni,  dirottandoci  ad  est delle  isole  Molucche  e  a  circa  tre  gradi  a  nord  della  linea dell’equatore, come rilevò il capitano il 2 di maggio.  Quel giorno il vento cadde e lasciò il posto a una calma assoluta di cui mi rallegrai non poco.  Ma lui,  che aveva sulle spalle la lunga esperienza di quei mari, ci ordinò di prepararci ad affrontare una tempesta che, infatti, non si fece aspettare: il giorno dopo cominciò a soffiare il vento  da sud, chiamato il monsone di mezzogiorno.

Prevedendo che si sarebbe presto scatenata una burrasca,  raccogliemmo la vela di tarchia,  pronti ad ammainare quella di trinchetto e poiché volgeva  al  peggio,  ci  assicurammo  che  i  cannoni fossero fissati saldamente e ammainammo l’albero di mezzana.  La nave  si  trovava  al largo  e  così  pensammo che sarebbe stato meglio affrontare i marosi, piuttosto che starcene lì a farci sballottare senza  governo.  Facemmo quindi terzaruolo della vela di trinchetto accodando le scotte, mentre il  timone  stava  con  la  barra tutta a vento.  La nave rispondeva a meraviglia.  Legammo quindi la drizza,  ma la vela era  squarciata  da cima a fondo,  così dovemmo ammainare il pennone,  tirando giù la vela sul ponte e togliendo di mezzo qualsiasi cosa  per  farle  posto.  Era proprio  un  violentissimo  fortunale  e  i  marosi s’infrangevano con pericoloso e insolito vigore.  Alammo la gomena dell’asta della  ghia, cercando di dare una mano al timoniere. Non volevamo infatti ammainare la gabbia di maestra, perché con la sua spinta affrontavamo assai bene le  onde e sapevamo che la gabbia di maestra dava alla nave stabilità, spingendola più sicura verso il mare,  che non ci  mancava  di  certo.  Quando  si  placò  la  tempesta,  spiegammo le vele di trinchetto e di maestra, facendo riprendere fiato alla nave.  Venne poi la volta delle vele di mezzana, della gabbia di maestra e di trinchetto. Veleggiavamo a  est-nord-est,  sospinti dal vento di sud-ovest.  Tirammo a bordo le murate di  destra,  mettemmo  fuori  i  bracci  di  sopravvento  e  le mantiglie;  ponemmo in opera i bracci di sottovento, procedendo con le boline ben strette; infine alammo l’attrezzatura di mezzana verso il vento, perché si gonfiasse il più possibile.  Durante la tempesta,  seguita da un forte vento di  sud-sud-ovest,  la nave  era stata trascinata,  secondo i calcoli,  per circa cinquecento leghe ad oriente,  tanto che anche il  più  vecchio  dei  marinai  non sapeva capacitarsi in che parte del mondo fossimo andati a finire. Non ci mancavano certo le provviste,  il vascello era solido, l’equipaggio in buona salute,  ma l’acqua era agli sgoccioli.  La cosa migliore era quella di tenere la stessa rotta,  piuttosto che dirigerci più a nord, col pericolo di andare a finire nelle  province  settentrionali  della gran Tartaria o nei mari glaciali.

