Ma io, che non potevo rendermene conto, mi figuravo d’averle rivolto parole significative. Credevo di aver dichiarato il mio amore a una persona insensibile. Dimenticavo che il signor Grangier e sua moglie avrebbero potuto sentire senza il minimo inconveniente tutto quello che avevo detto alla figlia; ma, io, sarei stato capace di dirglielo in loro presenza?
“Marta non m’intimidisce,” mi ripetevo. “Dunque, solo i suoi genitori e mio padre mi impediscono di piegarmi sul suo collo, e baciarla.”
In fondo a me stesso un altro ragazzo si felicitava della presenza di quegli importuni.
Pensavo:
“Che fortuna non trovarmi solo con lei! Non oserei lo stesso baciarla, e non avrei nessuna scusa.”
Così bara il timido.
Dovevamo riprendere il treno alla stazione di Sucy. C’era da aspettare una buona mezz’ora; sedemmo a un caffè, all’aperto. Dovetti sopportare i complimenti della signora Grangier. Mi umiliavano. Ricordavano alla figlia che ero ancora un alunno di liceo, che avrebbe dato l’esame di licenza fra un anno. Marta chiese una granatina; ne ordinai una anch’io.
Mio padre non ci capiva nulla. Lasciava sempre che prendessi degli aperitivi. Temetti che mi burlasse per la mia sobrietà. Lo fece, ma con parole coperte, in modo che Marta non potesse indovinare che bevevo la granatina per fare come lei.
Arrivati a F…, salutammo i Grangier. Promisi a Marta di portarle il giovedì seguente la collezione del giornale “Le Mot” e “Une saison en Enfer”.
“Un altro titolo che piacerebbe al mio fidanzato!”
Rideva.
“Marta!”, disse, corrugando le sopracciglia, la madre che si scandalizzava sempre di trovarla così poco sottomessa.
Mio padre e i miei fratelli s’erano annoiati; che importava! La felicità è egoista.
Il giorno dopo, al liceo, non sentii il bisogno di raccontare a Renato, a cui dicevo tutto, la mia giornata della domenica: non ero in vena di sopportare che egli mi burlasse perché non avevo baciato Marta di nascosto. Un’altra cosa mi stupiva: trovavo quel giorno Renato meno diverso dagli altri compagni.
Dando il mio amore a Marta, ne toglievo a Renato, ai miei genitori, alle mie sorelle.
Mi ripromettevo certo di fare lo sforzo di volontà di non andar da lei prima del giorno fissato. Pure, il martedì, non potendo aspettare, seppi trovare buone scuse alla mia debolezza, delle scuse che mi permettessero di portarle dopo pranzo il libro e i giornali. Nella mia impazienza Marta vedrà, dicevo, la prova del mio amore, e, se rifiuta di vederla, saprò costringervela.
Per un quarto d’ora, corsi come un pazzo fino a casa sua. Allora, temendo di disturbarla mentr’era a tavola, aspettai, tutto sudato, dieci minuti innanzi al cancello. Pensavo che intanto le mie palpitazioni di cuore sarebbero cessate. Crescevano, invece; per poco non tornai indietro, ma, da qualche minuto, a una finestra vicina, una donna mi guardava curiosa di sapere che cosa facevo, rifugiato contro quella porta.
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