«Mai», fu la risposta. «Bene», disse K. e appese il ricevitore.
Alle sue spalle i contadini lo serravano già da presso. Gli aiutanti si davano da fare per tenerli a distanza e intanto lanciavano continue occhiate a K. Ma aveva l'aria di essere tutta una commedia, del resto i contadini, soddisfatti dell'esito della conversazione, a poco a poco si ritiravano. Fu allora che un uomo giunse alle spalle del gruppo, lo fendette con passo veloce, s'inchinò davanti a K. e gli consegnò una lettera. K. la tenne in mano e osservò l'uomo, che per il momento gli pareva più importante. C'era una grande somiglianza fra lui e gli aiutanti, era snello come loro, indossava abiti altrettanto attillati, si muoveva con la stessa agile scioltezza, eppure era molto diverso. Certo K. avrebbe preferito avere lui come aiutante, e di gran lunga! Un po' gli ricordava la donna con il lattante che aveva vista in casa del conciatore. Il suo vestito era quasi bianco, non doveva essere di seta, era un abito invernale come tutti gli altri, eppure aveva la delicatezza e la solennità di un abito di seta. L'uomo aveva un viso chiaro e aperto, gli occhi erano immensi. Il suo sorriso era estremamente rincuorante; egli si passò la mano sulla faccia come per scacciare quel sorriso, ma non ci riuscì. «Chi sei?», chiese K. «Mi chiamo Barnabas», disse l'uomo. «Sono un messaggero». Nel parlare le sue labbra si aprivano e chiudevano virilmente ma con dolcezza. «Ti piace questo posto?», chiese K. indicando i contadini, ai cui occhi egli non aveva perduto d'interesse e che lo guardavano con le loro facce letteralmente tormentate - il cranio, in alto, pareva appiattito a suon di botte, e i tratti del viso si erano plasmati nel dolore dei colpi ricevuti -, le labbra tumefatte, le bocche aperte; però non sempre lo guardavano, perché a volte il loro sguardo si fuorviava e prima di tornare a lui indugiava su qualche oggetto indifferente; poi K. gl'indicò gli aiutanti che si tenevano abbracciati a guancia a guancia, con un sorriso che non si capiva se fosse di umiltà o di scherno, indicò tutti costoro come per presentargli un suo seguito che circostanze particolari gli avessero imposto e aspettasse - in ciò vi era una certa confidenza, ed era questa che a K. importava - che Barnabas facesse una stabile distinzione fra lui e loro. Ma Barnabas - in tutta innocenza, questo era evidente - non raccolse la domanda, la lasciò passare su di sé come fa un servitore beneducato quando il suo padrone si rivolge a lui solo in apparenza, si limitò, in ossequio ad essa, a guardarsi intorno, salutò con la mano alcuni contadini di sua conoscenza e scambiò due parole con gli aiutanti, il tutto con la disinvoltura di chi non dipende da nessuno, e senza mescolarsi a quella gente. K., respinto ma non umiliato, tornò alla lettera che teneva in mano e l'aprì. Il testo diceva: «Egregio Signore! Come le è noto, Lei è entrato al servizio del Signor Conte. Il suo diretto superiore è il sindaco del paese che Le trasmetterà istruzioni più precise in merito al suo lavoro e alla sua remunerazione, e al quale Lei dovrà rendere conto di ogni cosa. Tuttavia nemmeno io la perderò di vista. Barnabas, il latore della presente, verrà da Lei di tanto in tanto per informarsi dei suoi desideri e comunicarmeli. Nei limiti del possibile, mi troverà sempre pronto ad accontentarLa.
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