Il  16 giugno 1703 un mozzo annunciò terra dall’albero maestro.  Il 17 potemmo vedere distintamente una grande isola  o  un  continente,  non sapevamo  infatti  di  quale dei due si trattasse,  da cui si spingeva verso sud una lingua di terra e un’insenatura dall’acqua troppo  bassa perché  ci  si  potesse  avventurare  una  nave  di  cento tonnellate.  Gettammo l’ancora a un miglio dall’insenatura e il capitano mandò  una dozzina dei suoi uomini armati,  in una barca provvista di recipienti, per vedere se c’era dell’acqua dolce. Chiesi il permesso di andare con loro per potere visitare quella terra  e  fare  possibilmente  qualche scoperta. Arrivati a terra non vedemmo né fiumi né sorgenti, né nessun segno di abitanti. Gli uomini si misero quindi a esplorare la spiaggia per scoprire qualche sorgente d’acqua dolce vicino al mare, mentre io, da solo, mi inoltrai per un miglio dalla parte opposta in quella terra desolata e rocciosa. Mi sentivo ormai stanco, e poiché non c’era nulla che  mi  avesse  interessato,  me  ne tornai indietro pian piano verso l’insenaturaa.  Quando fui in vista del mare vidi che gli uomini erano già  risaliti sulla scialuppa e remavano alla disperata verso la nave.  Stavo per chiamarli,  ma sarebbe stato vano,  quando  vidi  un  essere enorme  che  arrancava  in  mare  dietro di loro più forte che poteva.  L’acqua non gli arrivava oltre i ginocchi e faceva  passi  enormi,  ma loro avevano per fortuna un vantaggio di un mezzo miglio,  e poiché il mare intorno era costellato di scogli acuminati,  il mostro non riuscì a raggiungere la barca. Questo mi fu detto dopo, perché al momento non osai  seguire  le  cose  fino  in  fondo,  ma corsi a perdifiato nella direzione dalla quale ero venuto.  Salii quindi per una ripida collina che  mi aprì una certa visuale sulla campagna circostante.  Questa era coltivata in ogni sua parte,  ma quello  che  mi  stupì  fu  l’altezza dell’erba, forse fieno, capace di superare i sette metri.  Capitai in una strada maestra, tale infatti mi sembrava quello che per gli  abitanti  del  luogo  non era che un viottolo attraverso un campo d’orzo,  e mi inoltrai per un tratto,  senza riuscire a vedere nulla o quasi da entrambi i lati, poiché si era ormai all’epoca del raccolto e il  grano  arrivava  almeno  a  tredici metri.  Mi ci volle un’ora per giungere alla fine del campo,  recintato da  una  siepe  alta  più  di trenta  metri  e  con  alberi  così  maestosi  che non mi fu possibile calcolarne l’altezza.  Per passare da  un  campo  all’altro  c’era  un cavalcasiepi  a quattro gradini,  tenuto fermo da un pietrone poggiato sulla sommità.  Non mi sognai nemmeno di dargli la scalata,  perché  i gradini erano alti un due metri e la pietra più di sei.  Stavo appunto cercando un varco nella siepe,  quando vidi all’improvviso un abitante di quel paese nel campo vicino, grande come quello che si era messo ad inseguire  la  barca.  Era  alto  come  un  campanile  e ad ogni passo percorreva,  ad occhio e croce,  una decina di metri.  Pieno di di  un terrore indicibile corsi a nascondermi fra il grano,  da dove lo potei osservare mentre, in cima al cavalcasiepi,  guardava indietro verso il campo  percorso  e  lo udii gridare con una voce molto più alta di uno squillo di tromba; anzi era tale il frastuono che scuoteva l’aria che, in un primo momento,  pensai che si trattasse  di  un  tuono.  Al  che vennero  altri  sette mostri alti come lui armati di falcetti,  ognuno dei quali era largo come sei delle nostre falci messe insieme. Vestiti molto più dimessamente del primo,  sembravano i suoi servi  o  i  suoi contadini e infatti,  al suo comando,  cominciarono a mietere il campo dove mi trovavo.  