Se il travestimento si sia prodotto consciamente oppure inconsciamente, è questione psicologica che in questa sede non ci interessa. Chi la volesse approfondire probabilmente ricercherà in pari tempo come sia stato possibile che a un dato momento un uomo di paglia, quale indubbia mente è Lexis, abbia potuto difendere ancor una volta un’assurdità come quella del bimetallismo.
Il primo, che abbia effettivamente tentato di rispondere alla questione, fu il dott. Conrad Schmidt nel volume Die Durchschnitts profitrate auf Grundiage des Marxschen Wertgesetzes, Stoccarda, Dietz, 1889. Schmidt cerca di far concordare i particolari della formazione del prezzo di mercato sia con la legge del valore che con il saggio medio del profitto. Il capitalista industriale riceve nel suo prodotto, in primo luogo l’equivalente del capitale che ha anticipato, in secondo luogo un plusprodotto, per il quale non ha pagato nulla. Per ottenere però questo plusprodotto, egli deve anticipare nella produzione il suo capitale; cioè per appropriarsi il plusprodotto deve impiegare una determinata quantità di lavoro oggettivato. Per il capitalista questo suo capitale anticipato rappresenta dunque la quantità di lavoro oggettivato che è socialmente necessaria per procurargli il plusprodotto. Lo stesso vale per ogni altro capitalista industriale. Ora, dato che i prodotti, in virtù della legge del valore, si scambiano in proporzione del lavoro socialmente necessario per produrli e dato che il lavoro occorrente al capitalista per il conseguimento del plusprodotto è appunto il lavoro passato, accumulato nel suo capitale, ne consegue che i plusprodotti si scambiano in ragione dei capitali occorsi per la loro produzione e non già in proporzione del lavoro in essi effettivamente incorporato. La quota spettante a ciascuna unità di capitale è dunque eguale al totale di tutti i plusvalori prodotti diviso per il totale dei capitali impiegati allo scopo. Conseguentemente eguali capitali fruttano, in identici periodi di tempo, eguali profitti, risultato che si realizza in quanto il prezzo di costo del plusprodotto, cioè il profitto medio, calcolato nel modo suddetto, si cumula con il prezzo di costo del prodotto pagato e tale prezzo maggiorato diventa il prezzo di vendita del prodotto complessivo, pagato e non pagato. Il saggio medio del profitto si forma nonostante che, come ritiene Schmidt, i prezzi medi delle singole merci si determinino secondo la legge del valore.
La costruzione è assai ingegnosa, conforme al metodo hegeliano; però ha in comune con la maggior parte delle costruzioni hegeliane di non essere esatta. Fra plusprodotto e prodotto pagato non c’è alcuna differenza: se la legge del valore dovesse avere immediata applicazione anche per i prezzi medi, il plusprodotto e il prodotto pagato dovrebbero essere venduti in ragione del lavoro socialmente necessario richiesto e consumato per la loro produzione. La legge del valore è a priori in opposizione con la tesi, derivata dalla concezione capitalistica, secondo cui il lavoro passato, accumulato, in cui consiste il capitale, non sarebbe semplicemente una determinata quantità di valore finito ma, in quanto fattore della produzione e del processo produttivo del profitto, anche generatore di valore, cioè fonte di ulteriore valore oltre quello che esso stesso rappresenta; la legge del valore afferma che tale proprietà spetta solo al lavoro vivente. È noto che i capitalisti si attendono profitti direttamente proporzionali alla quantità dei loro capitali e che quindi considerano le loro anticipazioni di capitale come una specie di prezzo di costo del loro profitto. Ma quando Schmidt ricorre a tale tesi per conciliare con la legge del valore i prezzi calcolati secondo il saggio medio del profitto, egli sopprime la legge stessa del valore, in quanto vi incorpora, come uno dei fattori determinanti, una concezione che è con essa in completa contraddizione.
O il lavoro accumulato è creatore di valore al pari del lavoro vivente. E allora la legge del valore cade. Oppure tale proprietà gli manca. E in tale ipotesi la dimostrazione di Schmidt è incompatibile con la legge del valore.
Schmidt fu portato fuori strada quando era già assai vicino alla soluzione, perchè credeva di dover trovare una formula possibilmente matematica che dimostrasse la concordanza del prezzo medio di ogni singola merce con la legge del valore. Se egli proprio in prossimità della meta prese una via sbagliata, altre parti della sua pubblicazione dimostrano peraltro con quale penetrazione egli abbia tratto ulteriori conclusioni dai primi due Libri del Capitale. A lui spetta l’onore di aver trovato per proprio conto l’esatta spiegazione data da Marx nella terza sezione di questo Libro in merito alla finora inesplicabile tendenza alla diminuzione del saggio del profitto; e sua è la derivazione del profitto commerciale dal plusvalore industriale, nonché tutta una serie di considerazioni sull’interesse e sulla rendita fondiaria, in cui sono anticipati argomenti, che Marx sviluppa nella quarta e quinta sezione di questo terzo Libro.
In un successivo lavoro (Neue Zeit, 1892-93, nn. 3 e 4) Schmidt tenta la soluzione per un’altra via. La quale sbocca in questa proposizione: essere la concorrenza quella che determina il saggio medio del profitto, in quanto essa provoca il trasferimento di capitale da settori di produzione superiore con profitto inferiore al medio, a settori con profitto superiore, al medio. Che la concorrenza sia la grande livellatrice dei profitti, non è affermazione nuova. Ma Schmidt cerca di dimostrare ,che tale livellamento dei profitti si identifica con la riduzione del prezzo di vendita delle merci, prodotte in esuberanza, alla misura di valore che la società può per esse pagare secondo la legge del valore. La ragione per cui nemmeno questa via poteva condurre alla meta si ricava a sufficienza dalle considerazioni esposte da Marx in questo Libro.
Dopo Schmidt, affrontò il problema P. Fireman (Conrads Jahrbucher, terza serie, [1892] III, p. 793). Io non mi addentrerò nelle considerazioni ivi esposte in merito a taluni lati della esposizione di Marx. Esse sono frutto dell’equivoco di aver supposto che Marx. volesse definire là dove invece si limitava, ad analizzare, e che in Marx si debbano in genere cercare definizioni belle e pronte, valide per ogni caso.
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