Cercai di tenermi il più possibile lontano da  loro, ma  i  miei  movimenti  erano  impediti  dagli  steli  del  grano  che lasciavano varchi di non più di trenta centimetri e attraverso i quali cercavo  di  insinuarmi.   Mi  detti  comunque  un  gran  daffare  per raggiungere  una  parte  del  campo  dove il grano era stato abbattuto dalla pioggia e dal vento; ma qui mi fu impossibile proseguire, perché gli steli formavano un groviglio così stretto,  che non mi  permetteva il passaggio; e poi le reste delle spighe abbattute erano così robuste e acuminate che mi bucarono tutto lacerandomi le vesti. Sentii in quel momento  la  voce  dei  mietitori  a  non  più di cento metri alle mie spalle. Allo stremo delle forze, e sopraffatto dalla disperazione,  mi distesi fra due solchi sperando di finire in quel luogo i miei giorni.  Compiansi  mia  moglie,  vedova  inconsolabile  e i miei figli orfani, deplorando la follia e  l’ostinazione  che,  contro  gli  avvertimenti degli  amici  e  dei  parenti,  mi avevano portato ad intraprendere un secondo viaggio. Stravolto com’ero, mi venne in mente Lilliput,  i cui abitanti  mi  guardavano  come  il  prodigio più grande che si potesse concepire,  dove potevo tirare  con  una  mano  sola  l’intera  flotta imperiale  e  dove  feci quelle imprese che nelle cronache dell’Impero resteranno a memoria perenne, testimonianza di milioni di uomini per i posteri increduli. Ed ora riflettevo sull’umiliazione che avrei dovuto provare nell’essere un’inezia in quel paese,  quale potrebbe essere un lillipuziano  fra  noi.  Ma  questa  era  in  fondo l’ultima delle mie disgrazie perché,  se è vero che le creature umane sono più selvagge e crudeli  in proporzione alla loro mole,  cosa altro potevo aspettarmi, se non di diventare un boccone per il  primo  di  questi  barbari  che avesse  avuto  la  fortuna  di  acchiapparmi?  Hanno proprio ragione i filosofi,  quando dicono che grande o  piccolo  è  solo  questione  di paragoni;  e  potrebbe  darsi  il caso che i lillipuziani scoprano una qualche terra dove gli abitanti sono rispetto a loro tanto  minuscoli, quanto  loro  lo  erano  nei miei riguardi.  E chi può dire che questa stessa prodigiosa razza di mortali possa essere a sua  volta  superata di  gran  lunga  in  qualche  remota  parte  del  mondo,  di cui nulla sappiamo?

Atterrito e confuso com’ero, mi perdevo in queste riflessioni,  quando uno dei mietitori giunse a meno di dieci metri da me. Sapevo ormai che alla  prossima mossa sarei stato schiacciato dal suo piede o tranciato dal suo falcetto per cui, quando quello stava per muoversi, gridai con quanta forza avevo in corpo. Al che quella creatura colossale si fermò di colpo,  ossevò tutt’intorno per un po’,  finché mi vide  acquattato per  terra.  Mi  osservò con la cautela di chi cerca di acchiappare un qualche animaletto pericoloso evitandogli di mordere o  di  graffiare, come mi è capitato di fare con le donnole in Inghilterra. Alla fine si azzardò a prendermi dal di dietro, stringendomi la vita fra il pollice e l’indice,  portandomi all’altezza dei suoi occhi e a una distanza di tre metri da essi, per potermi vedere meglio.  Capii al volo la sua intenzione e per  fortuna  ebbi  la  presenza  di spirito  di non dibattermi mentre mi sollevava in aria,  quantunque mi stringesse forte ai fianchi per paura che gli scivolassi fra le  dita.  Osai  solo  alzare  gli  occhi  al  cielo,  giungendo  le mani in atto supplichevole,  pronunciando poche parole in tono umile e  implorante, adatto  alla condizione in cui mi trovavo,  perché sentivo che in ogni momento mi avrebbe potuto sbattere per terra, come in genere si fa con certi animaletti rabbiosi che si vuole  ammazzare.  Per  fortuna,  lui sembrò  attratto dalla mia voce e dai gesti e cominciò a guardarmi più con curiosità che con sospetto, meravigliato di sentirmi articolare la voce in parole che pure non  poteva  comprendere.  Nel  frattempo  non potei  trattenere  i  gemiti  e  le lacrime,  girando la testa verso i fianchi,  come per fargli capire il dolore che mi procurava la stretta delle sue dita.  Lui sembrò capirmi, perché alzò la falda della giacca deponendomici sopra con delicatezza, mettendosi a correre verso il suo padrone, un facoltoso agricoltore, il primo che avevo visto nel campo.  Dopo che il  contadino  ebbe  raccontato  al  suo  padrone  di  avermi trovato,  come  capii  dal  loro  discorso,  quest’ultimo,  presa  una pagliuzza grossa come un bastone da passeggio,  mi alzò le falde della giacca,  perché  forse  credeva che fossero delle protezioni naturali; poi mi soffiò sui capelli per guardarmi meglio il volto. Allora chiamò i vari garzoni e chiese loro se per caso avessero mai visto nei  campi creature  come  me e quindi mi posò pian piano per terra sulle quattro gambe, ma io mi alzai subito in piedi e cominciai a passeggiare avanti e indietro assai lentamente,  come per fare capire a quella gente  che non avevo nessuna intenzione di fuggire.  Loro si sedettero in circolo intorno a me per osservare meglio le mie mosse: mi tolsi il cappello e feci  una  gran  riverenza  verso  l’agricoltore,  poi  m’inginocchiai alzando  le mani e gli occhi al cielo,  parlando più forte che potevo.  Tirai fuori di tasca una borsa di monete  d’oro  e  gliela  porsi  con deferenza;  lui la tenne sul palmo della mano, se la portò vicinissima agli occhi per vedere di che cosa si trattava,  poi,  con la punta  di uno  spillo  che  sfilò  da  una  manica,  la rigirò più volte,  senza tuttavia intuire cosa fosse.  Gli feci capire di distendere la mano al suolo  ed allora,  aperta la borsa,  riversai tutto l’oro sulla palma.  Conteneva sei scudi spagnoli di quattro pistole l’uno ed altre venti o trenta monete spicciole;  vidi che si bagnava con la saliva  la  punta del  mignolo  per  prendere  una  o  due monete d’oro,  senza tuttavia rendersi conto di che cosa si trattava.  Mi fece  capire  a  segni  di rimettere le monete nella scarsella e la scarsella in tasca,  cosa che pensai opportuno di fare, dopo avergliela offerta più volte.  L’agricoltore era ormai certo di  trovarsi  dinanzi  ad  una  creatura dotata di ragione.  Fu così che tentò più volte di parlarmi con quella sua voce che mi rintronava negli orecchi con il frastuono di un mulino a vento,  sebbene le sue parole  fossero  variamente  articolate.  Gli risposi  con  tutto  il  fiato che avevo in corpo,  in diverse lingue, mentre lui avvicinava l’orecchio ad  un  paio  di  metri;  ma  invano, perché  era come se stessimo parlando fra sordi.  Allora mandò i servi di nuovo al lavoro e tirò fuori di tasca il fazzoletto,  spianandolo e piegandolo  in  due  sulla  mano  distesa a terra con la palma rivolta verso l’alto,  facendo segno di saltarci sopra.  Non mi  fu  difficile obbedirgli,  perché  avevo  davanti  uno spessore di non più di trenta centimetri e, per paura di cadere, mi distesi tutto lungo,  mentre lui mi  rimboccò  fino  alla  testa con il rimanente del fazzoletto.  E in questo modo mi portò a casa sua.

Appena arrivato,  chiamò sua moglie aprendo il fazzoletto: quella fece uno strillo e un salto indietro,  come fanno le donne alla vista di un ragno o di un rospo.  Ma quando pian pianino  ebbe  preso  un  po’  di confidenza  con  me ed ebbe visto come obbedivo a puntino ai segni che suo marito mi faceva,  si riebbe ed anzi finì per  affezionarmisi.  Si era  ormai  a mezzogiorno e una fantesca portò in tavola il pranzo che consisteva in un’unica portata di  carne,  come  si  fa  in  casa  dei contadini,  in un piatto dal diametro di sette metri.  Quella famiglia era composta dall’agricoltore e da sua moglie,  tre figli e una nonna, una  vecchia  più  di    che  di  qua.   Quando  si  furono  seduti, l’agricoltore mi posò a  poca  distanza  da  lui  sulla  tavola,  alla vertiginosa altezza di quasi dieci metri da terra.  Per  paura di cadere cercavo di tenermi il più possibile lontano dagli orli. La moglie tagliò uno spilluzzico di carne, poi sminuzzò del pane sul piatto di legno e me lo mise davanti. Mi sentii in dovere di farle una bella riverenza e quindi,  estratti  il  mio  coltello  e  la  mia forchetta,  mi misi a mangiare con un gusto beato. La padrona mandò la fantesca a prendere un bicchierino da liquore della  capacità  di  due galloni  e lo riempì di vino;  presi il vaso con tutte e due le mani e alzando a gran fatica bevvi  alla  salute  della  signora,  urlando  i migliori  ossequi  nella  mia  lingua,  il  che  li fece scoppiare dal ridere,  tanto che rimasi mezzo intontito dal fracasso.  Quel  vinello sapeva di sidro e non era poi male. Allora l’agricoltore mi fece segno di andare vicino al suo piatto, ma mentre camminavo sulla tavola tutto eccitato, come vorrà comprendere il lettore benevolo, inciampai su una crosta cadendo bocconi sulla tovaglia,  senza tuttavia farmi male.  Mi rialzai di scatto  e  vedendo  che  quella  buona  gente  era  rimasta spaventata,  presi il cappello, che tenevo sotto il braccio secondo la buona creanza,  e mulinandolo sopra  il  capo  detti  tre  evviva  per dimostrare che non mi ero fatto niente.  Mentre mi avvicinavo a quello che d’ora in poi chiamerò il mio padrone,  il  più  piccolo  dei  suoi figli,  che  gli sedeva accanto,  un moccioso screanzato di una decina d’anni,  mi sollevò per le gambe tenendomi sospeso tanto in alto,  che tremavo  da  capo  a  piedi;  ma  suo  padre mi strappò dalle sue mani affibbiandogli allo stesso tempo un  tale  ceffone  sull’orecchio,  da scaraventare  a  terra  un  reggimento di cavalleria,  ordinandogli di alzarsi da tavola.  Ma per paura che il bambino se la potesse prendere con  me,  e  conoscendo bene la crudeltà dei bambini nei confronti dei passeri, dei conigli, dei cuccioli di gatti e di cani, mi inginocchiai e, indicando il figlio,  feci capire al mio padrone che lo perdonasse.  Il  padre  acconsentì  e  il  bambino riprese il suo posto,  mentre mi avvicinai alla sua mano per baciargliela;  allora  il  padrone  gliela prese costringendolo a farmi una specie di ruvida carezza.  Si  era a metà del pranzo,  quando la gatta prediletta balzò in grembo alla padrona di casa.  Sentii un rombo come  avessi  alle  spalle  una dozzina di telai al lavoro e,  girandomi, mi accorsi che erano le fusa del gatto, un animale grande tre volte un bue, come potei capire dalla testa e da una zampa che sporgevano sulla tavola,  mentre  la  padrona gli  dava  da  mangiare  accarezzandolo.  L’aspetto  feroce  di questo animale mi scombussolò tutto,  sebbene mi trovassi dall’altro lato del tavolo a più di quindici metri da lui, e la padrona lo tenesse stretto per paura che,  con un balzo,  mi afferrasse coi suoi artigli.  Ma non c’era alcun pericolo,  perché la gatta non mi  degnò  di  uno  sguardo quando il padrone mi mise a meno di dieci metri da lei.  D’altra parte è un luogo comune  e  un’esperienza  vissuta  personalmente  nei  miei viaggi,  che fuggire o mostrarsi impaurito dinanzi ad un animale, è il modo migliore per farsi inseguire.  Così non detti il minimo segno  di spavento,  mi  misi  anzi a passare e ripassare impettito davanti alla testa della gatta,  sempre più vicino,  finché quella si tirò indietro quasi  avesse  paura  di  me.  Dei  due o tre cani che entrarono nella stanza, e ce ne sono sempre nelle case dei contadini, ebbi ancora meno spavento,  sebbene uno di questi fosse un mastino dalle dimensioni  di quattro elefanti messi insieme e l’altro un levriero, più alto ma meno imponente.

Alla fine del pranzo,  entrò la balia con in braccio un poppante di un anno che, dopo avermi osservato per un po’,  cominciò a strillare così forte, come fanno i bambini quando si impuntano per qualche capriccio, che  dal  Ponte  di  Londra  le  sue grida si sarebbero sentite fino a Chelsea. Presa da compassione, la madre mi prese e mi porse al bambino il quale, afferratomi per la vita, si ficcò la mia testa in bocca;  mi misi a urlare così forte che il piccino si impaurì e mi lasciò cadere.  Mi  sarei senza dubbio rotto l’osso del collo,  se la madre non avesse teso sotto di me il suo grembiule. Per placare il fanciullo,  la balia ricorse  a  un sonaglio,  costituito da una specie di orcio con dentro dei macigni e appeso al collo del poppante con un robusto  canapo.  Ma fu  tutto  inutile,  tanto  che  fu costretta a dargli da poppare come ultimo rimedio.  Devo confessare  di  non  aver  mai  visto  nulla  di ripugnante quanto la sua mostruosa mammella che, per altro, non saprei a che cosa paragonare, per dare al curioso lettore un’idea della mole, della forma e del colore: traboccava per un due metri buoni e ne aveva almeno cinque di circonferenza. Il capezzolo era grosso quanto la metà della mia testa ed era,  come tutta la mammella,  talmente chiazzato e cosparso di  lentiggini  e  pustole,  che  non  c’era  niente  di  più nauseante;  e posso dire di averlo visto molto bene poiché,  mentre la balia se ne stava seduta a dar da poppare a tutto suo agio, mi trovavo sopra la tavola.  Questo spettacolo mi  fece  riflettere  sulla  pelle liscia  e  soave  delle  nostre  donne  che ci appare tanto attraente, perché sono  della  nostra  dimensione,  mentre  i  difetti  sarebbero visibili  solo  attraverso  una  lente di ingrandimento.  L’esperienza infatti ci insegna che anche la pelle più bianca  e  vellutata  appare rugosa, ineguale e piena di chiazze vista a distanza ravvicinata.  Mi  ricordo  che  quando  ero  a  Lilliput,  la  carnagione  di quella minuscola gente mi sembrava la più bella di questo mondo ed  anzi,  fu proprio là che, parlando con un dotto mio amico, mi sentii dire che la mia faccia gli appariva assai più bella e liscia quando mi guardava da terra,  di  quanto  lo  fosse  allorché  lo  sollevavo più vicino.  Mi confessò che in questo  caso  gli  si  presentava  davanti  una  vista sconvolgente: grandi crateri mi butteravano la pelle, fra i peli della barba  dieci volte più grossi delle setole d’un cinghiale e le macchie che rendevano disuguale e  ripugnante  la  carnagione,  sebbene  possa asserire  a mio favore di non essermi mai abbronzato granché durante i viaggi e di non essere in fondo un  campione  disonorevole  della  mia razza.  Se  invece  la  discussione  cadeva  sulle  dame  della  corte imperiale,  lui mi diceva che una era lentigginosa,  un’altra aveva la bocca  a  salvadanaro,  un’altra ancora il naso a patata,  mentre a me sembravano  tutte  perfette.  Riconosco  che  si  tratta  di  un’ovvia riflessione, ma ho dovuto pur farla perché il lettore non credesse che queste  creature  fossero deformi;  mentre al contrario sono una razza ben fatta e, specie il mio padrone, sebbene fosse un contadino,  aveva un   portamento   eretto  e  dignitoso,   tratti  gradevoli  e  membra proporzionate, quando lo guardavo dalla distanza di diciotto metri.  Finito il  pranzo,  l’agricoltore  uscì  di  casa  per  raggiungere  i braccianti, non senza affidarmi prima alle cure e alla vigilanza della moglie, come capii dalle parole e dai gesti che le rivolse. Ero stanco e avevo un gran sonno,  cosa che lei intuì benissimo, tanto e vero che mi depose sul suo letto coprendomi con un fazzoletto, bianco e pulito, ma più ruvido della vela maestra di un galeone.  Dormii per un paio d’ore, durante le quali sognai di essere a casa con mia moglie e con i figli e quando  mi  svegliai  nella  solitudine  di quella stanza enorme, alta fra i sessanta e i novanta metri, larga una cinquantina  e  sperduto in un letto di venti,  sentii più pungente il dolore che avevo nel cuore.  La mia padrona mi aveva chiuso in camera, mentre  accudiva  alle  faccende.  Un  impellente  bisogno mi spinse a tentare di scendere dal letto, ma questo era alto otto metri e d’altra parte pensai fosse inutile mettermi a urlare,  vista la portata  della mia voce e la sterminata distanza che mi divideva dalla cucina dove si trovavano  gli  altri.  Mentre  riflettevo  sul da farsi,  due topi si arrampicarono  su  per  le  coperte  e  cominciarono  a  trotterellare annusando qua e là per il letto.  Uno di loro mi arrivò quasi al viso, al che,  in uno scatto di paura,  sguainai la sciabola per difendermi.  Quegli  orrendi  animali ebbero il coraggio di attaccarmi da due parti ed uno di loro osò allungarmi una  zampa  sul  colletto,  ma  ebbi  la presenza  di  spirito  di  squarciargli la pancia prima che mi potesse fare del male. Mi cadde ai piedi esanime e l’altro, vista la sorte del compagno,  sgusciò via non senza essersi beccato  una  sciabolata  sul groppone che gli assestai mentre fuggiva,  facendogli perdere una vera scia di sangue. Dopo questa avventura,  mi misi a camminare lentamente per  il letto per riprendere fiato e recuperare la calma.  Questi topi erano grossi come mastini, ma più famelici e aggressivi, tanto che, se mi fossi tolto il cinturone prima  di  coricarmi,  a  quest’ora  sarei stato  senza dubbio ridotto in poltiglia e divorato.  Misurata la coda del topo morto,  mi accorsi che per un pelo non arrivava ai due metri: mi  si  rivoltava  lo  stomaco  quando,  ancora  sanguinante,  dovetti trascinare via la carogna dal letto.  Oltretutto,  non essendo  ancora morto dovetti finirlo con un fendente sulla collottola.  Quando  di    a  poco entrò la padrona e mi vide tutto insanguinato, corse a prendermi per mano. Le indicai il topo morto, facendole capire che non ero ferito;  lei non si teneva dalla contentezza e  chiamò  la fantesca  che,  preso  il  topo  con un paio di molle,  lo gettò dalla finestra.  La padrona mi mise su di un tavolino ed io  ne  approfittai per mostrarle la spada insanguinata che, dopo averla asciugata con una falda della giacca,  rinfilai nel fodero. Avevo da sbrigare un paio di quelle cosette che nessun altro poteva fare al mio posto e per  questo cercai  di  far capire alla padrona che mi mettesse per terra.  Lei mi accontentò,  ed io non potevo far  altro  che  indicarle  la  porta  e inchinarmi  parecchie  volte,  poiché mi vergognavo di farle capire le mie necessità con altri gesti.